riforme

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La Carta sociale europea, non proprio un testo sacro della scuola austriaca, indica «il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio». E poco più avanti fissa «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Non si parla dunque di reintegro, non si parla delle regole previste dall’articolo 18. La Carta sociale europea è quindi in violazione dei diritti fondamentali del lavoratori? Oppure, come è più probabile, sull’obbligo di reintegro si è incancrenita da anni in Italia un’astratta discussione ideologica che ha fatto perdere di vista quello che è diritto e quello che è tutela giuridica, quello che è un valore assoluto e quello che è norma storica legata a determinati assetti della produzione e del rapporto tra Stato, impresa e lavoro?

Verrebbe da dire che l’aspro confronto nella direzione del Pd di ieri è stato ancora una volta ostaggio di quella ideologia del passato. Ma in realtà si è trattato per gran parte di un dibattito pretestuoso che, utilizzando una questione seria come la riforma del mercato del lavoro, ha avuto per oggetto la sfida sulla leadership di Matteo Renzi nel suo partito. In questo senso il premier può forse essere soddisfatto del voto ottenuto, con i 130 favorevoli e i soli 20 contrari. Ma quello che conta qui è altro. È dare all’Italia una buona e vera riforma del mercato del lavoro, per dare una spinta agli investimenti e alla creazione di posti di lavoro.

Non serve una riforma tanto per farla. Serve, finalmente, una incisiva rivoluzione delle regole del lavoro, per dare certezza alle imprese ed equità ai lavoratori. La “vittoria” politica di Renzi, se c’è stata, rischia allora di avere un costo, che è quello di un annacquamento della riforma, a cominciare proprio dall’articolo 18. Fino a domenica scorsa la posizione di Renzi sembrava molto chiara: il reintegro deve restare solo per i casi di provata discriminazione. In tutte le altre situazioni meglio l’indennizzo monetario crescente con gli anni di durata del rapporto di lavoro. Ieri, invece, il reintegro è rispuntato per i casi di licenziamento disciplinare, riallargando il perimetro del 18, ma soprattutto ripristinando quell’incertezza nell’intervento del giudice che disincentiva l’impresa dall’usare il contratto a tempo indeterminato. È vero che nel dispositivo finale votato dalla direzione si parla di fissare le fattispecie relative ai licenziamenti disciplinari, ma qui si rischia di entrare in una vicenda già vissuta all’epoca della legge Fornero, quando l’intervento sull’articolo 18 fu progressivamente svuotato e reso di fatto inefficace.

Non serve una riforma che nasce per cambiare tutto ma che poi cambia poco. Tanto più che anche sul lato delle regole in entrata, finora, non c’è stata chiarezza. Se si arriverà, alla fine, a un impercettibile miglioramento sui contratti a tempo indeterminato al costo di un irrigidimento significativo delle altre forme contrattuali più flessibili, allora il risultato per la creazione di posti di lavoro sarà negativo. È esattamente l’errore che fu fatto con la legge Fornero. Ripeterlo sarebbe un assurdo. Tanto più che il governo Renzi, al suo esordio, ha dimostrato piena consapevolezza del problema, eliminando gli irrigidimenti introdotti dalla Fornero sui contratti a tempo determinato. La precarietà non si riduce introducendo nuovi vincoli per tutti – così si alimenta solo il lavoro nero – ma rendendo davvero più conveniente il contratto a tempo indeterminato e, magari, prevedendo i giusti controlli contro gli abusi – che ci sono – sulle forme contrattuali più flessibili.

Sono cose che il presidente del Consiglio conosce bene. Le ha affermate lui stesso in queste settimane, con tutta l’oratoria e la capacità di convincimento di cui è capace. Finora ha dimostrato un grande coraggio nell’affermare e nel portare avanti un cambiamento netto nel modo con cui a sinistra si guarda al rapporto tra capitale e lavoro. Ancora ieri non ha avuto timore nello sbattere in faccia ai suoi oppositori la realtà che gli imprenditori sono lavoratori e non “padroni”. Perciò la sua riforma non può adesso smarrirsi nelle mediazioni e nelle contraddizioni. D’Alema, il suo avversario di ieri, a suo tempo lo fece, e dopo 15 anni siamo ancora qui a parlare di articolo 18. Renzi ci faccia il regalo di non doverne discutere tra altri 15.

