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Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Circa quarant’anni fa, in un’Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati. Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all’evoluzione della sinistra.

Questo per dire che non c’è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro. Nell’Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall’estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest’ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere – e in effetti è – un grave ritardo nell’aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent’anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l’alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un’Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso. Anche perché l’attuale sinistra – che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato – dovrebbe avere tutto l’interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l’impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Bruno Vespa – Il Mattino

Matteo Renzi ha un obiettivo chiave. Dire ai rappresentanti europei riuniti l’8 ottobre a Milano per il vertice sul lavoro che l’Italia sta facendo finalmente i compiti a casa. Per questo vuole che il Senato approvi la delega sulla riforma dello Statuto dei lavoratori. Approvare una legge delega non significa tuttavia aver tolto le garanzie dell’articolo 18 della vecchia legge per i nuovi assunti e per un periodo limitato. Dice infatti l’emendamento del governo a un vecchio testo ancora più generico: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Che significa? Tutto e niente. È solo una cornice, com’è appunto una legge delega. I contenuti dovranno esservi inseriti dal governo con un provvedimento autonomo che non dovrà essere approvato dal Parlamento, ma solo inviato per un parere non vincolante.

Il cuore dell’articolo 18 è il reintegro nelle stesse funzioni del lavoratore licenziato senza giusta causa. La volontà del governo è di sostituire il reintegro con un indennizzo economico proporzionato agli anni di lavoro, garantendo al lavoratore un’assistenza e una possibilità di reimpiego assai più efficaci della vecchia cassa integrazione. Ma questa per ora è soltanto una intenzione. Le polemiche degli ultimi due giorni stanno montando per evitare che l’intenzione venga attuata. Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro del Senato per il NCD e già ministro del Welfare di Berlusconi, sostiene che l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti e per tre anni è cosa fatta. Cesare Damiano, già ministro del Welfare di Prodi, e leader dell’ala CGIL del Pd dice che non se ne parla. Giuliano Poletti, ministro del Welfare di Renzi, dice che c’è tempo per parlarne. E ieri Deborah Serracchiani, vice segretario del Pd, ha dichiarato: “Nel testo attuale, il contratto a tutele crescenti non contiene la previsione della reintegra, ma questo non vuol dire che non possa contenerla nelle prossime versioni”. Come dire: non preoccupatevi, abbiamo scherzato.

Dinanzi a questo scenario, Matteo Renzi non può pretendere che i suoi colleghi europei si fidino delle promesse italiane. Siamo convinti che lui voglia portare a compimento l’opera in modo davvero innovativo. È vero che il reintegro forzoso nel posto di lavoro riguarda ogni anno soltanto qualche migliaio di lavoratori. Ma è un simbolo: e la politica, nel bene o nel male, vive anche di simboli. Il reintegro è sostituito in tutti i principali paesi europei da una compensazione economica. E nessuno dei tecnici che hanno scritto le leggi è stato ammazzato come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, né vive scortato da anni come Pietro Ichino e Maurizio Sacconi, che di Biagi fu la sponda politica.

Un’anomalia italiana dovrà pur finire un giorno se vogliamo passare dall’inferno al purgatorio. Renzi ha detto che se entro la fine di ottobre la legge delega non sarà approvata, il governo procederà con un decreto legge. Ma il decreto è peggio della de lega, perché dovrà essere convertito dalle Camere, mentre per 1 attuazione della delega è sufficiente un atto del governo. È possibile perciò che si arrivi a un nuovo voto di fiducia, perché Renzi non può permettersi di far passare la legge con il voto decisivo di Forza Italia. Ma poi che cosa si scrive dentro la delega? La confusione è grande sotto il cielo. E noi abbiamo un disperato bisogno di chiarezza. Renzi pure. Anche a costo di affrontare uno sciopero generale.

Jobs Joke

Jobs Joke

Davide Giacalone – Libero

Sul tema del lavoro è in scena una commedia degli equivoci. Che spera d’essere presa sul serio. Matteo Renzi non ha scelto a cuor leggero di aprire un conflitto dentro il suo partito, non ha sfidato per sfizio l’armamentario luogocomunista della sinistra, lo ha fatto per necessità. Il tentativo è quello di far somigliare l’Italia del 2014 alla Germania del 2003. Allora i tedeschi sfondarono il tetto del deficit per pagare i costi di riforme profonde, mercato del lavoro compreso, che avrebbero dato i loro frutti nel futuro. E li diedero. Noi, oggi, manchiamo la promessa di tenere il deficit sotto il 2,6% del prodotto interno lordo, ed è già difficile tenerlo sotto al 3, senza avere fatto un accidente. Da qui la trovata: diciamo di cambiare le regole del lavoro e proviamo a dare un significato ai conti che non tornano.

