La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.