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Debolezza dell’euro o forza del dollaro? A giudicare non solo dall’1,27 del cambio euro/$ ma dal 109 del dollaro/yen o dallo sgretolamento del prezzo dell’oro, sono i pettorali del biglietto verde a gonfiarsi sotto la spinta di un’economia che cresce. Dall’inizio della crisi a poco tempo fa la divaricazione dei cambi nel mondo aveva rispettato quel che suggeriscono teoria e storia: i cambi dei Paesi emergenti – in primis la Cina – erano andati apprezzandosi, quelli dei Paesi emersi avevano segnato il passo se non indietreggiato. Parliamo qui dei cambi come indicatori della competitività, cioè dei cambi effettivi reali, che tengono conto di tutti i rapporti di cambio con i Paesi terzi e dei differenziali di inflazione.

Da qualche tempo la divaricazione si è andata manifestando anche all’interno dei Paesi emersi, e segnatamente fra le tre maggiori aree economiche: Usa, Europa e Giappone. Fra queste quella che cresce di più è l’America, e il dollaro sta guadagnando terreno rispetto allo yen e alla moneta unica. C’è chi ama i titoli gonfi sulle “guerre valutarie”, ma i cambi sono l’effetto e non la causa delle differenze nella crescita. La crescita di un’economia dipende da fattori strutturali – le “forze innate” di un sistema economico – e dalle politiche di espansione. Di queste due grandi determinanti la prima è di gran lunga la più importante. Una politica monetaria di stimolo può portare in prima battuta a un deprezzamento del cambio, ma, se funziona – cioè se l’economia risponde con la crescita – poi il cambio tende a rafforzarsi. Si prenda ad esempio il dollaro. Fino a pochi mesi fa sia il cambio effettivo reale dell’euro che quello della moneta Usa si erano andati deprezzando all’incirca nella stessa a misura a partire dall’inizio della crisi. Ma, quando è diventato evidente che le due aree rispondevano in maniera diversa – gli Stati Uniti riprendevano a crescere e l’Eurozona si adagiava nella stagnazione – i destini delle monete si sono separati. Gli Usa avevano ripreso un sentiero di crescita per meriti diversi da quelli valutari (le capacità di reazione del gran corpaccio dell’economia americana, la politica di bilancio meno penalizzante), mentre nell’Eurozona erano anche lì fattori non valutari (una austerità malintesa, riforme insufficienti) a far segnare il passo all’economia.

Se la svalutazione dell’euro – il cambio reale è oggi stimabile a circa il 12% più basso rispetto alla media del 2007 – avrà un merito sarà quello di togliere un alibi a quanti sostenevano che era colpa del cambio troppo forte se l’economia non cresceva. Forse la discesa dell’euro non è terminata, ma c’è già una grossa differenza fra l’1,38 contro dollaro della primavera scorsa e l’1,27 di adesso. “Qui si parrà la tua nobilitate”, si potrebbe dire ai produttori italiani ed europei: vedremo se era il fattore valutario a tenervi al palo… Ma non bisogna nascondersi dietro un dito. Il problema dell’economia italiana non sta nell’offerta ma nella domanda. Da una parte, la forte rivalutazione del livello di produttività industriale rilevata nei nuovi dati di contabilità nazionale rilasciati dall’Istat; e, dall’altra, i dati sulle vendite al dettaglio comunicati ieri, sono lì a ricordarci che quel che manca in Italia non è la capacità di offerta ma la voglia e la capacità di spendere.

Una apatia dell’economia che, pur tristemente e lungamente evidente nella Penisola, si va manifestando anche nei Paesi “forti” dell’Eurozona. Una apatia che è riflesso anche dello stallo disperante delle politiche economiche. La Bce ha fatto quel che poteva fare, e la palla è ora nel campo dei governi. Ma questi sono incapaci di trovare i tempi giusti e il sentiero più agevole per conciliare riforme e flessibilità di bilancio. La determinazione del governo italiano nel perseguire la riforma del mercato del lavoro è importante, ma ha bisogno di essere assortita di impegni comunitari sulle regole cieche del Fiscal Compact. Per uscire da questo stallo l’Europa ha bisogno della politica alta, dell’afflato che in passato ha segnato le grandi tappe dell’integrazione. Non basta e non basterà l’aspirina di un euro debole.