Può darsi che la Commissione europea abbocchi. Non perché siano allocchi, ma perché commissariare l’Italia è difficile. È troppo grossa. In ogni caso è escluso che creda alla serietà dell’operazione. Faremmo bene a diffidarne anche noi, perché qui non siamo a uno dei dibattiti della Leopolda, nel qual caso avrei applaudito, come applaudii allora, qui si tratta del governo. E le chiacchiere stanno a zero. Anzi, a meno di zero, visto che già su quelle il partito di governo si spappola. La gande novità consisterebbe nel contratto a tutele crescenti. Altra formula che più la ripeti e meno significa, perché si tratta di sapere quali, quando scattano e cosa escludono. Lo sapremo non appiccicando i manifesti della legge delega, ma leggendo il testo dei decreti legislativi. Che sono assai di là da venire. Sarà bene ricordare, difatti, che la radicale semplificazione delle regole sul mercato del lavoro era promessa e contenuta nei documenti e nel decreto “Destinazione Italia”, risalenti al settembre 2013. Scelte poi confermate in “Impegno Italia”, del febbraio 2014. Quindi, a parte la fantasia perversa di dare nomignoli all’attività di governo, investitori e osservatori internazionali sanno già qual è il valore concreto di quelle tonitruanti affermazioni: nullo. Servono i fatti, che non ci sono.

Relazionando in Parlamento Renzi ha detto di volere cancellare la dualità del mercato del lavoro italiano, con troppe garanzie in capo a pochi e poche (o nessuna) in capo a troppi. Sante parole, ma solo parole. Non è lo stesso governo che ha varato il decreto Poletti, nel quale si escludono garanzie per i nuovi contratti, nei primi tre anni? Decreto che trovo giusto, ma pur sempre l’opposto del ridurre la dualità. Per aggredirla occorre rivedere le troppe garanzie, cosa che provoca l’opposizione degli stessi che approvarono i due citati provvedimenti, governante Enrico Letta. Come si vede, la coerenza è una merce rara. Per rendersi conto di quanto non basti dire e serva, invece, fare, propongo a tutti, e in particolare al presidente Renzi, un piccolo gioco: condividete o meno, le seguenti affermazioni? “Per dare un’immagine plastica della condizione attuale, bisogna dire che la nostra società si divide in due vaste zone. Nell’una, ci sono coloro che hanno un patrimonio, un reddito, un lavoro, e che sembrano voler difendere con ogni mezzo e con energico spirito corporativo quello che hanno. Alla porta di tale zona si affolla l’altra, costituita da disoccupati, giovani e adulti, da categorie debolissime, da abitanti di zone depresse. Se le forze politiche e sociali continuano a occuparsi soltanto della prima zona, secondo i propri interessi politici, di classe o di ceto, trascurando la seconda, non usciremo dal problema”. Vado a capo, per dare il tempo di rispondere. Sono parole di Ugo La Malfa, risalenti al 1977. Da allora ad oggi siamo andati in direzione opposta al necessario, blaterando di diritti acquisiti e perdendo competitività. Spero sia chiaro il perché servono fatti non annunci. Le sole parole belle rischiano d’essere balle. Il jobs act un jobs joke.

Il bivio tra retorica e rinunce

Il bivio tra retorica e rinunce

Stefano Lepri – La Stampa

Con il suo pessimismo sull’economia italiana, paradossalmente l’Ocse ci aiuta. Sapere che nel 2014 resteremo ancora in recessione ci dice in primo luogo che l’urgenza delle riforme interne è assoluta, oltre a tutte le resistenze di categorie e interessi; in secondo luogo, conforta a insistere perché cambi la politica di austerità europea. A un Paese in tali condizioni non si può chiedere una ulteriore stretta di bilancio per il 2015. Sarà già gravoso rispettare il limite del 3% di deficit, come Matteo Renzi e Piercarlo Padoan si sono impegnati a fare; sarebbe inopportuno conformarsi al più rigido vincolo del «Fiscal Compact», ovvero una nuova riduzione di mezzo punto del deficit «strutturale».

