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Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate: lo Stato non esita a colpirvi in silenzio e di nascosto. Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie ha infatti raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Un lieve calo del gettito dipeso unicamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi: lo scorso anno i tassi sui depositi bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04% e i titoli di Stato all’1,19%.

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Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie dovrebbe aver raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in ulteriore crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Lo rivela un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale si conferma comunque l’escalation registrata a partire dal 2011, anno che ha dato il via a una serie di repentini aumenti su tutti i fronti delle imposte applicabili agli investimenti finanziari.

C’è di più: il lieve calo del gettito 2015 rispetto alle attese potrebbe accompagnarsi a un’ulteriore riduzione per il 2016 (e sarebbe la prima volta in tutto l’arco temporale abbracciato dello studio), tanto da far pensare a possibili contromosse del governo destinate a sfociare in nuove strette fiscali. È certo infatti che il calo di gettito non risulterebbe da un allentamento della morsa fiscale, ma esclusivamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi presso il pubblico dei piccoli risparmiatori: lo scorso anno i tassi sui depsiti bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04%  e i titoli di stato all’1,19%. In base ai diversi scenari di “stress” la perdita di gettito complessiva dalle rendite finanziarie potrebbe anche superare il miliardo.

Il prelievo complessivo, comunque oggi più che raddoppiato rispetto al 2011 (quando era quantificabile in “soli” 6,9 miliardi), si compone di vari elementi, il più rilevante dei quali è determinato dall’imposta sostitutiva sui guadagni di natura finanziaria: da sola essa preme per oltre 10 miliardi di euro all’anno, in particolar modo da quando l’ultimo giro di vite (datato giugno 2014) ha portato l’aliquota standard al 26% con la sola eccezione dei titoli di Stato, la cui tassazione rimane agevolata al 12,5%. Da tale componente proviene il gettito fiscale che risulterebbe dunque maggiormente incerto per il futuro, essendo legato all’andamento dei mercati finanziari, oltre che delle politiche accomodanti della Banca centrale europea a livello di tassi d’interesse e di immissione straordinaria di liquidità nel sistema.

Un secondo elemento di tassazione per grado d’importanza nell’attuale sistema è quello dell’imposta di bollo su depositi e investimenti finanziari. Nata come balzello fisso sugli estratti conto del deposito titoli (34 euro e 20 centesimi all’anno), ha resistito come tale solo fino alla metà del 2011, quando la crisi dello spread ha portato i nostri governi a trasformarla rapidamente in una patrimoniale che colpisce in misura ora proporzionale sostanzialmente ogni strumento finanziario (ad eccezione di conti correnti, fondi pensione e alcuni tipi di polizze vita). Dopo l’ultima revisione dell’imposta (passata allo 0,2% nel 2014), il bollo sugli investimenti garantisce allo stato ben 4,1 miliardi annui: una misura decuplicata rispetto al 2011 (quando pesava solo 400 milioni) raggiungendo misure paragonabili ad altre imposte nel frattempo scomparse come la vecchia IMU sulla prima casa.

L’imposta di bollo sugli investimenti non va confusa con quella sui conti correnti, che resiste nella sua attuale configurazione sin dal 2012, quando venne introdotta l’esenzione per i conti intestati a persone fisiche che non superano i 5.000 euro di giacenza media: da questa voce lo Stato si attende ogni anno circa 600 milioni di euro.

Tra le tasse sugli strumenti finanziari va aggiunta la Tobin Tax, che colpisce in particolare le transazioni di taluni titoli sui mercati italiani, indipendentemente dal fatto che esse si concludano in guadagno oppure in perdita per l’investitore, e che frutta però soli 300 milioni di euro circa alle casse dello Stato, tanto che a più riprese ci si è chiesti se nel complesso determini complessivamente più costi per il sistema che benefici per l’erario.