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Enrico Nuzzo – Il Foglio

Agguantare la crescita, uscire dall’attuale fase di stagnazione, superare la crisi, sono le formule, nei dibattiti a tutti i livelli, veicolate al popolo degli elettori. E su questi obiettivi si tarano interventi, compresi i tagli di spesa pubblica, sulla cui efficacia il cittadino non può che sperare, pur se non più con straboccante fiducia. È trascorso molto tempo dalle prime avvisaglie di segnali negativi del trend economico e ripetuti sono stati gli interventi di contrasto messi in campo dai vari governi, con magri risultati; robusti i sacrifici ripetutamente richiesti alla comunità, ancora in attesa dei segnali di uscita dalla situazione in cui il paese è precipitato. Moniti e consigli da parte delle stesse istituzioni internazionali sulle scelte, per invertire la rotta, sono di comune cognizione. Ineludibili, si sottolinea, per provare a invertire la descritta tendenza negativa, le riforme del mercato del lavoro, del fisco, della giustizia, e cosi via. Misure di politica monetaria, anche appropriate, intanto si mettono sul tavolo.

In sintesi, qualcosa si muove, pur se ancora non si intravede un piano organico di misure complessive da tradurre in azioni concrete, in un tempo necessariamente non breve. E non sempre ci si preoccupa di prestare attenzione al complesso universo dei lacci e ai lacciuoli all’opera, capaci di paralizzarne l’efficacia. Gli interventi per incidere sull’andamento del ciclo economico non raggiungono l’obiettivo per il semplice fatto di essere varati. È invece necessario che il comportamento degli operatori e dei cittadini siano tali da assecondare le finalità che li hanno ispirati, spazzando via – e si tratta di precondizioni ineliminabili – quanto costituisce vero e proprio fattore di decrescita. Degli esempi.

Non stimola la ripresa la semplice messa a disposizione di liquidità per rivitalizzare il mercato del credito, se poi drenata dalle banche che, per parte loro, continuano a ignorare le richieste di prestiti di imprese e famiglie. Le misure per immettere danaro in circolazione, convenzionali o meno che siano, vanno sostenute con consapevoli regole applicative (diverse da quella del tasso negativo sui depositi, perché non del tutto efficace, considerati gli attuali e non più stringenti vincoli tra Banca centrale e aziende di credito). E tanto per evitare che le stesse banche trovino modo per parcheggiare la liquidità ricevuta al loro interno e utilizzarla esclusivamente per loro convenienze e valutazioni. Come agire? Con un’azione coerente di vigilanza orientata a verificare, nello specifico, da subito e in itinere, se la suddetta liquidità viene concretamente fatta confluire nel circuito produttivo, in coerenza con le misure che ne hanno ispirata la messa a disposizione. In ipotesi di persistente disapplicazione delle quali misure (nel trimestre, e/o un altro lasso di tempo ritenuto idoneo), pare appropriato pretendere dall’istituto che non destina quelle somme all’erogazione di prestiti, almeno un tasso di interesse pari, ad esempio, a quello medio (spread compreso) praticato alla sua clientela, privandola, per questa via, del vantaggio conseguito dalla distrazione della liquidità allo scopo cui era destinata.

Sul versante fiscale non aiuta, di certo, a stimolare la ripresa la sbornia talvolta eccessiva dei controlli a tutto campo a cui il cittadino è assoggettato. Sono di dominio pubblico le diffuse richieste di informazioni “a tappeto” sui conti correnti dei singoli da parte dell’Agenzia delle entrate; insistente l’attenzione del fisco sulle spese sostenute all’uscita di un negozio, o a seguito della compera di un’abitazione, con conseguente timore di accertamento sintetico, eccetera. Controlli asfissianti e invasivi, che muovono da presunzione di evasione e articolati anche su impropri giochi di prova e di inversioni di oneri di prova, fanno crollare, da noi, la propensione alla spesa. Gruppi sempre più numerosi di persone, per acquisti voluttuari, prediligono altre mete europee (Londra, Parigi e via dicendo) ben liete di ospitare i consumatori italiani. Assolutamente non trascurabile il numero di coloro che, quando non li dirottano all’estero, preferiscono tenere “parcheggiati” i risparmi, per evitare problemi col fisco, piuttosto che investirli, a tanto contribuendo anche l’attuale scarsa remuneratività di mercato.