Anche l’Ocse, come già il Fondo monetario internazionale, chiede una pausa nell’austerità. Non solo appoggia Mario Draghi nella sua doppia richiesta ai governi di riforme strutturali e di sostegno alla domanda dove è possibile; lo invita a condurre la Bce verso misure monetarie «più vigorose» (contro cui la Bundesbank tedesca punta i piedi). Il messaggio è che nell’area euro con tante persone ancora senza lavoro e con l’inflazione a zero misure espansive – sia da parte delle banche centrali, sia da parte dei governi – sono benvenute. Non sarebbe cosi invece secondo gli astrusi calcoli strutturali della Commissione europea, i cui attuali parametri pongono al 20% il tasso di disoccupazione «normale» in Spagna.

Per l’appunto anche il ministro dell’Economia spagnolo Luis de Guindos, conservatore gradito ad Angela Merkel, chiede «autocritica» sulle scelte europee. E dall’unico grande Paese del continente che non ha conosciuto recessione, la Polonia, un governo liberale propone un ancora più ampio piano di investimenti collettivo. La Germania è isolata; può frenare la svolta accennata dal vertice di Milano, ma è evidente al mondo che applicare le sue ricette non ha risolto la crisi. Il suo stesso tanto vantato bilancio in equilibrio si regge su un drastico taglio degli investimenti pubblici, necessari per «pensare al futuro» specie in Paesi come i nostri dove l’età media della popolazione cresce in fretta.

Nello stesso tempo, occorre convincersi che le ricette all’italiana erano fallite già da prima. La spesa pubblica in eccesso ci dette negli Anni 80 poca crescita in cambio di enormi debiti, nei primi anni Duemila nessuna crescita e nuovi debiti. Tutto il «modello Italia» risulta inadatto al mondo di oggi, per colpe nostre e non altrui. Siamo cosi malridotti che forse nemmeno un taglio massiccio alle tasse, peraltro rischiosissimo, sarebbe efficace. Non si va avanti senza riforme profonde. Però ormai la parola a forza di ripeterla non si sa più nemmeno che cosa significhi. Quali riforme? Fa solo danno l’esasperante teatrino politico sulla «sovranità» e sul «decidiamo noi, non l’Europa».

In certe versioni nord-europee «riforma» significava rassegnarsi a un tenore di vita più basso. Ma il prolungarsi della crisi spazza via queste idee. Non è oggi utile stringere la cinghia nel tentativo di vendere di più agli altri Paesi, messi male anche loro.

Servono riforme meno crude e più complicate: distribuire meglio le poche risorse che abbiamo, organizzare le istituzioni in modo più efficiente, non sprecare. A ridare alle imprese la voglia di espandere gli affari, a togliere alle famiglie la paura di spendere, può essere soltanto un Paese che funziona meglio. Il guaio è che il vantaggio di tutti richiede di intaccare privilegi, sussidi, comodità, pigrizie, di molti. Non si rimedia con la retorica; occorre invece esporre con chiarezza gli scopi per cui vale la pena di chiedere qualche rinuncia; occorre impegnarsi a tempi ed obiettivi di miglioramento.

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

La riforma del lavoro è a un tornante delicato e decisivo al Senato. Non c’è tempo per meline o per guerre di religione agitate dalla triste cabala del numero 18. Sulla delega che va sotto il nome, un po’ troppo esterofilo, di Jobs act si è già perso troppo tempo. Su questo l’Italia gioca la partita della credibilità in Europa e quella della fiducia per gli investimenti. Lo scontro paralizzante sul punto nevralgico del cosiddetto contratto a tutele crescenti non fa presagire nulla di buono.

L’obiettivo deve restare la creazione di un contratto a tempo indeterminato flessibile e semplice nella gestione. Le correzioni fatte alle regole per contratti a termine e apprendistato hanno già dimostrato, dati alla mano, che se si facilitano le procedure il mercato risponde e 36mila giovani hanno aumentato gli occupati in un solo mese (luglio) e altrettanti sono usciti dalla palude dell’apatia e dell’inattività per tentare, finalmente la ricerca di un’opportunità lavorativa. Non è ancora il lavoro ma è, almeno, la volontà di cercarlo e la fiducia che qualcosa stia cambiando o possa cambiare.

È anche per questo che da domani Il Sole 24 Ore proporrà ai suoi lettori un intero quotidiano online dedicato al tema del lavoro. Un nuovo strumento specializzato – destinato a tutti gli operatori, imprese e professionisti – per conoscere, per approfondire, per orientarsi tra gli annunci e la realtà del lavoro che cambia. Nel Paese ormai preda della deflazione – dato psicologico (di paura) prima ancora che economico – della disoccupazione quasi doppia rispetto a quella media europea, della produzione in ritirata, dei consumi svaniti è assurdo bloccare la discussione tra articolo 18 sì e articolo 18 no.

