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La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

di Pietro Masci

Esperto di politiche pubbliche e docente dell’Istituto Studi Europei.


Introduzione e Sommario

Il 22 settembre scorso sono state definite le domande per il referendum costituzionale di modifica della Costituzione italiana che si terrà il 4 dicembre. Gli elettori italiani sono chiamati ad approvare o respingere la riforma costituzionale, che prevede un significativo cambiamento nella struttura del Senato ed altre modifiche relative al funzionamento dello Stato ed i rapporti con le Regioni.
Il referendum non prevede un quorum, vale a dire che non ci sarà bisogno di un numero minimo di votanti per considerarne valido l’esito. Il voto referendario prevede “si” per l’approvazione della riforma e “no” per il rifiuto della riforma.
Il referendum riguarda numerosi temi abbastanza complessi e tecnici e con molte implicazioni e appare difficile definire un testo dei quesiti chiaro, esplicativo, esauriente ed allo stesso tempo neutrale. Al di là delle varie giustificazioni e interpretazioni che le parti sostengono in merito ai quesiti, è sufficiente leggere il testo che sarà sottoposto agli elettori – riportato qui di seguito – per concludere che i quesiti soddisfano il requisito della chiarezza, ma non quello della neutralità. Il Movimento 5 Stelle ha presentato ricorso.

Quesiti referendari:

o “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario”
o “Riduzione nel numero del parlamentari”
o “Il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni”
o “Soppressione del CNEL”
o “Revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”.

Il presente articolo intende rispondere alle seguenti domande:

• quale sono le conseguenze della proposta di riforma costituzionale sul sistema giuridico-politico?;
e
• quale è l’impatto della proposta riforma costituzionale sulla crescita economica del Paese?

Per verificare le due domande, l’articolo segue un percorso noto in letteratura che involve qualità delle istituzioni, governance, corruzione, decadimento istituzionale e riduzione delle opportunità e della crescita economica (Dixit, A. 2009. Governance Institutions and Economic Activity. The American Economic Review, 99(1), 3-24). Il metodo d’analisi utilizza la letteratura in materia e l’esperienza nel funzionamento dei sistemi politici di vari paesi e sopratutto Italia e Stati Uniti che conosco meglio.

L’analisi delle conseguenze che la riforma della Costituzione italiana soggetta a referendum potrà avere sul sistema giuridico-politico e la c.d. governance- vale a dire le tradizioni e le istituzioni attraverso i quali è esercitato il potere – fa riferimento a come la riforma proposta influenza alcuni principi fondamentali: il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico e particolarmente il tema della superiorità dei principi, valori e regole inseriti nella Carta Costituzionale; il ruolo della maggioranza in un regime democratico; la stabilità; il collegamento tra eletti nelle istituzioni ed elettori; la riduzione dei costi dell’apparato statale. In tale contesto, l’analisi considera come la riforma intacchi principi fondamentali per il funzionamento democratico: l’esigenza di c.d. pesi e contrappesi – checks and balances – che servono a tutelare la minoranza ed evitare la dittatura della maggioranza, e la c.d. rule of law (nota 1) , cruciale per il corretto funzionamento di una democrazia e per la sua sostenibilità (Gosalbo-Bono Ricardo. 2010. The Significance of the Rule of Law and its Implications for the European Union and the United States. University of Pittsburgh Law Review, ISSN: 0041-9915, Vol: 72, Issue: 2).

L’articolo considera poi le misure della governance utilizzate dalla Banca Mondiale e applicate ai vari paesi -inclusa la corruzione – e come la carenza di regole efficaci che disciplinano gli aspetti fondamentali della vita politica riduca la qualità delle istituzioni ed il livello della governance e faciliti la corruzione e il ruolo del denaro in politica determinando una spirale di decadimento istituzionale, politico e sociale ed economico. In tale contesto, l’articolo si sofferma sulle possibili conseguenze economiche della riforma costituzionale proposta.

Le conclusioni s’incentrano sulla necessità che un sistema giuridico-politico mantenga la qualità dell’assetto istituzionale e riesca ad identificare gli incentivi che facciano emergere e premino comportamenti virtuosi e permettano un corretto funzionamento delle istituzioni. In tal senso, l’elezione diretta dei rappresentanti costituisce un elemento essenziale al funzionamento democratico e concorrenziale, permette il controllo degli eletti e fornisce legittimità a tutto il sistema.

La Proposta di Riforma Costituzionale e alcuni Principi Fondamentali

a. Il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico.

La Costituzione – sotto qualsiasi latitudine- rappresenta il testo fondamentale del sistema giuridico-politico di un paese, dove emergono i valori, i principi e le regole ai quali l’ordinamento giuridico s’ispira. Per tale ragione, la Costituzione e le sue modifiche non possono che essere un testo largamente condiviso, raggiunto con compromessi che coinvolgono le varie forze politiche.

La Costituzione italiana – nata dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza- costituisce la legge fondamentale, influenzata principalmente dalle culture cattolica e socialista e dall’esperienza fascista. La Costituzione rappresenta il risultato di un lavoro lungo e di un largo

consenso nonchè di compromessi, proprio perchè stabilisce valori, principi e regole condivisi per alcuni dei quali esiste anche una diversa impostazione (e pertanto è spesso necessario un compromesso).

L’argomento che talvolta viene utilizzato per giustificare la modifica della Costituzione s’incentra sulla circostanza che sono trascorsi circa 70 anni dalla sua approvazione, i tempi sono cambiati e pertanto la Carta Costituzionale deve adattarsi. In proposito, si trascura la circostanza che valori, principi e regole non sono temporanei, ma di lungo periodo. In ogni caso, l’età della Costituzione non fa venir meno, anzi rafforza, il requisito fondamentale per le modifiche: un vasto consenso. La Costituzione degli Stati Uniti risale al 1789 – ed è stata modificata solo 27 volte – e i principi e valori ispiratori rimangono intatti e in essi gli americani si riconoscono.

La letteratura della scuola di public choice, che spiega il processo politico secondo le regole dell’economia, è unanime sul punto dell’esigenza di un vasto accordo per l’adozione di regole costituzionali (Buchanan, James M., and Gordon Tullock. 1962. The Calculus of Consent. Ann Arbor: University of Michigan Press).

b. Il ruolo della maggioranza in un regime democratico.

Le proposte modifiche della Costituzione italiana – sottoposte a referendum- sono intese a garantire la stabilità governativa, nel senso di durata e capacità di prendere decisioni da parte dell’Esecutivo e della maggioranza, sopratutto eliminando l’equivalenza di Camera e Senato – il c.d. bicameralismo perfetto- che, secondo l’attuale Costituzione, hanno identici compiti e poteri (ad esempio, entrambe le Camere votano la fiducia all’Esecutivo e approvano tutte le leggi). Il Senato delineato nella riforma non voterà la fiducia all’Esecutivo; avrà un numero limitato di competenze sulle quali legifererà insieme alla Camera (ad esempio riforme costituzionali, tutela delle minoranze linguistiche, referendum, enti locali e politiche europee).

In tal senso, la riforma costituzionale proposta modifica un principio fondamentale iscritto nella Carta Costituzionale, vale a dire l’equivalenza tra Camera e Senato che costituisce uno dei capisaldi di pesi e contrappesi del sistema giuridico-politico italiano. L’equivalenza tra le due Camere – peraltro analoga a quella che esiste negli Stati Uniti dove Camera e Senato entrambe approvano le stessi leggi – fu adottata dai costituenti a garanzia di un più sicuro funzionamento democratico dell’iter legislativo. Il bicameralismo perfetto può allungare i tempi delle decisioni e favorire il mantenimento di posizioni di rendita. Tuttavia, il bicameralismo perfetto riduce il potere dell’Esecutivo e costituisce una garanzia per la minoranza nella definizione di leggi e regolamenti contro lo strapotere della maggioranza. Tale meccanismo costituisce un principio fondamentale che può essere modificato solo con un ampio consenso delle forze politiche (nota 2) (D. Argondizzo. 2013. 1945-1947 Il bicameralismo in Italia tra due modelli mancati: Congresso USA e Stortinget, Quaderni della Rivista Il Politico, n. 59, Soveria Mannelli, Rubbettino).