Come non ravvisare, allora, nella descritta condotta dei pubblici poteri, un fattore di decrescita? E non si discorra di controlli necessari per combattere l’evasione – che pure va fatta, senza aggettivi, e in maniera efficace – per giustificare il progressivo scivolamento del paese in stato di polizia fiscale che, a parte altre conseguenze, con siffatta condotta, paralizza i consumi e ostacola la crescita, con sistematicità e senza tregua. Non da meno è parte del mondo politico-istituzionale, a vari livelli. I recenti casi di trasferimenti all’estero, fatti o da farsi, di sede di società (Fiat, Lottomatica) e quelli più risalenti di aziende nella vicina Svizzera e/o nei paesi dell’est, dovrebbero avere aperto gli occhi sull’indifferibilità di alcune misure legislative da adottare.

La competizione fiscale tra stati, dell’Unione europea o meno, è una realtà con cui occorre misurarsi. La libertà delle imprese di scegliere paesi fiscalmente più ospitali è garantita, nello stesso spazio europeo, dal principio della libertà di stabilimento e da quello della libera circolazione dei capitali. Non è mantenendo gli attuali livelli di aliquota di tassazione di gruppi e di imprese che si frena la migrazione delle strutture produttive verso la piazza londinese o quella fiamminga. E non occorre avere antenne particolarmente sensibili per avvertire la propensione di altri a seguire gli esempi sopra ricordati. Allo stesso modo, non sono di certo i vincoli burocratici e le rigidità delle scelte di governo, centrale o locali che siano, a invogliare gli stranieri, che ancora ci credono, a investire in Italia. A un gruppo estero – è uno dei tanti casi – pronto a dar vita a un’importante iniziativa, con significative ricadute occupazionali, è stato fatto presente che doveva costruire a proprie spese anche le strade di collegamento dell’impianto con le principali arterie dei trasporti. Alla disponibilità dimostrata a sobbarcarsi siffatto ulteriore onere in cambio di benefici compensativi (riduzioni di imposte, eccetera) è stata opposta per lungo tempo l’impossibilità di aderirvi, per carenza di previsioni di leggi in proposito. L’investimento è stato realizzato. Non in Italia.

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Per ripartire serve un mix di riforme e incentivi

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

Un motore potente, ma anche tanta benzina. Occorrono entrambe le cose per fare una lunga, veloce corsa. La situazione di Eurolandia dimostra che ogni ricetta economica riduttiva ha poco valore: chi chiede solo benzina sbaglia come chi chiede solo di cambiare il motore. In economia l’immagine automobilistica si traduce molto rapidamente: occorre la domanda e occorrono le riforme. Il caso tedesco è esemplare: l’economia ha un ottimo motore rispetto ai concorrenti, ma sta mancando la benzina. Potrebbe correre, ma non lo fa e questo avviene – a differenza di quanto accade in una gara, perché questa non è una gara… – anche perché i “concorrenti”, come l’Italia, non vanno abbastanza veloci. La Francia può essere scelta come esempio opposto: qui la domanda e l’offerta di credito, che mancano altrove, è in crescita, l’economia potrebbe funzionare. Il motore però si è inceppato e non è facile ripararlo: coniugare la competitività con lo stato sociale non è compito facile, e le difficoltà francesi lo dimostrano.

Ricette troppo semplici, dunque, non funzionano in un’economia complessa. Le riforme strutturali senza domanda hanno poco senso, e non è un caso che Commissione Ue e Bce invochino investimenti pubblici contro il rischio di recessione, per sostenere la domanda. La risposta del Governo tedesco – di una sua parte, in realtà – al rallentamento è dunque astratta e può reggere solo perché il mercato del lavoro tedesco resiste sempre molto bene agli urti. Più adeguata sembra – nelle parole, almeno – la risposta francese, quell’«offerta che crea la domanda» invocata dal presidente François Hollande a gennaio che, al di là della retorica e della citazione colta (Jean-Baptiste Say), sottolinea la necessità delle riforme strutturali. Anche queste, però, vanno fatte bene, nella sequenza giusta e in sincronia con lo stimolo alla domanda. Il rischio, altrimenti, è quello di peggiorare le cose.