La delega di cui si dibatte in Senato ha l’ambizione di creare un nuovo sistema di ammortizzatori sociali; di puntare, forse per la prima volta, federalismo permettendo, sulle politiche attive per la ricerca di un’occupazione piuttosto che su quelle passive per la gestione assistenziale di chi i posti li perde. La delega ha l’ambizione di razionalizzare le forme di ingresso e di uscita dal mondo del lavoro con un occhio all’Europa e ai nuovi orizzonti globali; di traguardare, con un cuore gettato molto oltre l’ostacolo, anche il salario minimo per legge. Più che un problema di diritti – la cannoniera del massimalismo è già in azione – è semmai un problema di risorse, come accade per molte altre riforme che difficilmente sono a costo zero. Il tema dunque è il seguente: quanto risulta velleitario questo Jobs act?

La spinta riformista che tutto il mondo ci chiede non è il «lavoro sporco» come lo ha chiamato Maurizio Landini segretario Fiom e (strano) interlocutore privilegiato del premier, tramite cinguettii virtuali e non solo; ma è l’indicazione di una direzione di marcia moderna sul tema più delicato in assoluto, il lavoro appunto. Il vero problema del contratto a tutele crescenti non è tanto l’abbandono di diritti o procedure di garanzia come è il reintegro affidato magari più a capricci giurisprudenziali che al buonsenso, sostituibile con una congrua monetizzazione nei casi diversi dalla discriminazione di rango costituzionale. Il punto è la creazione di forme di incentivazione per rendere più appetibili e convenienti i contratti a tempo indeterminato, ristabilendo una corretta gerarchia tra impiego stabile e occupazione flessibile (più costosa).

Il Governo sta studiando forme di abbattimento dell’Irap o dei contributi caricati sul lavoro a tempo indeterminato, ma si scontra con le compatibilità di bilancio in una fase in cui l’economia continua la tragica stagione dell’arretramento. Ma proprio la riforma del lavoro sarebbe il lasciapassare europeo anche per la cosiddetta “flessibilità” nelle gestione dei parametri da applicare ai conti pubblici, vale a dire per avere più risorse spendibili. È un obiettivo che ci sollecitano Bce, Fondo monetario e proprio gli stessi partner europei. Ma è un tratto che sfugge alla discussione sul tema e questo è grave. È più facile infiammare assemblee o piazze al grido di “giù le mani dallo Statuto dei lavoratori” che ragionare sui costi di sistema e sul peso di un finanziamento del modello di welfare che è quanto mai squilibrato e a danno delle nuove generazioni (peraltro ormai nemmeno tanto nuove perchè lo squilibrio dura da anni). Eppure lo Statuto dei lavoratori andava stretto, già negli anni 90, anche al suo “genitore storico”, Gino Giugni più volte lucidamente schierato sulla necessità di rivedere alcune parte di una normativa ormai anacronistica rispetto al mutare delle condizioni di produzione, di competizione, di innovazione.

Se l’argomento fosse stato de-ideologizzato e ricondotto a più prosaiche categorie economiche probabilmente avremmo un numero assai più elevato di occupati. La discussione tutta “politica” sullo scippo dei diritti ha fatto velo per troppo tempo al tema decisivo dell’aumento della produttività, e per quella via anche dei salari, di cui nessuno si è curato per decenni. Se partiti, ministri e parti sociali si fossero concentrati su questo punto il Paese probabilmente sarebbe cresciuto di più, avrebbe trovato il sistema per valorizzare il capitale umano, avrebbe spinto in avanti la frontiera produttiva dell’innovazione. Invece sono anni che si assiste a un surreale dibattito della paura: quello dell’impresa che non vuole “fare matrimoni” con i propri dipendenti e quello dei dipendenti persuasi che il primo pensiero dell’imprenditore sia quello di licenziare i propri collaboratori. Sono queste due posizioni agitate sui fantasmi che hanno obnubilato le menti e azzerato ogni discussione costruttiva. Renzi batta un colpo: se può faccia finire questa seduta spiritica. Nel suo partito e fuori.