Ulteriore importante implicazione della riforma è il ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza nell’approvazione di leggi e regolamenti. Infatti, l’Esecutivo in carica e la maggioranza potranno predisporre disegni di legge – attuativi del “programma di Governo” – da approvare dalla Camera che è allineata all’Esecutivo. Tale circostanza riduce le iniziative legislative parlamentari (che dovrebbero scaturire dalle esigenze che i cittadini rappresentano ai propri rappresentanti) che già sono pari solo al 20% delle iniziative complessive ed evidenziano il distacco tra istituzioni ed elettori, anche perchè i rappresentanti che siedono al Parlamento hanno principalmente rapporti con le segreterie dei partiti piuttosto che con gli elettori del territorio che dovrebbero rappresentare (Associazione OpenPolis. 2015. Premierato all’Italiana. Osservatorio sulle leggi nella XVII Legislatura. Edizioni OpenPolis, Roma).

Altra implicazione – non secondaria – è che gli incarichi nella Pubblica Amministrazione e nelle c. d. Agenzie indipendenti siano attribuiti ad individui che raccolgono la fiducia della maggioranza al potere, senza aver riguardo alla conoscenza ed esperienza nel settore specifico e alla capacità di svolgere con efficacia ed integrità la funzione ricoperta. La prima implicazione di tali nomine è che i “nominati” avranno l’inclinazione ad emettere normative secondo gli interessi e le direttive del potere politico (Cochrane, John, 2015. The Rule of Law in the Regulatory State, prepared for The Foundation of Liberty: Magna Carta After 800 Years, Hoover Institution Conference, June). La seconda implicazione è che, naturalmente, le nomine dipendono dall’Esecutivo in carica e possono essere modificate dal successivo Esecutivo con un’impostazione diversa. Queste due circostanze accentuano l’instabilità istituzionale e la certezza e durata delle regole.

Pertanto, le modifiche costituzionali – associate al premio di maggioranza alle elezioni per la Camera in vigore a partire dal luglio 2016 (il c.d. Italicum, vedi in seguito e nota 7) – eliminano il bicameralismo perfetto ritenuto da molti causa di inefficienze e lentezze, attribuendo all’Esecutivo ed alla maggioranza un ruolo preponderante nelle decisioni. L’Esecutivo deciderebbe i tempi e la sostanza dei lavori dell’unica assemblea legislativa rilevante, la Camera, peraltro con maggioranza allineata all’Esecutivo. Il ruolo egemonico dell’ Esecutivo nell’approvazione delle leggi va contro le regole che risalgono alla teoria della divisione dei poteri secondo la quale l’Esecutivo ha il compito di eseguire le leggi approvate dal Parlamento.
Inoltre, l’Esecutivo svolge attività “legislativa”, attraverso la Pubblica Amministrazione e le Agenzie indipendenti che emettono provvedimenti con sostanza di legge senza un effettivo controllo del potere legislativo (il Parlamento). Tale circostanza viola il principio della rule of law(nota 3) e rischia di instaurare la rule by law con il ruolo dominante dell’Esecutivo e della maggioranza, che produce la c.d. ”tirannia della maggioranza” che potrebbe sfociare nell’autoritarismo autocratico e plebiscitario. Tali situazioni di potere esclusivamente basato sull’espressione popolare si manifestano in vari paesi (ad esempio, Turchia di Erdogan; Russia di Putin; e Venezuela di Chavez che ora sta attraversando con Maduro una crisi di gigantesche proporzioni), dove vige il concetto della rule by law e non della rule of law . In tale proposito, Diamond Larry and Marc F. Plattner Editors. 2015. Democracy in Decline, John Hopkins University Press.

c. La stabilità

La riforma costituzionale sottoposta al referendum parte da un concetto di stabilità peraltro ampiamente diffuso –la governabilità – che come sopra accennato si riferisce alla stabilità dell’Esecutivo ed alla sua capacità di durare e prendere decisioni. Il concetto di stabilità di un ordinamento giuridico non può essere esclusivamente fondato sulla circostanza che l’Esecutivo sia in carica e produca norme. Elemento di maggior rilevanza è che un sistema giuridico-politico funzioni attraverso i c.d. pesi e contrappesi e secondo regole e procedure certe e prevedibili. In altre parole, è la qualità della governabilità, non la governabilità che ha rilievo.

Negli Stati Uniti, le modifiche costituzionali, come pure le leggi ordinarie, sono difficili da realizzare proprio perché, malgrado gli Stati Uniti siano una Repubblica Presidenziale, il potere è diffuso e il sistema è permeato da checks and balances – tra i quali come indicato sopra la parità di Camera e Senato e la circostanza che solo un membro del Congresso può proporre un disegno di legge accentuando il rapporto tra eletti ed elettori (nota 4) – che riducono il potere del Presidente e della maggioranza e tutelano la minoranza (si pensi, ad esempio, alla difficoltà ad approvare leggi sull’immigrazione). In proposito, spesso si ricorda un aneddoto significativo. Le deliberazioni che portarono alla definizione della Costituzione degli Stati Uniti furono tenute in gran segreto e molti cittadini – curiosi e ansiosi di cosa si stesse decidendo- si riunirono fuori della Independence Hall, in Filadelfia, dove si svolgevano le riunioni per scrivere la Costituzione. Si racconta che una donna, la signora Elizabeth Powell (che sembra fosse un’amica di George Washington), preoccupata, chiese a Benjamin Franklin, “Dottore, che cosa abbiamo, una repubblica o una monarchia?” Senza esitazioni, Franklin rispose: “Una Repubblica, signora, se sarete capaci di conservarla”. Questo aneddoto attesta l’importanza centrale che rivestono pesi e contrappesi nella Costituzione statunitense.

Uno dei temi centrali e ricorrenti del dibattito politico negli Stati Uniti è quello del c.d. divided Government – il Governo diviso (nota 5) . Tale situazione dipende principalmente dalla circostanza che non solo non è infrequente che il partito del Presidente non è quello che ha la maggioranza nel Congresso (Camera e Senato), ma anche quando Presidente e maggioranza nel Congresso sono dello stesso partito, i parlamentari debbono rispondere agli elettori nel territorio che li ha eletti e non agli ordini del partito. In tale contesto, il raggiungimento di un accordo per approvare le leggi è complicato, spesso richiede compromessi, altre volte le proposte non riescono a diventare leggi proprio per i pesi e contrappesi che esistono nel sistema e che sono soprattutto a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento democratico.

A tale proposito, le attuali elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono un esempio molto interessante da esaminare. Uno dei candidati – Donald Trump – sostiene, che una volta eletto Presidente, introdurrà cambi radicali (ad esempio, denuncierà gli accordi commerciali, costruirà il muro tra Stati Uniti e Messico; e così via). Tuttavia, questi cambi proposti sembrano non tener conto delle regole del gioco che prevedono l’accordo del Congresso che approva le leggi e che è tutt’altro che scontato.
Il sistema statunitense ha costruito gli anti-corpi – i pesi e contrappesi – che evitano situazioni autocratiche, o come viene chiamata la Presidenza Imperiale, e la tirannia della  maggioranza (nota 6). Il sistema si muove secondo cadenze e procedure prevedibili, regolate dalla legge alla quale tutti sono sottoposti e dove la maggioranza deve confrontarsi con la minoranza. La chiarezza istituzionale, vale a dire la trasparenza delle regole del gioco, costituisce il meccanismo che garantisce la stabilità, e la prevedibilità dell’evoluzione del sistema e sostanzialmente la sua legittimità, credibilità e sostenibilità.

Tra decisionismo e bilanciamento dei poteri, il sistema statunitense favorisce il secondo meccanismo. Questo non significa che il sistema sia perfetto, efficiente, funzioni sempre e in ogni circostanza, e non presenti difetti (le attuali elezioni presidenziali sono un buon esempio in proposito). Esistono vari elementi distortivi come quello del ruolo del denaro nella politica, ed il mantenimento di posizioni di rendita, ma alla lunga i checks and balances a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento della democrazia, riducono i pericoli di dittature e tirannie mascherate dal consenso popolare (De Tocqueville Alexis. 2016. De la Démocratie en Amérique: Édition Intégrale Tome I + II, Create Space Independent Publishing Platform) e hanno dato risultati molto positivi per oltre 200 anni in termini di sviluppo economico e sociale.

L’accentramento di forti poteri all’Esecutivo, anche derivanti da un “mandato popolare”, o da elezioni che producono una certa maggioranza, non solo costituisce un pericolo per la democraticità del sistema, ma non è efficiente e può essere dannoso alla stessa stabilità. Un Esecutivo forte, ancorchè legittimato dal voto popolare, può prendere decisioni che però possono essere sconfessate dal successivo Esecutivo forte che ha anch’esso la legittimazione popolare, ma un’impostazione diversa dal precedente Esecutivo.
In proposito, al di là del merito della decisione, si può esaminare il caso della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024 presa dall’Esecutivo a livello centrale con il sostegno della Giunta e del Consiglio di Roma, all’epoca allineati con l’Esecutivo a livello centrale. La decisione, però, era controversa e con varie opposizioni. La vittoria del Movimento 5 Stelle nelle recenti elezioni per Giunta e Consiglio della città di Roma ha portato al rifiuto di partecipare alle Olimpiadi determinando incertezza, spese effettuate e non recuperabili, perdita d’impegni, investimenti e credibilità.