Il merito di una riforma

Il merito di una riforma

Gianluigi Pellegrino – La Repubblica

Ma di quale articolo 18 stiamo parlando? Di quello vigente o di quello ormai superato due anni or sono? Per fortuna ieri il Jobs act è entrato nel vivo del percorso parlamentare e con la presentazione degli emendamenti, comunque la si pensi, il confronto deve finalmente entrare nel merito. C’è infatti qualcosa di vagamente surreale nella tempesta di questi giorni. Stiamo discutendo della norma vigente o, come monadi impazzite, di quella che la precedeva e che quindi già oggi semplicemente non c’è più? E pure quasi si spacca il Partito del premier. L’intero paese si anima con governo e sindacati per primi che sembrano l’uno attaccare e gli altri difendere, non già l’articolo 18 come è oggi, ma come era prima della riforma approvata 24 mesi fa.

Il punto è rilevante perché le modifiche sono state sostanziali e non a caso agitarono anche allora la resistenza sindacale che infine decise di fare sforzo di buona volontà e di accettarle. E però basta un piccolo sondaggio domestico per verificare che la bufera di queste ore è percepita come se in ballo ci sia il reintegro automatico in caso di licenziamento, che invece la riforma del 2012 ha già ampiamente superato. Fermo il mostro del licenziamento discriminatorio (se vengo messo alla porta perché biondo, ebreo, donna che non è stata carina col capo) sul quale vogliamo essere certi che anche Renzi non abbia dubbi a garantire la massima tutela, negli altri casi, il ripristino del rapporto di lavoro è già oggi tutt’altro che scontato. Subordinato a mille condizioni e altrettante variabili, il reintegro è ormai da due anni ipotesi del tutto residuale e niente affatto automatica.

Peraltro al paradosso sul punto di partenza della discussione si è aggiunta sino a ieri la clamorosa distonia tra il merito, in sé niente affatto minaccioso, della proposta del governo e i toni radicali che invece l’hanno accompagnata sia da parte dell’esecutivo che da parte dei sindacati. E infatti nella norma proposta dal governo non sono affatto citati né l’articolo 18 né il sistema di reintegro. Ci si limita a richiedere che il Parlamento deleghi l’esecutivo a stabilire un sistema di “tutele crescenti secondo l’anzianità di servizio”. Tutto qui. Un concetto laconico e di per sé anche confortante. E però nelle reciproche dichiarazioni si annunciano palingenesi e si risponde con minacce di guerra.

Trattandosi di norma di legge, le parole scritte sono pietre. Quelle che ci sono e quelle che mancano. Allora delle due l’una. O la norma così come proposta non incide affatto sull’articolo 18 per come del resto già ampiamente riformato (ed allora non si capisce di cosa stiamo parlando) oppure si pretende una delega in bianco che però non è ammissibile né sul versante costituzionale né su quello politico. “Tutele crescenti” infatti vuol dire solo che non devono essere decrescenti, e ci mancherebbe altro. Per il resto ancora oggi non è chiaro quale sia la tutela minima, né quella massima che si propone. Tanto meno quale sia la relativa progressività. Anche un deciso allungamento del periodo di prova (portandolo sino a tre-cinque anni), con tutela reintegratoria solo a valle di questo, è un ragionevole sistema a “tutele crescenti” su cui sarebbe ampio il consenso (come dimostrano gli emendamenti presentati ieri) in una logica di giusto riformismo, senza calpestare diritti.

Peraltro non bisogna dimenticare che non parliamo della possibilità o meno di licenziare a buon titolo. L’articolo 18 nemmeno nella sua precedente versione lo impediva. Il tema oggi è del tutto diverso e cioè quale tutela l’ordinamento appresta in caso di abusivo licenziamento. Di questo si parla. Il che dovrebbe suggerire prudenza come sempre quando si mette in discussione il diritto di giustizia in favore di chi ha subito un torto. Se è del tutto legittima la pretesa riformatrice non si può pensare che il Parlamento la approvi in bianco e poi si vedrà. Quanto più la scelta vuole essere innovativa e persino rivoluzionaria, tanto più deve essere chiara, alla luce del sole. Clare loqui, quindi da parte di tutti. Vecchia e nuova guardia, governo e sindacati. Altrimenti sul campo restano solo vessilli, utilizzati obliquamente per rispettive pur legittime finalità che però rischiano di costare troppo al paese. Già in termine di confusione, di cui davvero non sentiamo il bisogno. Né in Italia né in Europa.