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Riforma del lavoro e addio Irap, solo così il Paese può ripartire

Francesco Forte – Il Giornale

In luglio la produzione industriale italiana ha avuto un calo dell’1% sul giugno e un calo dell’1,6% sul luglio 2013 che ha portato a zero la sua crescita per i primi 7 mesi del 2014. Ora si teme che il terzo trimestre possa avere ancora segno negativo e che il Pil 2014 abbia la crescita zero. Gli 80 euro in busta paga, che hanno dato ai lavoratori a basso reddito un miglioramento piccolo in sé ma per loro significativo, non sono serviti a dare una scossa al Pil. Altri sono i fattori che servono. Pesa la persistente crisi dell’edilizia, privata dovuta alle troppe tasse e di quella pubblica dovuta ai troppi vincoli. E pesa l’inadeguata performance delle nostre imprese nel commercio estero, dovuta sia alle tropo tasse sul lavoro e sia alla rigidità dei contratti di lavoro, aggravata dalle sanzioni alla Russia e dai problemi nel Medio Oriente. Infine c’è una carenza di investimenti delle industrie, dovuta alla loro scarsa convenienza.

Le nostre imprese sono oberate da una fiscalità eccessiva, che riguarda soprattutto il costo del lavoro tramite l’anomalia dell’Irap, un’imposta diretta che colpisce con una aliquota fra il 4 e il 5% il costo del lavoro al lordo dei contributi sociali con un gravame sulle retribuzioni lorde di circa il 6%. Con questo aggravio la tassazione dei profitti che con l’imposta sulle società (inclusi gli interessi passivi tassabili) si aggira sul 32%, raddoppia. E arriva al 70% nelle imprese ad alta intensità di lavoro. Dunque occorre agire sull’Irap con una riduzione che la azzeri, in tre anni, per imprese e lavoro autonomo. Servono 16-17 miliardi (l’operazione 80 euro è costata 8 miliardi).

L’analisi dei dati sulla produzione industriale a luglio 2014 fa capire che le tasse eccessive hanno una grossa colpa del brutto risultato netto. L’industria estrattiva, che riguarda soprattutto i materiali per l’edilizia, ha avuto una diminuzione del 7,8%. La fabbricazione di apparecchiature elettriche e di quelle per uso domestico non elettriche, due altri settori importanti nell’edilizia, è scesa addirittura del 13,9%. Sono andate male anche l’industria del legno (-3,0) e quella tessile e dell’abbigliamento e della pelle e accessori (-5,9%). Per la prima c’è, come spiegazione, la flessione della domanda interna connessa alla crisi edilizia e di quella estera per i mobili made in Italy; per la seconda gioca negativamente la riduzione di competitività della nostra produzione. Sono scese del 2,1 % la metallurgia e del 2,8% la produzione di macchinari e attrezzature, in espansione le produzioni elettroniche (+4,8%), quelle di farmaceutici (+3,0), di mezzi di trasporto (+2,9) e di prodotti chimici (+0,5). Gran parte di questi settori che vanno bene sono ad alto contenuto tecnologico e a bassa intensità di lavoro. Fa eccezione l’industria dell’auto, che è in espansione perché funziona la terapia Marchionne di contratti di lavoro aziendali di produttività e di innovazione organizzativa.

Per trovare la copertura per il taglio dell’Irap, bisogna operare sulla spesa. Dal blog del commissario Carlo Cottarelli rilevo che per l’acquisto di beni e servizi le pubbliche amministrazioni pagano prezzi spesso superiori a quelli praticati dalla Consip, la società che li dovrebbe gestire, a cui esse non si rivolgono, usando abili espedienti. Ci sono 2.671 società partecipate dai Comuni che hanno solo amministratori e zero addetti o meno addetti che amministratori. Il consumo per abitante per illuminazione pubblica dei nostri comuni è più che doppio di quello tedesco e inglese. Così dal satellite risulta che l’Italia è, di notte, la parte più luminosa del pianeta.  

L’agenda sbagliata del premier

L’agenda sbagliata del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Dice il nostro premier che il suo governo va giudicato fra 1000 giorni, anziché dopo i primi 200, quanti ne sono passati dal suo insediamento a Palazzo Chigi. Ha ovviamente ragione, se si riferisce al corpo elettorale, che potrà esprimersi solo al momento del voto (a proposito: quando si voterà? La legislatura non scade fra 1000 giorni, bensì un anno più in là…). Ma non ha ragione se si riferisce all’opinione pubblica, che ha tutto il diritto di discutere e giudicare il suo governo «passo dopo passo». Un governo si promuove o si boccia con le elezioni politiche, ma si discute e si giudica giorno per giorno. Sette mesi non sono tanti, ma non sono neppure pochissimi per valutare l’azione di un governo. Dopotutto, la domanda che quasi tutti ci facciamo è una sola: Renzi ce la farà a «cambiare verso» all’Italia, interrompendo un regime di stagnazione e recessione che dura da troppo tempo?