Inoltre, non è da escludere lo scenario di una minoranza, nell’ambito della maggioranza, capace di esercitare un potere di veto con effetti nocivi sulle decisioni con situazioni di richiesta di contropartite di qualsiasi genere.

In altre parole, il decisionismo può essere sconfessato dal successivo decisionismo di segno opposto e determinare instabilità, vale a dire quella situazione che si sarebbe voluto eliminare. In aggiunta, il decisionismo basato su vittorie elettorali contingenti può essere solo apparente, non esclude lotte interne alla maggioranza con effetti paralizzanti e non assicura la durata e la tenuta dell’Esecutivo.
Un ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza non elimina l’incertezza e può generare cicli d’impegni e succesivi rifiuti che sono la caratteristica dell’instabilità.

d.  Il collegamento tra elettori ed eletti

Il popolo è sovrano, come recitano molte costituzioni. Le istituzioni elettorali costituiscono una condizione necessaria e sufficiente per la pratica e il consolidamento della democrazia. Senza regole elettorali per l’elezione del potere esecutivo e di quello legislativo, la democrazia rappresentativa non è praticabile. Le regole determinano la natura del Governo che emerge dal voto, le modalità in cui il pubblico può verificare la responsabilità degli eletti nella gestione del potere e favoriscono il senso d’inclusione del cittadino (Mala Htun and G. Bingham Powell, Jr. Editors. 2013. Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance. American Political Science Association (APSA)).

In Italia, l’evoluzione del sistema elettorale, dopo l’entrata in vigore della Costituzione nel 1946, ha portato ad un progressivo indebolimento del rapporto tra elettori ed eletti (nota 7) e la circostanza – sopra riportata- del basso livello d’iniziative legislative parlamentari rappresenta un significativo indicatore dello scollamento che esiste tra elettori ed eletti.
La riforma costituzionale soggetta al referendum parte da una corretta, ma non nuova, intuizione che una delle due Camere (il Senato) debba avere una rappresentatività su base regionale (Mangiameli Stelio Editore. 2012. Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di stato in Italia, Giuffre). Tuttavia, l’attuazione nega l’intuizione ed accentua la prevalenza eccessiva della maggioranza, come discusso sopra, e la carenza di rappresentatività delle realtà regionali in quanto il futuro Senato sarebbe composto da membri prescelti indirettamente e senza un rapporto diretto con il territorio. In effetti, i rappresentanti destinati a ricoprire il ruolo di senatore sono selezionati dalle Assemblee regionali; svolgono le proprie funzioni a titolo individuale; e possono ricoprire nello stesso tempo la carica di consigliere regionale o di sindaco- senza vincolo di mandato. Tali rappresentanti, pertanto, tenderanno ad esprimere le posizioni del partito che li ha nominati e non gli interessi territoriali che dovrebbero tutelare. Riprendendo il parallelo con gli Stati Uniti, il 17° emendamento – adottato nel 1911 dalla Camera dei Rappresentanti e ratificato da tre- quarti degli Stati nel 1913- ha stabilito l’elezione diretta dei senatori che prima erano scelti dalle Assemblee legislative dei vari stati. Negli Stati Uniti a nessuno verrebbe in mente di tornare al sistema che le Assemblee legislative dei vari stati dell’Unione designino i senatori federali. Gli estensori della riforma costituzionale italiana soggetta a referendum non hanno considerato rilevante questa fondamentale esperienza storica (Friedman, Joseph S. 2009. The Rapid Sequence of Events Forcing the Senate’s Hand: A Reappraisal of the Seventeenth Amendment, 1890-1913. March. CUREJ: College Undergraduate Research Electronic Journal, University of Pennsylvania).

In aggiunta, la riforma – con la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione – prevede una riduzione dell’autonomia delle regioni, soprattutto in campo finanziario e organizzativo e in una serie di “competenze concorrenti”, cioè materie delle quali potevano occuparsi, nello stesso tempo, stato e regioni. Con la riforma, molte competenze torneranno in maniera esclusiva allo Stato. In tal senso, la riforma comporta una centralizzazione del potere e un de-potenziamento significativo dell’autonomia legislativa delle Regioni costituzionalmente riconosciuta. Senza considerare che la riforma determina un vuoto normativo in quanto le Regioni a statuto speciale sono escluse, fino a una futura revisione degli statuti attraverso nuove leggi costituzionali d’intesa con le Regioni interessate.
La riforma rinforza l’idea di una concorrenza politica che s’incentra sui partiti e non sui candidati, e non garantisce il funzionamento di un regime genuinamente democratico che coinvolga l’elettore.

Sulla base dell’esperienza del Senato degli Stati Uniti – composto di 100 parlamentari- 2 per ogni Stato, in l’Italia si sarebbe potuto pensare ad un Senato composto da 60 a 80 parlamentari, 3 o 4 per ciascuna regione, direttamente eletti. Si sarebbe così compiutamente realizzata l’idea di accrescere la rilevanza di ciascuna regione, indipendentemente dalla sua popolazione che è invece la caratteristica della Camera dei Deputati.

Anche se può non essere immediatamente comprensibile, la diversità delle regioni italiane è un patrimonio da preservare ed arricchire e non da ridurre (Putman Robert D. 1994. Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. Princeton University Press; Phillips Katherine W. 2014. How Diversity Makes Us Smarter. Scientific American October).

e. Il contenimento dei costi

L’attività politica e il funzionamento di un sistema democratico costituiscono un costo che il cittadino sostiene. Il finanziamento privato dell’attività politica – e in generale il ruolo del denaro in politica – deve essere limitato e trasparente e non ostacolare la concorrenza democratica. Il finanziamento pubblico della politica– a carico del cittadino che paga le tasse – per il mantenimento del sistema democratico non deve creare spechi, inefficienze e rendite (Zamora Kevin Casas and Daniel Zovatto. 2015. The Cost of Democracy: Campaign Finance Regulation in Latin America. Latin American Initiative, Brookings Institution).

L’eliminazione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) – un organismo riconosciuto dalla Costituzione – costituisce una soluzione indubbiamente positiva per ridurre i costi dell’apparato statale ed eliminare Enti che esercitano funzioni scarsamente rilevanti. Il CNEL è generalmente considerato un “ente inutile”, che non e mai stato messo in condizione di svolgere efficacemente la sua funzione di organo indipendente di consulenza tecnica per il Parlamento.

La diminuzione del numero dei parlamentari (i senatori passano da 315 a 100) può essere altresì considerata positiva nell’ottica di un risparmio per il funzionamento dell’ordinamento. Tuttavia, il minor costo – peraltro opinabile e che comunque appare non significativo – comporta lo scadimento della rappresentatività territoriale, accentua il decisionismo della maggioranza, e presenta il rischio d’instabilità determinata da decisionismi nel tempo che si annullano tra di loro.
Peraltro i costi derivanti dall’attuazione dell’eventuale modifica della Costituzione e dai possibili ricorsi giurisdizionali –principalmente tra Stato e Regioni- rimangono un’incognita.

La riduzione dei costi della gestione dello Stato è da valutare positivamente. Tuttavia, il risparmio finanzario non compensa il “costo” ingente di ridurre o eliminare importanti principi fondamentali, come abbiamo visto sopra. Peraltro il contenimento dei costi si sarebbe potuto conseguire in vari altri modi, ad esempio riducendo ulteriormente il numero dei senatori (a 60 o 80), diminuendo il numero dei rappresentanti alla Camera (ad esempio dagli attuali 630 a 435 come nel caso degli Stati Uniti che ha una popolazione 6 volte quella dell’Italia) ed eliminando 2/5 dei giudici della Corte Costituzionale (i giudici costituzionali passerebbero da 15 a 9 come nel caso della Corte Suprema degli Stati Uniti).

Qualità delle Istituzioni, Governance, Corruzione e Crescita Economica

La governance – come detto, le modalità di esercizio del potere – presenta vari aspetti operativi come la scelta e il rimpiazzo del Governo; l’utilizzo del potere; la capacità del Governo di adottare e realizzare politiche pubbliche; il rispetto dei cittadini e delle istituzioni che regolano le interazioni tra i cittadini. La Tavola 1, qui di seguito, sottolinea alcuni indicatori di Governance – elaborati dalla Banca Mondiale per il periodo 2008-2015 – per vari paesi avanzati (nota 8).