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

C’è la prova: zero soldi per il Jobs Act

Franco Bechis – Libero

Ora è ufficiale: per la riforma del lavoro Matteo Renzi non ha nemmeno un euro a disposizione. Di più: se prima una legge particolare non stanzierà i fondi necessari, tutto quel che è scritto nel Jobs Act non entrerà mai in vigore. Nel Pd dunque si stanno scannando sul nulla, perché anche quella riforma dell’articolo 18 non vedrà la luce se prima non si troveranno i fondi necessari ad allargare la protezione sociale e sarà approvato definitivamente il provvedimento legislativo che li stanzierà.

Il sospetto albergava da qualche tempo anche all’interno del Pd. «Io non sono preoccupato della guerra di bandiere ideologiche sull’articolo 18», confessava ad esempio Beppe Fioroni, «ma ho il terrore che dopo avere alzato tanta polvere inutile si scopra che sotto c’è solo un bluff. Perché allora si gli italiani ci faranno un mazzo così…». Fioroni deve avere un sesto senso, perchè nello stesso testo del disegno di legge sul Jobs act è stata inserita in extremis una clausola finanziaria imposta dalla commissione Bilancio del Senato che rende impossibile l’immediata adozione di decreti delegati come avviene dopo l’approvazione di ogni disegno di legge di delega. Sembra una questione tecnica, di lana caprina, e invece è essenziale.

Nel testo governativo è infatti stata inserita una postilla al comma 3 dell’articolo 6 che disciplina «l’esercizio delle deleghe». Come avevano ricordato fin da giugno i tecnici del servizio Bilancio del Senato, anche i disegni di legge di delega debbono rispettare il nuovo articolo 81 della Costituzione, e quindi dovrebbero indicare subito i mezzi di copertura di eventuali nuove spese. Altrimenti i decreti delegati non possono essere adottati fino a quando non vengono stanziate definitivamente le risorse necessarie. La postilla inserita nel Jobs act stabilisce così che «qualora uno o più decreti attuativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno, i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri sono emanati solo successivamente o contestualmente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie». Quindi prima di esercitare una delega che venga dal Jobs act debbono essere inserite in un decreto legge ad hoc le coperture necessarie, e se non si può adottare un decreto legge, bisogna affidarsi a un disegno di legge, attendendo però la sua pubblicazione definitiva sulla Gazzetta ufficiale dopo le rituali approvazioni nelle commissioni di merito e nelle aule di Camera e Senato.

Esempio pratico: il tema che fa tanto discutere il Pd – il cambiamento dell’art. 18 – è connesso al progetto di allargare la protezione sociale alle categorie che oggi non hanno quell’ombrello. Un’indennità di disoccupazione larga e decrescente che dovrebbe coprire ovviamente anche gli eventuali licenziati senza diritto al reintegro del nuovo articolo 18. Quindi il decreto delegato che dovrà cambiare lo Statuto dei lavoratori non potrà essere adottato se prima non sarà trovata la copertura finanziaria a quella nuova protezione sociale. Il governo vorrebbe inserire nella legge di stabilita un finanziamento extra di 1,5-2 miliardi di euro. Si tratterebbe però di una copertura parzialissima e quindi non sufficiente ad adottare nel 2015 il decreto delegato di riforma dell’articolo 18. Per farlo bisognerebbe spostare lì tutte le risorse di bilancio oggi utilizzate perla protezione sociale. E poi aggiungere almeno altri 5 miliardi ai due ipotizzati. Solo allora si potrà varare il decreto delegato in grado di attuare quello che sta oggi spaccando il Pd.

La priorità trasversale chiamata burocrazia

La priorità trasversale chiamata burocrazia

Lello Naso – Il Sole 24 Ore

Risorse? Riforme? Progetti di sviluppo che non ci sono? Non c’è dubbio che l’Italia abbia un deficit di competitività che deriva dall’arretratezza del sistema nel suo complesso, dalla crisi congiunturale e dalla mancanza endemica di risorse. Ma la lezione che arriva dalla vicenda del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione è che in ogni occasione il nodo più duro da sciogliere è quello della burocrazia. Nonostante la buona volontà del premier Renzi, che ci ha messo la faccia, e del Governo, nonostante la disponibilità degli uffici, e nonostante, presumiamo, la massima volontà di tutti i creditori di incassare le somme dovute, più di un terzo delle imprese è ancora insoddisfatto. Eppure, attenzione, le risorse erano e sono tutte disponibili.