Considerato dunque tutto il mix di imposte su depositi e investimenti finanziari, in uno scenario di rendimenti decrescenti tenderà a prevalere sempre di più la componente patrimoniale rispetto a quella commisurata al reale reddito ricavato dai piccoli investitori. L’incidenza reale di queste imposte è stata calcolata da ImpresaLavoro per il 2015 al 33,5%, in aumento di ben due punti e mezzo rispetto all’anno precedente, quando era pari al 31%. Con risultati paradossali per chi, per esempio, continua a investire in titoli di Stato a breve termine: oltre a offrire un rendimento negativo (con interessi a carico del sottoscrittore), i Bot rimangono comunque soggetti all’imposta di bollo.

Il tax rate è ben oltre il 26% anche in tutti i casi in cui gioca a sfavore del contribuente il meccanismo spesso contorto (e ignoto ai più) che determina la compensabilità delle minusvalenze pregresse nel regime più comune del risparmio amministrato, limitandola a specifiche categorie di titoli e a particolari tipologie di redditi finanziari.

Nonostante tutto, il calo dei rendimenti sui mercati del debito pubblico dovrebbe produrre a livello di bilancio soprattutto un calo della spesa per interessi sul debito (dagli 84 miliardi del 2012 ai 67 previsti per il 2016): beneficio notevolmente più grande rispetto alla flessione delle entrate sulle rendite finanziarie, ma che lo Stato potrebbe voler comunque compensare attingendo da altre fonti.

Lo spettro che aleggia spesso nella mente degli italiani è quello del prelievo forzoso sui conti correnti, alla stregua di quanto avvenuto nell’estate del 1992 per decisione del governo Amato. Ma se lo stesso 6 per mille di prelievo sui conti fosse applicato oggi, non frutterebbe che 3,3 miliardi una tantum.

Ecco dunque che potrebbe manifestarsi ben presto un nuovo giro di vite fiscale, inatteso, sul tema successioni e donazioni. Proprio di recente infatti sono emerse delle proposte d’intervento: le prime a distanza di dieci anni dalla riforma che ha reintrodotto l’imposta. In particolare si prevederebbe di raddoppiare le aliquote (triplicarle al di sopra di una certa soglia) e nel contempo abbassare le franchigie di esenzione, che rimarrebbero distinte per grado di parentela. L’imposta, che oggi frutta circa 600-700 milioni di euro l’anno, potrebbe dunque essere la prima candidata ad un ritocco. L’unica speranza, a quel punto, è che l’incremento sia soltanto un lontano parente di quelli visti sinora.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati
** ricercatrice Centro studi ImpresaLavoro

 

Errori politici pagati dai cittadini

Errori politici pagati dai cittadini

di Massimo Blasoni – Panorama

Il Quantitative Easing della BCE ha immesso nel sistema creditizio enormi quantità di denaro. Questa liquidità, però, non si è trasmessa a famiglie e imprese: l’andamento del credito continua a non dare segnali di ripresa (meno 0,5% prestiti al settore privato su base annua secondo Bankitalia). Il problema risiede in un sistema bancario che eroga con difficoltà il credito a causa di istituti strutturalmente sottocapitalizzati e di un livello di crediti deteriorati che stenta a diminuire. Lo Stato e la politica devono stare lontano dall’economia e quindi anche dalle banche, soprattutto dalla loro gestione. Troppe volte in questi anni le scelte sbagliate di partiti e governo in tema bancario sono state pagate dai cittadini che avevano investito in istituti in crisi da tempo. E si è trattato spesso di piccoli investitori, magari inconsapevoli, che hanno perso i risparmi di una vita.

Massimo Blasoni
Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Crisi delle banche: ecco a quanto ammonta il conto per i risparmiatori

Crisi delle banche: ecco a quanto ammonta il conto per i risparmiatori

di Paolo Ermano

Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Banca d’Italia per salvare la parte buona delle quattro banche dell’Italia centrale da anni in stato di crisi. Il computo fornito da ImpresaLavoro è stato realizzato sulla base dei dati contenuti negli ultimi bilanci pubblicati dalle banche cadute in liquidazione, nonché degli ultimi aumenti di capitale e dei dati Reuters sui titoli obbligazionari colpiti. I soci delle quattro banche, oltre agli obbligazionisti subordinati, si sono visti infatti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti, senza per loro alcuna chance di recupero poiché sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, né patrimoniale né di voto.