Tavola 1- Indicatori di Governance

tavola1

Sources: EIU, 2015; World Bank, 2015; The World Economic Forum, 2015; Transparency International, 2015; The Heritage Foundation, 2015.

 

La Tavola 1 mostra in modo molto evidente che l’Italia, in molti indicatori (ad esempio quello dell’accountability, quello dell’effettività del Governo), occupa posizioni lontane da quelle dei paesi avanzati .

Per quanto riguarda la corruzione – definita dalla Banca Mondiale “l’abuso dell’ufficio pubblico per gudagni privati” – la ricerca con verifiche empiriche ha sostanzialmente confermato che quando la governance e le istituzioni non funzionano, lobbies, denaro e corruzione hanno buon gioco ad impossessarsi dei meccansmi decisionali e dirigerli nel proprio interesse e la governance è ulteriormente indebolita (Kaufmann, Daniel. 2005. Myths and Realities of Governance and Corruption. Global Competitiveness Report 2005-06 (October 2005): pp. 81-98). Un elevato livello di corruzione significa che il potere pubblico è esercitato per guadagni privati (ad esempio attraverso opere pubbliche, politiche, regolamentazione) di modo che lo Stato è ”catturato” da intesssi privati che esercitano un ruolo “estrattivo” delle risorse pubbliche (Acemoglu, Daron and James Robinson. 2012. Why Nations Fail, Crown Business).

Grafico 1 – Indicatori di Corruzione nelle Principali Economie

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) - World Bank Governance Indicators 2015

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) – World Bank Governance Indicators 2015

Il Grafico 1 mostra, per il periodo 1996-2015, gli indicatori delle prestazioni dei vari paesi in materia di corruzione – che variano tra -2.5 (debole) e +2.5 (forte) – e si può facilmente visualizzare la modesta posizione dell’Italia affiancata alla Grecia.
La Tavola 1 ed il Grafico 1 mostrano che la situazione della governance e corruzione in Italia è pericolosa non solo per un corretto funzionamento democratico, ma anche per per lo sviluppo economico. In realtà, lobbies, denaro e corruzione s’intrecciano e determinano comportamenti diretti a premiare interessi particolari non sempre allineati con l’interesse generale e con la crescita economica (Kuhner Timothy K. 2014. Capitalism v. Democracy Money in Politics and the Free Market Constitution, Standford University Press). La situazione per l’Italia non è migliore in materia d’indicatori della rule of law, vedi nota 1 e Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2016. Washington, D.C. The World Justice Project.

I dati italiani su governance e corruzione (uno degli indicatori della governance) testimoniano altresì lo slegamento tra eletti ed elettori e l’alienazione dei cittadini elettori che si sentono estranei e non partecipi al sistema giuridico-politico. Ogni Governo dovrebbe seriamente preoccuparsi di migliorare i parametri della governance.

La riforma costituzionale sottoposta al referendum comporterà – se approvata – il ruolo dominante della maggioranza e dell’Esecutivo, una riduzione di pesi e contrappesi e un affievolimento della rule of law e presumibilmente produrrà un ulteriore distacco di molti elettori dalla politica. Pertanto, non è improbabile che lobbies, denaro e corruzione avranno un peso maggiore e che si formi un gruppo di potere e di sostegno finanziario che determinerà le sorti di molte iniziative. Di conseguenza, gli indicatori della governance non solo rischiano di non migliorare, ma addirittura di peggiorare.

Sotto il profilo delle implicazioni economiche, la ricerca, attraverso verifica empirica, sostanzialmente concorda che una democrazia partecipativa e istituzioni autorevoli e legittime- piuttosto che governi autocratici – particolarmente in società che presentano diversità e divisioni (etniche, linguistiche, geografiche, e altre divisioni) – hanno un impatto positivo sullo sviluppo economico (Rodrik Dani. 2000. Participatory Politics, Social Cooperation, and Economic Stability. The American Economic Review Vol. 90, No. 2, Papers and Proceedings of the One Hundred Twelfth Annual Meeting of the American Economic Association (May), pp. 140-144). Istituzioni democratiche riducono l’impatto negativo che corruzione e denaro nel processo politico esercitano sulla crescita evonomica (Drury, A.C., Krieckhaus, J. and Lusztig, M., 2006. Corruption, democracy, and economic growth. International Political Science Review, 27(2), pp.121-136).
L’impatto della riforma costituzionale sopposta a referendum sulla crescita economica dipenderà dalla “qualità” delle istituzioni che usciranno se la riforma costituzionale sarà confermata dal referendum (Venard Bertrand. 2013. Institutions, Corruption and Sustainable Development. Economics Bulletin, 33 (4), pp.2545-2562).

Naturalmente previsioni economiche in generale e nello specifico debbono essere caute. Tuttavia, dalle considerazioni sviluppate più sopra, appare probabile che la riforma costituzionale sottoposta al referendum avrà un impatto negativo sulla “qualità” delle istituzioni e sul loro funzionamento e di conseguenza implicazioni non favorevoli per la crescita economica italiana.

Ulteriori Considerazioni

Nessun ordinamento giuridico e sistema politico è perfetto e ogni decisione comporta uno scambio – trade-off – tra principi, valori ed obiettivi.

In un sistema sostanzialmente funzionante come si può considerare quello degli Stati Uniti, il sistema dei checks and balances è una garanzia per la minoranza, anche se costituisce un meccanismo che rallenta i cambi e tende a proteggere rendite di posizione.
Recentemente – con un’ interpretazione estensiva della Corte Suprema – negli Stati Uniti è stata introdotta la possibiltà di contributi finanziari illimitati ed anonimi a partiti e candidati. Tale possibilità accentua il ruolo che il denaro e le lobbies già esercitano sul processo politico e sta corrompendo il sistema e minando la concorrenza e il funzionamento democratico e il rapporto tra eletti ed elettori (come le attuali elezioni presidenziali stanno evidenziando).
Tuttavia, il mantenimento di checks and balances a tutela della minoranza, il rispetto del principio della rule of law, nonchè l’elezione diretta dei rappresentanti rimangono capisaldi per assicurare il corretto funzionamento del sistema democratico e in qualche modo limitare il ruolo di lobbies e denaro nella politica e la corruzione.

Inerente al meccanismo di pesi e contrappesi, è che la neccessità di ampio consenso – auspicato particolarmente per modifiche a principi, valori e regole – può comportare compromessi non salutari per l’ordinamento democratico – i c.d. “inciuci”- che determinano o perpetuano privilegi e rendite di posizione.
Altro pericolo è che i rappresentanti possono non rispondere alle esigenze degli elettori che rappresentano.
Lo stretto collegamento tra elettori ed eletti consente in principio agli elettori di sanzionare i comportamenti degli eletti.

Peraltro, il continuo corretto funzionamento democratico dipende molto dalla libertà di giudizio ed integrità dei parlamentari nel rappresentare gli interessi nazionali (Deputati) e territoriali (Senato) a cui corrisponde un senso diffuso di onestà nella società e di controlli sull’attività governativa. In tale ottica, è importante che nel disegnare un sistema politico e le istituzioni rappresentative si stabiliscano gli incentivi che permettano che i pregi sopra menzionati emergano e vengano valorizzati; che si svolga una concorrenza delle idee; e che il meccanismo sia capace di generare controlli e sanzioni.

In definitiva, appare fondamentale che gli eletti siano espressione diretta degli elettori e dipendano dagli elettori per il mantenimento della loro posizione. Ciò consente un migliore controllo democratico dell’elettore nei confronti dei suoi rappresentanti che può svolgere un ruolo significativo anche in presenza di interventi finanziari nella politica.

Conclusioni

Per quanto riguarda la prima domanda – quale sono le conseguenze politico-giuridiche della proposta riforma costituzionale? – la riforma costituzionale sottoposta al referendum – se approvata- ridurrà pesi e contrappesi e rinforzerà il ruolo predominante della maggioranza e dell’Esecutivo. Presumibilmente, ciò produrrà una concentrazione del potere, ed ulteriore distacco di molti cittadini dalla politica.

Per quanto riguarda la seconda domanda – quale è l’impatto per la crescita economica del Paese? – l’impatto economico della proposta di riforma costituzionale dipenderà principalmente dalla “qualità” delle istituzioni che risulterebbero in caso la riforma fosse approvata. La proposta riforma costituzionale – se approvata – consentirà l’accentramento di un potere rilevante nell’Esecutivo e può determinare conseguenti cicli d’instabilità e peggioramento della qualità istituzionale e della governance. In tale contesto lobbies, denaro e corruzione influenzeranno molti iniziative con negative ripercussioni sulla crescita economica del Paese.