Il motivo è molto semplice. Ogni qualvolta si attiva una procedura,la complicazione è sempre in agguato. Il labirinto di norme, il cavillo, l’elenco, la procedura da attivare, la certificazione. Molto è indispensabile, non c’è dubbio. Molto, invece, è frutto di un sistema normativo ipertrofico e complicato in cui norma chiama norma, regolamento chiama regolamento, cavillo chiama cavillo. Ecco perché non si può che partire dalla riforma della burocrazia. La priorità trasversale. Ecco perché non ci si possono permettere errori. Neanche minimi.

Tutele crescenti, incentivi, sussidi e indennizzi legati agli anni del lavoro

Tutele crescenti, incentivi, sussidi e indennizzi legati agli anni del lavoro

Enrico Marro – Corriere della Sera

Decreto legge o no, quella che ha in mente il governo Renzi è una riforma di sistema che cambierebbe le coordinate del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. L’abolizione dell’articolo 18, cioè del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziati senza giusta causa, è solo uno dei tasselli della riforma, ma è fondamentale per rendere appetibile il nuovo contratto di lavoro «a tutele crescenti», rilanciato qualche giorno fa con l’emendamento governo-maggioranza e fulcro del nuovo sistema. Al quale il governo intende arrivare rapidamente con i decreti attuativi del disegno di legge in discussione in Parlamento oppure, in caso di ritardo delle Camere, con un decreto legge, appunto.

Solo due forme di lavoro
Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine. Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali.

Lavoratori tutti uguali
Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi. E comunque – sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani – i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo.

Le tutele crescenti
Certo, ma «a tutele crescenti», che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro). Il nodo politico da sciogliere, soprattutto nel Pd, riguarda che cosa accade passata la prima fase del contratto, che si pensa durerà tre anni e durante la quale nessuno mette in discussione la libertà di licenziamento. La sinistra Pd e sindacale vogliono che, passati tre anni, torni la protezione dell’articolo 18 mentre il Nuovo centrodestra no e insiste per il solo indennizzo crescente. Il resto del Pd si divide tra quest’ultima ipotesi e quella di prevedere l’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (6-12-15) o una certa età del lavoratore.

I nuovi ammortizzatori
Una volta licenziato il lavoratore, in aggiunta all’indennizzo dall’azienda, avrebbe diritto all’indennità di disoccupazione dallo Stato. Si tratterebbe in pratica dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) già prevista dalla riforma Fornero, che però non entrerebbe più a regime nel 2017 ma prima. E che si estenderebbe a una platea più ampia, appunto perché ne avrebbero diritto tutti i lavoratori dipendenti nei quali confluirebbero circa 1,5 milioni di lavoratori attualmente impiegati in contratti a progetto, collaborazioni varie e altre forme di precariato. Per questo il governo è a caccia di circa un miliardo e mezzo di euro da mettere nella legge di Stabilità per il 2015. L’indennità avrebbe un tetto (per l’Aspi nel 2014 è di 1.165 euro) e una durata massima (potrebbe essere allungata da 18 a 24 mesi). I beneficiari dovrebbero però accettare le offerte di formazione e di lavoro congrue, altrimenti perderebbero l’assegno. Sparirebbero prima del previsto la cassa integrazione in deroga e l’indennità di mobilità. Via anche la cassa integrazione per chiusura di aziende. Resterebbe solo la cig ordinaria per momentanei cali di produzione e quella straordinaria per ristrutturazioni aziendali, che però potrebbe essere attivata solo dopo aver attuato riduzioni dell’orario. Il tutto finalizzato a limitare il ricorso alla cig solo ai casi di stretta necessità. Essa potrebbe essere estesa in qualche forma anche alle piccole imprese, che finora hanno beneficiato della cig in deroga a spese dei contribuenti. In questo caso dovrebbero invece pagare i contributi.