È il caso di notare, per cominciare, che un successo di Renzi se lo augurano non solo i renziani, ma anche buona parte degli italiani che non hanno votato Pd nel 2013 (alle Politiche), o non hanno votato Renzi nel 2014 (alle Europee). Nessun governo precedente, della prima o della seconda Repubblica, ha mai goduto di aspettative così diffuse e trasversali agli schieramenti. Nessun premier ha beneficiato di un’apertura di credito così ampia e convinta. Nessun governo, tranne forse il governo di solidarietà nazionale ai tempi del terrorismo, ha mai goduto di un appoggio esterno benevolo come quello che Forza Italia sta fornendo al governo Renzi. Altroché gufi, nessun premier ha avuto mai così tanti tifosi!

Dunque le possibilità di Renzi, sulla carta, sono decisamente buone. Nonostante tutte queste condizioni favorevoli, nelle ultime settimane è cominciato a serpeggiare il dubbio che Renzi possa non farcela o, stando ai critici più severi, che la sua volontà di cambiare l’Italia sia più gattopardesca di quel che era sembrata all’inizio. Come mai? Alcune ragioni sono evidenti: l’inflazione degli annunci (la cosiddetta «annuncite»), il mancato rispetto delle scadenze spavaldamente fissate per le varie riforme epocali (legge elettorale, lavoro, fisco, giustizia, pubblica amministrazione), la litigiosità dei parlamentari del Pd, la natura pasticciata di alcuni provvedimenti, l’incertezza in materia di tasse, compreso il tormentone del rinnovo del bonus di 80 euro, per il quale ancora oggi nessuna legge stabilisce le coperture nel 2015.

C’è una ragione, tuttavia, che a me pare più influente di tutte le altre. Da qualche settimana anche gli osservatori più benevoli cominciano a sospettare che Renzi abbia completamente sbagliato le priorità e, soprattutto, che ormai sia troppo tardi per recuperare. Il ragionamento, in breve, è questo: se vuoi far ripartire la crescita, come tutti i politici affermano di voler fare, devi prendere alcune decisioni impopolari in campo economico-sociale (tagli di spesa pubblica, liberalizzazione del mercato del lavoro); ma quelle decisioni le puoi prendere solo quando il tuo consenso è al massimo, ovvero durante i primi mesi di governo (la cosiddetta luna di miele); e se lasci passare quella finestra di opportunità, tutto diventa più difficile, se non impossibile.

Ora il punto è che la luna di miele pare stia già tramontando. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato, condotto da Demos & Pi e presentato da Ilvo Diamanti su Repubblica, fra giugno e settembre il Pd ha perso 4 punti, ma la popolarità di Renzi è scesa di ben 14 punti, ossia 10 punti di più. E’ vero che la rilevazione di giugno era drogata dal successo alle Europee, ma resta il fatto che il consenso di Renzi risulta in diminuzione anche rispetto a marzo e a maggio.

La fine della luna di miele, un fatto fisiologico dopo 200 giorni di governo, sembra dare ragione a quanti, da mesi, non si stancano di ripetere che è stato un grandissimo errore dare la precedenza, mediatica e parlamentare, al cambiamento della legge elettorale della Costituzione, e rimandare tutte le riforme economico-sociali più importanti, a partire dal Jobs Act. Il cambiamento delle regole, infatti, produrrà effetti solo fra qualche anno, e comunque non incontra alcun serio ostacolo da parte dell’opinione pubblica, che ha ben altre priorità. Alcune riforme economico-sociali, invece, possono produrre effetti molto più rapidamente, ma richiedono il massimo di consenso dell’opinione pubblica, per vincere le inevitabili resistenze delle mille lobby che temono di perdere i loro privilegi. Secondo questi critici Renzi doveva dare assoluta priorità al mercato del lavoro, ai tagli di spesa e alla riduzione del costo del lavoro per le imprese, lasciando che le riforme delle regole elettorali e istituzionali facessero tranquillamente il loro corso parlamentare, senza ritardare le assai più urgenti e vitali riforme economico-sociali.