In conclusione, le argomentazioni di quest’articolo permettono di giungere alla conclusione che esiste un collegamento tra i vari aspetti esaminati e sopratutto tra l’esigenza di un largo consenso per modifiche costituzionali ed il controllo dell’elettore sugli eletti. In tale prospettiva, sembra ragionevole pensare che una riforma costituzionale “migliorata” potrebbe aumentare la probabiltà di un effetto positivo sulla crescita economica.
Appaiono ragionevoli modifiche nel senso dell’elezione diretta dei senatori su base regionale (3 o 4 senatori per ogni regione) – che sostanzialmente equivale ad un sistema uninominale che bilancerebbe il sistema di più di un candidato eletto nei singoli collegi elettorali per la Camera; opportuni correttivi per un più efficiente funzionamento dell’approvazione delle leggi, senza però intaccare in maniera significativa l’uguaglianza di funzioni delle due Camere.
Tale impostazione consentirebbe quel largo consenso necessario quando si modificano principi e regole alla base dell’ordinamento; e permetterebbe di compattare il paese e fornire nuovo slancio, invece di dividerlo. Purtroppo, l’impressione è che la campagna referendaria non è basata sulla sostanza dei cambi e le implicazioni, sopratutto a medio e lungo termine. Insomma, il Paese sta perdendo un’ennesima occasione per ammodernarsi seriamente.


Note
(1) La definizione del concetto rule of law è ampia e complessa. Il World Justice Project (WJP) computa annualmente il punteggio e la graduatoria dei vari paesi, vedi Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2015. Washington, D.C. The World Justice Project. In prima approssimazione, per rule of law s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti.
(2) Il referendum sulla legge di modifica della Costituzione si rende necessario perchè la legge è stata approvata con una maggioranza semplice e non con quella dei 2/3 che costituisce la misura dell’ampio consenso.
(3) Per rule of law – vedi nota 1- s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti. Per rule by law s’intende ogni atto del Governo che impone certi comportamenti in modo arbitrario e discriminatorio.
(4)Ad eccezione della legge di Bilancio che è proposta dal Presidente
(5) Nell’accezione anglo-sassone per Government – Governo- s’intende tutto l’apparato che gestisce lo Stato e comprende l’Esecutivo (la Presidenza), il Congresso, e il Sistema giudiziario.
(6) Esistono molte conferme dell’operatività di pesi e contrappesi nel sistema americano, sicchè non è necessaria l’elezione di Donald Trump alla Presidenza per un’ulteriore verifica.
(7) Dopo la nascita della Repubblica Italiana, nel 1946 fu approvata la legge proporzionale che, salvo piccole modifiche, ha regolato lo svolgimento delle elezioni politiche italiane fino al 1993.Per l’elezione della Camera dei deputati, il territorio nazionale era suddiviso in 32 circoscrizioni plurinominali assegnatarie di un numero di seggi variabile a seconda della popolazione; ogni elettore aveva a disposizione un massimo di quattro voti di preferenza. Il sistema elettorale per il Senato della Repubblica prevedeva correttivi in senso maggioritario, mantenendo un carattere ampiamente proporzionale. La legge Mattarella, in vigore fra il 1993 e il 2005, introdusse un sistema elettorale ibrido: a.maggioritario uninominale a turno unico per i tre quarti dei seggi del Senato e i tre quarti dei seggi della Camera; b.ripescaggio proporzionale dei più votati fra i candidati non eletti per l’assegnazione del rimanente 25% dei seggi del Senato; c. proporzionale con liste bloccate e soglia di sbarramento al 4% per il rimanente 25% dei seggi della Camera. Nel 2015, per l’elezione della Camera dei Deputati, è stato approvato un nuovo sistema elettorale attualmente vigente – l’«Italicum» – operativo a partire dal 1º luglio 2016, che prevede un meccanismo proporzionale con sbarramento al 3% e premio di maggioranza, (o di governabilità). La lista vincitrice può ottenere fino a 340 deputati, corrispondenti al 54% dei seggi della Camera, qualora abbia ottenuto almeno il 40% dei consensi a livello nazionale; ove tale circostanza non si verifichi, il premio di governabilità è attribuito dopo un ballottaggio fra le due liste più votate. Il numero dei seggi assegnati a ciascun partito è determinato sulla base dei suffragi ottenuti sul territorio nazionale. Le candidature sono presentate all’interno di venti circoscrizioni regionali, suddivise complessivamente in 100 collegi plurinominali, a ciascuno dei quali spetta un numero prefissato di seggi compreso fra tre e nove. Fanno eccezione i nove collegi uninominali delle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Ogni elettore, nell’ambito della lista prescelta, ha due voti di preferenza per candidati che non siano i capilista. In ogni collegio, nel limite dei seggi spettanti in proporzione a ciascun partito, sono eletti i capilista e i candidati che hanno conseguito il maggior numero di preferenze.
(8) Per una critica degli indicatori di governance, vedi Thomas, M.2010. What do the Worldwide Governance Indicators Measure? European Journal of Development Research 22, 31-54.


Bibliografia essenziale

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Abrignani: “In ritardo sulle riforme, ma adesso siamo sulla strada giusta”

Abrignani: “In ritardo sulle riforme, ma adesso siamo sulla strada giusta”

di Ignazio Abrignani*

Per spiegare l’insoddisfacente andamento del Pil italiano dall’adozione della moneta unica ad oggi, dobbiamo fare due riflessioni preliminari. La prima è di natura economica: l’Italia non doveva accettare il cambio lira/euro che poi è stato adottato. Non mi spingo fino a dire che il cambio sarebbe dovuto essere alla pari, ma certamente il cambio ha penalizzato fortemente l’economia italiana, dimezzando di fatto gli stipendi e comportando anche una brusca diminuzione dei consumi e un conseguente calo della produzione industriale. Questo errore ha avuto forti ripercussioni sull’economia italiana, soprattutto negli anni immediatamente successivi all’entrata nell’eurozona.

La seconda riflessione è che, rispetto agli altri paesi europei, noi soltanto da pochissimo abbiamo imboccato il sentiero delle riforme. E questo ha fatto la differenza. Una riforma come quella del “jobs act”, molto simile a quella fatta in Germania verso la metà dello scorso decennio, da noi è stata varata soltanto quest’anno. Le riforme dello stato che semplificano la vita dei cittadini, invece, sono ancora in fieri e dovrebbero essere approvate quest’anno. Questo ritardo, a mio avviso, ci ha penalizzato molto.

Se, come noi ci auguriamo, l’Europa continuasse ad avere un trend di crescita, grazie a queste riforme molto probabilmente potremmo riuscire ad agganciare questa ripresa. In ogni caso, la strada intrapresa è quella giusta: cercare di semplificare le regole per rendere tutto più semplice alle imprese e ai cittadini; cercare di far ripartire in l’economia attraverso una minor politica di rigore e una maggior politica di crescita e di consumo.

È comunque evidente che in questo contesto anche la pressione fiscale gioca un ruolo importante. Una pressione che però sconta anche l’alto costo per lo stato dell’apparato burocratico. Per ridurre la pressione fiscale si deve cercare di ridurre questo costo, soprattutto cercando di tagliare la spesa improduttiva (e mi sembra che con questo intervento sulle partecipate in qualche modo ci stiamo andando incontro). Poi bisogna sempre tenere a mente il fatto che la “spending review”, almeno all’inizio, non procura certo crescita, ma decrescita, perché nel momento in cui tagli stipendi e posti di lavoro, riduci necessariamente i consumi. Un altro aspetto fondamentale, infine, è quello del recupero dell’evasione fiscale. Soltanto abbassando il costo dello stato e cercando di far emergere il “sommerso” della nostra economia, si possono creare le condizioni per potersi permettere l’abbassamento (necessario) della pressione fiscale.

* deputato di ALA (Alleanza Liberalpopolare Autonomie) e componente della Commissione Attività produttive, Commercio e Turismo 

 

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Davide Giacalone – Libero

Stiamo assistendo all’ennesimo spreco. La Camera dei deputati vota la riforma della scuola, consegnandola al Senato in un tripudio di politichese fine a se stesso. Ma per l’istruzione è ancora un’occasione persa. Per anni, ancora, parleremo di riforme scolastiche, con un percorso lineare che, a confronto, l’arabesco sembra un’autostrada nel deserto. Vediamoli, i punti qualificanti della riforma. Ma prima osserviamo il contesto: l’opposizione di destra non è riuscita a trovare una posizione o una tesi che ne rendesse distinguibile la politica; quella di sinistra, interna ed esterna alla maggioranza, insegue fantasmi e slogan che la relegano fra i ferri vecchi di un ideologismo estraneo alla realtà; il ministro dell’Istruzione non ha avuto alcun ruolo significativo, se non quello di essere rimasta al suo posto, cosa che deve all’avere cambiato partito, tradito gli elettori e trasmigrato trasformisticamente nel partito del nuovo capo; il governo esulta per la vittoria, ma, come vedremo, su non pochi punti mente sapendo di mentire. Ora la carovana trasloca al Senato, ove la più risicata maggioranza rende più emozionanti i voti. Il tutto, però, ignorando la sostanza. Cui ora mi dedico, dividendola in 8 punti.

1. ASSUNZIONI

La sostanza più sostanziosa consiste in 160mila assunzioni. Roba da matti, ma è così. Quanti insegnanti servono e a cosa, quindi di cosa devono essere capaci, sarà stabilito dopo averli assunti. Che altro devo dire? Giusto che 100mila sono promessi per quest’anno, dalle graduatorie a esaurimento. Quelle in cui c’è tanta gente che non ha fatto nulla di male, ma non ha mai neanche fatto un concorso. Cittadini truffati, che a loro volta incarnano una truffa. Per assumerli con un pizzico di cervello occorrerebbe fare i piatti entro giugno, quando la legge non sarà stata approvata. Quindi, delle due l’una: o non verranno assunti, o lo saranno a piffero. Propendo per la seconda. Intanto si vota, poi si vede. Achille Lauro sarebbe commosso. Assunta questa massa di persone i precari non saranno esauriti, quindi andranno a prender punti di vantaggio in un ipotetico futuro concorso. Mentre passano in coda quelli che il concorso lo hanno fatto e vinto, nel 2012. Pensare che la scuola sia un diplomificio non è bello, ma questa è un assumificio, che è pure peggio.

2. AUTONOMIA

La legge sventola la bandiera dell’autonomia scolastica. Al punto che nasce il Ptof (Piano triennale di offerta formativa). Il fatto è che quella bandiera garrisce al vento già da tempo, senza che abbia prodotto nulla di men che ridicolo. La libertà culturale non può essere territoriale, semmai individuale. Ha un senso se le famiglie possono scegliere la scuola, portandosi dietro i soldi. L’autonomia è una gran presa per i fondelli, se poi tutto confluisce nell’esame di Stato che presiede al totem baluba del valore legale del titolo di studio. Il Ptof «esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia». Vorrei sapere cosa ha studiato chi compita in tal modo. Ma vorrei anche sapere come può esistere un esame di Stato se ciascuno fa quel che gli pare. Esiste perché la premessa è falsa. Tutto qui.

3. LAVORO

Ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Bene, una buona cosa. Se fosse una cosa, però. Negli ultimi tre anni della secondaria ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Almeno 400 ore nei tecnici e professionali e 200 per gli altri. Occhio al punto rivelatore: si potranno fare anche durante le vacanze. Questi hanno confuso l’attività lavorativa a scopo formativo con i lavoretti per guadagnarsi le vacanze, che da noi non esistono perché il datore di lavoro rischia la galera. Quel sistema funziona dove le aziende mettono bocca nella formazione e le scuole mettono piede nelle aziende. Altrimenti si chiamano «gite». Funzionano, inoltre, se non si limitano a occupare ore, ma se possono poi essere valutate. Chi e come dovrebbe farlo è un mistero che la riforma lascia tale.

4. SUPER PRESIDE

Il super preside non esiste. Egli, infatti «nel rispetto delle competenze degli organi collegiali, garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali». Come ora, che non riesce a farlo. Possono scegliere chi assumere? No, possono piluccare negli albi territoriali. Possono formare una squadra di docenti che li coadiuvino. Funzionava cosi anche nella mia scuola, e parliamo dello sprofondo del secolo scorso. Possono valutare, confermando o allontanando, i neo assunti con contratto annuale. Ma a parte il fatto che quelli sono i 100mila cui è stata promessa la stabilizzazione a vita, come li giudica? Con che criteri? La verità è che tutto il capitolo dell’autonomia e dei poteri è un gran gargarismo, se a quelli non si legano i soldi, se al risultato formativo, misurato sugli studenti, non si associa la destinazione dei fondi.

5. SOLDI

A proposito di fondi, non è passata l’idea del 5 per 1000, che il contribuente potrebbe assegnare alla scuola frequentata dai figli. È stato stralciato, non cancellato. Avrei due obiezioni: a. Pago già, per la scuola, con le imposte sul reddito e le tasse d’iscrizione, quell’idea può venire solo a gente che non s’è mai guadagnata da vivere o ha sempre evaso le tasse, sicché non sa cosa significa pagare due volte la stessa cosa; b. In quel modo i soldi vanno non dove c’è la migliore qualità, ma genitori più ricchi.

6. DETRAZIONI

Buona la possibilità di detrarre, fino a 400 euro l’anno, le spese sostenute per mandare i figli alla scuola privata. Ma trattasi di occasione persa. Intanto perché 400 euro sono pochi. Poi perché si sarebbe dovuto operare in modo da far diventare ricche le scuole pubbliche buone, introducendo il buono di cui la famiglia dispone liberamente. Quello avrebbe comportato libertà di scelta, ma anche di premio alla qualità. Invece no, solo lo sconticino. Buono per il principio, ma solo per quello.

7. TECNOLOGIA

Nuove materie e nuovi insegnamenti restano lettera morta, perché sommersa dai vecchi insegnanti. 30 milioni sono stanziati per favorire l’aggiornamento tecnologico e la cultura digitale. Errore: bastava usare i soldi che ogni hanno si fanno buttare alle famiglie nei libri di testo, in questo modo disponendo di cifre serie (30 milioni non lo è) e digitalizzazione reale. In quanto al bonus di 50 euro a insegnante, dico solo che con le scarpe di Lauro, almeno, si camminava.

8. VALUTAZIONE

In quanto alla nuova scuola, intesa come nuova formazione culturale, è relegata nelle deleghe al ministro. Mica è di quello che si occupa la riforma. Aggiungete che continua a non esserci una valutazione costante, oggettiva e indipendente degli studenti e della loro crescita, quindi dei loro insegnanti e delle loro scuole. Per premiare i migliori. Tutto questo, quindi, non può che andare nel capitolo degli sprechi e delle occasioni perse.

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Davide Giacalone – Libero

Dalle stanze del governo assicurano che non si faranno barricate, in tema di riforma della scuola. Non sarà come per la riforma elettorale, dicono. Già questo solo serve a capire molto, visto che la riforma del sistema elettorale non è materia governativa, ma parlamentare, al contrario del riordino scolastico. Come a dire: sulla vita dei partiti, delle liste e degli eletti, non molliamo, sul resto accordiamoci.

Ma c’è una seconda ragione, per cui le barricate non avrebbero senso, perché a parte il gusto del baccano i due fronti, presunti contrapposti, sono totalmente convergenti nel volere assunzioni di massa nella pubblica amministrazione. L’unica differenza è che al governo promettono 160mila assunzioni, mentre gli oppositori ne vorrebbero di più. Come selezionarli, chi paga e a che servono sono quesiti lasciati a chi non abbia di meglio da fare nella vita. A chi non eccelle nell’arte del propagandista.

Ieri è stato reso pubblico il rapporto BetterLife, elaborato dall’Ocse. Su 36 paesi l’ltalia si colloca al gradino 23. Non un granché. Sull’istruzione, però, tocchiamo il minimo: 30. Ma degli indici percettivi non mi fido mai. Meglio guardare i risultati dei test Pisa: l’Italia è ai primi posti solo in un caso: giorni persi per studente. Siamo prodigi nel marinare la scuola. Matematica, lettura e scienze nessun primeggiare e spesso sotto la media. Desolante. Disaggregando i dati scopri che l’Italia scolastica riproduce quella produttiva: aree d’eccellenza europea e lande abbandonate alla deriva.

Non cambia nulla

Con la riforma in discussione tutto questo si consolida e conferma, perché si assumono quelli che già ci sono, posponendo anche i pochissimi vincitori di concorso vero. Si raccontano bubbole sulle nuove materie, ma le si mette nelle mani dei vecchi insegnanti. Ciò comporta il consolidarsi delle differenze di censo e di posizione geografica. Dicono: noi spenderemo soldi per la scuola. Falso: li spenderete per fare assunzioni. Roba neanche da democristiani governanti, ma da clientelari decadenti. Ecco la conferma: Davide Faraone, sottosegretario all’istruzione, si domanda perché ci si oppone al potenziamento dei presidi, tanto sono quelli che ci sono già. Si stupisce del fatto che tutti non vedano l’evidenza: non cambia nulla. E, comunque, il governo ha già mollato: l’autonomia scolastica resterà in mani collegiali. Non ci saranno misurazioni serie. Gli studenti svantaggiati resteranno fregati. I docenti cresceranno di numero, senza che la qualità s’alzi d’un capello.