Il fatto curioso è che questa mancanza di coraggio (ma forse sarebbe meglio dire: questa mancanza di tempismo) in campo economico-sociale si sta già ritorcendo contro il governo. Renzi ha deciso da tempo di non rispettare l’obiettivo del 2.6% di deficit che egli stesso aveva imprudentemente fissato a primavera, e si appresta a negoziare con l’Europa un’interpretazione flessibile degli impegni assunti. Ma le sue possibilità di riuscire nell’intento, e soprattutto di evitare la reazione negativa dei mercati di fronte all’ennesimo ritardo nel percorso di risanamento dei conti pubblici, sono state enormemente ridotte precisamente dalla scelta, fatta a marzo, di posticipare le riforme difficili, che sono quelle economico-sociali, e di trastullarsi con quelle facili, legge elettorale e svuotamento del Senato, il cui percorso parlamentare è garantito dall’accordo con Silvio Berlusconi.

Si potrebbe pensare, o meglio sperare, che le «riforme strutturali», a partire da quella del mercato del lavoro (cui tuttora mancano i tre tasselli fondamentali: codice semplificato, contratto a tutele crescenti, ammortizzatori sociali universali), siano solo un’ossessione degli studiosi, i detestati «esperti» da cui il nostro suscettibile premier «non accetta lezioni». Sfortunatamente non è così. I mercati finanziari si sono già accorti della nostra lentezza, anche se i politici preferiscono non vedere il segnale che essi ci mandano. Eppure quel segnale è chiaro e forte: fra gennaio e oggi la diminuzione dello spread, che ha coinvolto un po’ tutti i Paesi dell’eurozona, è stata in Italia minore che negli altri Pigs, ossia Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Segno che i mercati percepiscono la differenza fra le velocità con cui i Paesi più indebitati ristrutturano le loro economie.

In concreto, tutto ciò significa che aver rimandato le riforme che contano potrebbe costarci caro. Subito, sotto forma di minore disponibilità dell’Europa a concedere sconti ai soliti inaffidabili italiani. In prospettiva, sotto forma di rischio sui mercati finanziari: se un’altra crisi dovesse scuotere l’euro, l’Italia non ne sarebbe al riparo, perché troppo poco ha fatto e sta facendo per fermare il proprio declino.

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Beda Romano – Il Sole 24 Ore

È un quadro sullo stato di salute della competitività dell’industria europea piuttosto negativo, ma ricco nonostante tutto di spunti positivi quello che la Commissione pubblicherà oggi a Bruxelles. La situazione italiana è peggiore di quella di molti altri stati membri. Eppure il paese sta mostrando una straordinaria capacità di adattarsi dinanzi alle difficoltà del momento, rese ancora più difficili da noti ostacoli normativi, istituzionali e sociali.

«I dati aggregati dimostrano una ripresa delle esportazioni e un aumento della produttività nella maggioranza dei paesi membri», si legge in un rapporto annuale che verrà presentato oggi dal commissario all’Industria, Ferdinando Nelli Feroci. «Tuttavia, i dati positivi a livello di Unione europea nascondono considerevoli differenze tra stati membri e tra settori in termini di risultati e politiche». Il rapporto, ieri ancora in lavorazione, offre uno spaccato interessante.

Sul fronte italiano è facile mettere l’accento sulle debolezze e sui ritardi. Molti dati sono noti, ma restano impressionanti. L’industria italiana ha perso oltre 500mila posti di lavoro tra il 2007 e il 2012. L’unico paese ad avere aumentato l’occupazione in questo settore è stata la Germania. L’Italia appartiene a un insieme di stati membri caratterizzati da una competitività elevata ma in stagnazione o in calo (allo stesso gruppo appartengono tra gli altri la Francia e la Gran Bretagna).

Il quadro italiano è in chiaroscuro. Dal 2007, il numero di imprese manifatturiere è sceso del 19%. La competitività dei costi è diminuita di due punti percentuali, aumentando il divario già cresciuto di 35 punti percentuali tra il 1997 e il 2007. «La bassa crescita della produttività – scrive la Commissione – è dovuta principalmente a una allocazione inefficiente delle risorse». Il paese registra un calo dell’efficienza del capitale, a parità di investimenti rispetto agli altri stati membri.

Secondo la Commissione, una delle ragioni è da ricercare in riforme del mercato del lavoro che hanno aumentato la flessibilità mantenendo tuttavia rigidità nei meccanismi salariali. La spiegazione è certamente convincente, ma chi conosce il paese sa anche che famiglie e imprese usano spesso il denaro a propria disposizione in forme più o meno eclatanti di clientelismo e familismo, e non solo in tangenti versate alle autorità nazionali e locali.

Al netto di questi dati negativi, segnati da un ambiente economico poco liberalizzato l’esecutivo comunitario nota aspetti positivi in un momento in cui l’Italia dibatte nervosamente della modernizzazione della sua economia. Sul fronte energetico, l’industria ha fatto molti progressi, riducendo il proprio impatto ambientale tra il 2007 e il 2012 del 3,5% all’anno. Sul versante dell’export, le imprese italiane si stanno concentrando sempre di più su mercati extra-europei e prodotti basati su tecnologia medio-alta.