Finta zuffa

Si poteva fare diversamente, facendo coincidere l’aumento del potere dei presidi con l’aumento delle loro responsabilità, promuovendo una seria misurabilità dei risultati (non la burletta dell’autovalutazione, che solo somari in carriera possono proporre senza sghignazzare). Sarebbe dovuto valere per ogni singolo docente, per ogni singolo preside, per ciascuna scuola: più qualità, più risultati, più carriera, più soldi. Lo stesso al contrario, con il segno negativo. Le parti che s’azzuffano, invece, sono solo correnti minimaliste o massimaliste del partito unico dell’assunzione pubblica, aderente alla federazione unica della spesa pubblica. Sono tutti convinti che sia un diritto avere soldi dallo Stato e che la spesa pubblica generi ricchezza. Il che è vero se si tratta di buoni investimenti, è falso se si generano mantenuti. I soldi che si danno agli incapaci vengono tolti ai capaci e quelli che si buttano nella spesa corrente improduttiva sono moltiplicatori di deficit, debito e miseria. Certo che non faranno le barricate: la pensano allo stesso modo.

La riforma delle pensioni che può  “mandare a casa” Renzi

La riforma delle pensioni che può “mandare a casa” Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In The Doctor’s Dilemma, un noto play di George Bernard Shaw, il protagonista, un medico chirurgo di rango, è a un vero bivio: salvare o non salvare il marito (ammalato di tubercolosi) della propria amante (che lui vorrebbe sposare), utilizzando tecniche di avanguardia rare e costose. Non raccontiamo la conclusione per non fare perdere agli spettatori il gusto della sorpresa.

Un dilemma analogo è quello che affligge il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Giornalisti vicino al Palazzo (in tutti i sensi) hanno diffuso la voce secondo cui, bruciando i tempi e con l’idea di fare un regalo di Pasqua agli italiani, venerdì 3 aprile verrebbe esaminato e approvato il Documento di economia e finanza (Def), base per la Legge di stabilità del prossimo settembre. Tuttavia a far quadrare i conti mancano circa 10 miliardi di euro nel comparto della previdenza.

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Riforma pensioni 2015 – Ecco le “trappole” da evitare su flessibilità e pensioni  d’oro

Riforma pensioni 2015 – Ecco le “trappole” da evitare su flessibilità e pensioni d’oro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Nei ministeri competenti (e all’Inps) si stanno iniziando a predisporre articolati su una nuova riforma della previdenza da inserire nella prossima Legge di stabilità. Le norme consisterebbero essenzialmente in: a) nuovi contributi di solidarietà per quelle che vengono chiamate le “pensioni d’oro”; b) flessibilità in uscita per coloro che desiderano andare in quiescenza prima dell’età ora prevista da quella che viene chiamata “legge Fornero”.

Prima che i lavori preparatori vadano troppo avanti, potrebbe essere utile fare alcune considerazioni. In primo luogo, non soltanto i teorici della neoeconomia ma studi Ocse, Fmi e Banca mondiale e numerose analisi di centri di ricerca internazionale documentano che nessun Paese reagisce bene a riforme della previdenza che si succedono anno dopo anno; esse generano ansietà e incertezza e riducono la credibilità della politica. Ciò influisce negativamente sulla produttività. Quindi, meglio esaminare a fondo, e con la pazienza e il tempo che ci vogliono, le alternative e approvare, una volta per tutte, un sistema che resti solido per diversi anni.

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Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Davide Giacalone – Libero

Ecco l’ennesima riforma della scuola. E per l’ennesima volta parla d’insegnanti e non d’insegnamento. Per l’ennesima sarà negletto il solo diritto che andrebbe tutelato: quello degli studenti alla conoscenza. Sparito il decreto, annunciato a settembre e confermato a febbraio, il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge. La carriera procederà per scatti d’anzianità, come è sempre stato, mentre il peso della meritocrazia resta indeterminato e posticipato. I presidi potranno scegliere chi far insegnare, ma non dalle liste del loro istituto, bensì da quelle degli assunti ope legis. Che razza di scelta è? Le valutazioni saranno autoreferenziali e prive di oggettività, quindi non saranno valutazioni. Gli insegnanti avranno a disposizione 500 euro per la loro riqualificazione culturale.

Non ci crederete, ma potranno comprare libri, come anche andare al teatro o ai concerti. C’è lo sgravio fiscale per chi manda i figli alla scuola privata, che è un principio giusto. Ma molto limitato. ll resto è sindacalese. A settembre il governo annunciò che sarebbero stati assunti 150mila insegnanti. A febbraio erano 120 mila. Ora sono diventati 100mila, ma da quando la riforma sarà a regime (quando?). Dietro queste assunzioni non c’è alcuna idea della didattica, ma solo problemi di quattrini. Ma la cosa impressionante è che a sentir queste cose sembrerebbe che in Italia manchino gli insegnanti, invece ce ne sono più che altrove. Gli studenti (dati 2013) sono 7.862.470, gli insegnanti in organico 625.878, i posti di sostegno 97.636 e i dirigenti scolastici 1.584. Da noi il numero di alunni per insegnante è costantemente inferiore alla media dell’Unione europea. Abbiamo più insegnanti degli altri per ciascun alunno. Se ne mancano sempre è perché  l’organizzazione è penosa. Cambiano quella? No, assumono gente. Bandiscono concorsi? No, li prendono dalle graduatorie a esaurimento (nostro e dei nostri soldi).

Quelle graduatorie sono un’infamia. Una colpa dello Stato, che ha illuso chi ne fa parte. Un peso per la scuola, perché dentro c’è un fritto misto con gente che ha fatto concorsi e altra che ha fatto corsi abilitativi aventi valore concorsuale. Un gargarismo burocratico. Assumere senza concorso, nella scuola come nella giustizia come in altri uffici pubblici, non solo viola il diritto dei cittadini che devono avere un servizio, ma anche di quelli che vorrebbero concorrere e non trovano concorsi. Il precariato non è una condizione sociale, ma il frutto dell’illegalità. Una volta assunti continueranno a fare carriera con scatti di anzianità, che favoriscono la letargia culturale, umiliano i bravi insegnanti e mandano al macero le promesse di meritocrazia. Più che cambiare verso, qui si fa il verso al passato peggiore. Ricordate che nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% del personale ha più di 40 anni, con il 39,3% che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle Ocse che a quelle Ue. Nelle graduatorie ci sono coetanei.

Dice Matteo Renzi: servono più insegnanti per tenere aperte le scuole di pomeriggio. Deve averle prese per circoli ricreativi. Gli insegnantí servono per insegnare, e se assumi quelli che hai di già è ovvio che non cambi di un capello la didattica. Ad esempio: chiedere la scuola digitale è inutile se ti ritrovi con insegnanti analogici e libri di testo a quintalate, scaricati sulle spalle dei ragazzi solo per fare una marchetta agli editori. In Italia le famiglie, con minori, dotate di computer arrivano all’84%; quelle che hanno anche accesso a internet al 79%; il 52% dei bimbi ha già usato il computer a 3 anni; e il 32, entro i 6 anni, lo usa tutti i giorni. Nel mondo in cui tutti usano il digitale, dov’è l’oasi d’arretratezza analogica? Nella scuola. Il che falsa anche i conti, perché è vero che la spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. Ma si dimentica di aggiungere che sommando la spesa sopportata dalle famiglie andiamo sopra. Conquistando record di spreco. La valutazione degli insegnanti verrà fatta all’interno dell’istituto. Quindi il cambiamento consiste nel non cambiare. Se stessimo parlando seriamente, invece, il servizio di valutazione andrebbe affidato a privati, così. in caso di cattivo funzionamento, cambi il fornitore, non la legge. Così puoi rescindere un contratto, mentre qui non licenzi nessuno. La valutazione, del resto: a. non serve a nulla se non è standardizzata e paragonabile, pertanto nazionale; b. non si concentra sui risultati, quindi sugli studenti e quel che hanno imparato; c. non è finalizzata ai premi di carriera e alla destinazione dei soldi.

Tutto questo comporta la capacità di distinguere fra una cattedra e 1’altra, fra una scuola e l’altra. Per farlo, seriamente, si deve abbattere il totem fesso e mendace del valore legale del titolo di studio. Prima di quel giorno vedrete sempre lo stesso film: parole di rinnovamento e richieste di rifinanziamento per approdare a realtà di conservazione e dilapidazione. Che sarà pure una tradizione nazionale, ma è anche un crimine contro gli studenti e un modo per affondare la qualità della produzione futura.

La (non) riforma della Rai targata Renzi

La (non) riforma della Rai targata Renzi

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di ingenuo, ipocrita e – sotto certi aspetti – anche di ridicolo nel riformismo renziano in tema di televisioni. Come ha annunciato la rivoluzione nel campo della televisione pubblica l’attuale premier? La retorica è simil-grillina, perché in definitiva il messaggio che si vuole far passare è che, finalmente, i partiti saranno messi alla porta. Non quindi la lottizzazione “hard” di alcuni decenni fa (con Rai Uno alla Dc, Rai Due al Psi e Rai Tre al Pci) e neppure quella più “soft” dei tempi recenti, caratterizzati da un intreccio più complesso di ruoli e poteri. Tutto questo sarebbe accantonato per veder nascere una nuova Rai con solo sette consiglieri di amministrazione invece che nove, uno dei quali eletti addirittura dai dipendenti.
Una rivoluzione? Macché. Se guardiamo nel dettaglio il governo si riserva la scelta di tre consiglieri e altri tre sono eletti dalle Camere in seduta comune. Il risultato è che governo e maggioranza sono più che sicuri di poter controllare la Rai (esattamente come adesso), lasciando uno spazio pure alla minoranza. Il che non guasta mai. Per giunta si è strutturata la riforma immaginando un peso rilevante – da leader assoluto e vera mente di tutta l’azienda – per un amministratore delegato dotato di ampi poteri in ogni direzione: programmi, scelta degli uomini, gestione del bilancio.
Renzi sa che se, grazie al (facile) controllo della maggioranza del Cda, egli riesce a mettere un uomo di sua assoluta fiducia alla testa della Rai questi gli può assicurare una linea editoriale, e non solo, del tutto schierata dalla sua parte. Il resto è aria fritta. Infatti il progetto parla di una Rai Uno generalista, di una Rai Due dedicata all’innovazione (qualsiasi cosa ciò voglia dire) e di Rai Tre una culturale. Ma il cuore della questione è che la politica non si ritrae affatto e anzi, sotto certi punti di vista, il governo rafforza il proprio controllo sul colosso televisivo pubblico. Un controllo importante per il numero dei dipendenti e per il ruolo propagandistico che la Rai ha sempre svolto e continuerà a svolgere a favore di questo o quello.
Una vera riforma, ovviamente, consisterebbe nel vendere la Rai e nell’aprire a chiunque, italiano o no, il mercato delle televisioni. Ovviamente tutto ciò l’attuale governo non vuole farlo per una serie di ragioni che illustrano assai bene i limiti del preteso “riformismo” renziano.
In primo luogo, l’ex-sindaco della città di Machiavelli non intende assolutamente ridurre la presa sulle risorse (anche umane) e sulla potenza di fuoco della televisione di Stato. Renzi è un politico a tutto tondo, che negli anni passati a Firenze – inizialmente alla guida della Provincia e poi alla testa dei Comune – ha imparato assai bene a gestire il nesso tra risorse finanziarie, voti e controllo sociale. Il suo realismo gli impedisce di essere davvero un riformatore, perché per farlo dovrebbe rinunciare a una parte rilevante dell’artiglieria di cui dispone.
In secondo luogo, manca la minima consapevolezza culturale di cosa voglia dire indirizzarsi verso una società libera. I toni liberali che talvolta possono affiorare nella retorica del premier sono funzionali a obiettivi politici di piccolo cabotaggio – come nel caso delle polemiche con la Cgil – oppure a costruire una retorica in grado di attrarre gli elettori moderati. Ma nulla è più lontano dalla sua cultura che l’idea di un’informazione davvero aperta, senza interferenze statali, senza una programmazione e senza regolazione di Stato.
La riforma della Rai immaginata da Renzi è insomma all’insegna del gattopardismo. E in questo modo stiamo sprecando un’altra opportunità.
Quelle riforme troppo lente

Quelle riforme troppo lente

Massimo Blasoni – Metro

Il cammino verso le riforme a cui il nostro Paese si è avviato è troppo lento e poco incisivo. Anche se alcuni provvedimenti vanno nella giusta direzione, la loro lenta attuazione rischia di vanificarne gli effetti. I tempi dell’economia sono più rapidi di quelli della politica. Renzi governa da un anno, prima di lui Letta era stato premier per un periodo di poco inferiore, ma ad oggi pressoché nessuna riforma strutturale è pienamente compiuta, compreso il Jobs Act che necessita dei regolamenti attuativi. Sul piano economico – al di là dell’incremento del debito e della riduzione del Pil reale – è interessante mettere a confronto gli indicatori che con riferimento al medesimo periodo emergono dal report annuale di Banca Mondiale/Doing Business e da quello sulla competitività elaborato dal World Economic Forum.
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Se la riforma tributaria prende tempo

Se la riforma tributaria prende tempo

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il governo avrà più tempo per completare l’attuazione della legge delega per un «sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita». La proroga di sei mesi per emanare i decreti legislativi mancanti – finora solo tre sono giunti in porto, oltre ad alcune disposizioni che hanno trovato attuazione con la legge di Stabilità – non può essere considerata un incidente di percorso. La legge delega 23/2014 è tutt’altro che un testo organico per ridisegnare dalle fondamenta il sistema tributario. Non si vede un disegno complessivo, ma al contrario, si tratta – come abbiamo più volte sottolineato – di un testo di legge fatto di una combinazione di principi e del tentativo di dare soluzione a più casi pratici. Non si tratta di una critica: molti aspetti sui quali la delega si propone di intervenire rappresentano problematiche molto sentite dagli operatori. Tuttavia, per quanto apprezzabile in molti elementi, la delega non porta con sé una strategia omogenea. Inoltre, l’esperienza insegna che mettere le mani al testo di una legge delega non è mai cosa agevole. Soprattutto non lo è quando gli interlocutori sono tanti.

Non a caso la Costituzione dà a Parlamento e governo ruoli precisi e non sovrapponibili: il procedimento per la delega vede la competenza del Parlamento nella previsione di principi e criteri direttivi, mentre è il governo a emettere i decreti delegati. Questo perché il governo, come organo ristretto, è guidato dall’iniziativa di un ministro competente (nel caso, l’Economia) in grado dal punto di vista tecnico di formulare testi che abbiano la dignità della legge. Per la delega fiscale le cose sono andate diversamente, con il Parlamento che – attraverso la “bicameralina” – ha quasi rivendicato il diritto a occuparsi dei decreti attuativi. Aumentando la confusione e allungando i tempi anziché accorciarli.

Da ciò deriva un’altra considerazione. E cioè che il governo non ha ancora esplicitato la propria linea di politica tributaria. A volte si ha la sensazione che a determinarne la direzione sia più l’amministrazione finanziaria che non l’esecutivo. Le cronache sui lavori tecnici per l’attuazione raccontano di un ruolo attivo dell’agenzia delle Entrate. Il che trova una spiegazione nel fatto che l’amministrazione sarà il soggetto che queste norme dovrà far rispettare. Però, ciò riporta l’attenzione sui rapporti tra ministero dell’Economia e agenzia delle Entrate. Gli indirizzi di politica tributaria, compresa la stesura delle norme, sono affidati al governo e al ministro dell’Economia e delle Finanze, anche per il tramite del Dipartimento per le politiche fiscali; l’amministrazione del fisco – in termini di riscossione dei tributi, contrasto all’evasione fiscale, gestione del contenzioso – tocca invece all’agenzia delle Entrate, che opera sulla base di una convenzione con il ministero dell’Economia e ne è sottoposto alla vigilanza. L’agenzia per sua natura ha il solo compito di applicare le leggi fatte su indirizzo del governo. Altrimenti, si creerebbe un evidente conflitto di interessi e si finirebbe per alimentare il sospetto di un’amministrazione che scrive norme “pro domo sua”, ad esempio per dare copertura (anche ex post, con norme interpretative) al proprio operato.

Insomma, la sensazione è che la legislazione, specie quella fiscale, sia caratterizzata dall’assenza di strategie e da una confusione dei ruoli. E tornando ai sei mesi in più per la delega: siamo sicuri che con il rinvio ci siano i tempi necessari per varare i decreti delegati? Io credo di no. Anche se c’è la scappatoia della proroga della proroga.