«L’industria italiana sta aggredendo il problema della competitività dei costi cavalcando l’innovazione e la qualità in prodotti maturi», scrive la Commissione. Peraltro, la riforma del 2013 della funzione pubblica ha portato per le società a risparmi per 8,99 miliardi di euro in costi amministrativi. Tuttavia, secondo Bruxelles, gli sforzi sono ostacolati da un divisione poco chiara delle responsabilità tra stato e regioni e dall’uso di decreti-legge che non consentono misure mirate di semplificazione.

Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Stefano Lepri – La Stampa

Le riforme sono ciò che l’Italia deve fare per sottrarsi al declino. Sono quelle necessarie a un Paese che aveva già cominciato a impoverirsi all’inizio dello scorso decennio, prima della grande crisi e molto prima delle regole di bilancio europee ancora ieri difese da Angela Merkel. In più, solo cominciare a farle darà forza alla battaglia per il futuro dell’Europa da condurre nei prossimi mesi.

La nuova Commissione europea, la cui squadra è stata completata ieri, mostra una prevalenza di conservatori (soprattutto nel senso della continuità delle politiche attuali). Allo stesso tempo, la svolta di Mario Draghi il 22 agosto ha aperto una fase nuova. Occorre ascoltarlo sia quando dice che senza riforme nessun altro rimedio funzionerà, sia quando aggiunge che la politica di bilancio europea è nell’insieme troppo austera. In Italia conta più il primo punto. Ad esempio l’incapacità di usare appieno i fondi strutturali europei, ricordataci nell’intervista dal presidente uscente della Commissione José Barroso, non può essere scaricata su capri espiatori di comodo: dipende solo dall’inettitudine dei nostri politici locali a formulare progetti capaci di essere approvati da Bruxelles. Non interessa quel denaro perché non rientra negli schemi nazionali di che cosa occorre fare per conquistarsi il consenso degli elettori. E si badi bene che a risolvere il problema hanno provato in tanti, a cominciare dal governo Ciampi 21 anni fa, maggioranze di ogni colore, ministri anche di grande competenza; metodi assai differenti sono stati sperimentati via via.

In altri casi misure che i governi riescono a prendere vengono bloccate dal pulviscolo dei piccoli poteri interessati a che nulla cambi. La struttura del nostro Stato rende facile a troppe entità il non fare, nel calcolo di ricevere prima qualcosa in cambio. Così la burocrazia intralcia le norme attuative, le amministrazioni locali stentano a conformarvisi. Tagliare il nodo con procedure accelerate è spesso peggiore del male: l’arbitrio crea spazio per maxi-tangenti, come emerge dagli scandali della Protezione Civile o del Mose a Venezia.

Ancora più spesso, corporazioni compatte pretendono influenza sul potere politico a danno dell’insieme degli elettori. L’esempio dei 45 giorni di ferie difesi dai magistrati sembra fatto apposta. Non possiamo fare a meno di riformare la giustizia civile quando esistono di fatto una franchigia per i reati (sotto una certa cifra non vale la pena di affrontare costi e tempi di una causa) e una ampia incertezza del diritto (su troppe minuzie si rischia di essere portati in causa). E se si andrà avanti, più ancora dei giudici protesteranno gli avvocati. L’insieme di corruzione politica, inefficienza burocratica e arroganza delle lobbies accresce a valanga la sfiducia nell’azione collettiva. Dilaga la paura di ogni novità; molta propaganda grillina si fonda sul principio del «meglio non fare perché facendo qualcuno ruba»; si finisce a diffidare della stessa parola «riforme».

O si incide su tutto questo, o l’Italia continuerà a deperire; la nostra economia non sarebbe in grado di rispondere agli stimoli forse nemmeno se i vincoli di bilancio sparissero da un giorno all’altro. Nello stesso tempo, il ristagno collettivo dell’area euro va curato con strumenti nuovi; e questo lo deve capire la Germania. Il rischio non è più di un crack da instabilità finanziaria, come nel 2011. Se si continua cosi, senza ripresa e senza lavoro, l’unione monetaria può invece andare incontro a una crisi tutta politica: basti pensare ai correnti sondaggi di opinione in Francia. Eppure a Berlino per fermare l’ascesa degli anti-euro basterebbe calare le tasse, dato che lì le risorse ci sono.