La procedura di risoluzione adottata in novembre rappresenta una sorta di anticipo rispetto a quanto potrebbe accadere dal 2016 anche per altre banche con l’entrata in vigore delle norme sul bail-in, ovvero sulle procedure di salvataggio interno che limitano drasticamente – se non annullano – le possibilità di intervento del contribuente al ripianamento delle perdite degli istituti in difficoltà. In realtà, l’applicazione rigida del bail-in alle quattro banche avrebbe avuto dei risvolti ancor più drammatici poiché avrebbe comportato delle perdite anche per i titolari di obbligazioni ordinarie e, probabilmente, anche di una parte dei correntisti con giacenze superiori a 100mila euro.

Le quattro banche oggetto del “salvataggio” hanno bruciato circa 3,1 miliardi di valore in capitale azionario (di cui oltre 500 milioni raccolti – quasi tutti da piccoli risparmiatori – solamente tra il 2011 e il 2013), mentre a quasi 800 milioni corrisponde la perdita per le obbligazioni “junior”, ovvero subordinate rispetto alle più comuni ordinarie, anch’esse collocate per gran parte a piccoli risparmiatori. Il dissesto sarà certamente ricordato tra i più gravi della storia finanziaria del nostro paese, tanto da essere già stato paragonato ai casi di Parmalat e Cirio, anche se il confronto più azzeccato – fatte le dovute proporzioni – è quello con il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, intervenuto nel 1982. Anche allora il valore delle azioni fu azzerato, ma i soci ricevettero il diritto di partecipare al capitale del Nuovo Ambrosiano, che dopo un lungo risanamento e una serie di operazioni di fusione con altri istituti ha contribuito alla nascita dell’odierno gruppo Intesa Sanpaolo.

Le quattro banche oggetto, lo scorso mese, della procedura di risoluzione erano state da tempo commissariate da Banca d’Italia (Carife lo era addirittura dal 2013). L’amministrazione straordinaria, del resto, segnala un grave stato di crisi e negli ultimi anni ha portato metà delle banche coinvolte a chiudere i battenti, mentre l’altra metà si è salvata riprendendo la normale attività oppure trovando acquirenti come nel caso recente di Banca Tercas e Caripe, acquistate dalla Popolare di Bari. Ad oggi tuttavia sono ancora dieci gli istituti bancari in tutta Italia sottoposti a questa procedura, e per i quali dunque perdura la situazione di crisi.

Non sono commissariate ma stanno affrontando una situazione molto delicata anche Veneto Banca e Popolare di Vicenza, le due grandi popolari del Nordest che figurano tra le società ad azionariato diffuso (ovvero tra i cui soci figurano una moltitudine di piccoli risparmiatori), che prevedono di quotarsi in Borsa solo nella primavera del 2016, momento nel quale emergerà il reale valore di mercato delle stesse. Dal 2014 infatti, il meccanismo interno di rivendita delle azioni di tali istituti si è sostanzialmente bloccato, sotto il peso di svalutazioni di bilancio e perdite sempre più consistenti, e della consapevolezza ormai diffusa che il prezzo delle azioni fissato “a tavolino” dal Cda negli ultimi anni è oggi ampiamente fuori mercato, e per questo tale da scoraggiarne l’acquisto.

Agli inizi di dicembre il Cda di Veneto Banca ha determinato il prezzo di recesso per le azioni in 7 euro e 30 centesimi, con una gravissima perdita (pari all’81,5%) rispetto al prezzo di 39 euro e 50 che gli stessi titoli avevano solo nove mesi prima. Viste le numerose analogie tra i due istituti, si teme che una proporzione del genere possa applicarsi anche a Banca Popolare di Vicenza; in entrambi i casi oltre al danno si aggiunge anche la beffa, dal momento che gli scambi delle rispettive azioni sono comunque ancora bloccati e potranno riprendere solamente tra qualche mese con l’approdo in Borsa, dove potrebbero subire peraltro nuove riduzioni di valore. Il conto delle perdite, dunque, per i soci delle grandi popolari del Nordest, potrebbe essere già oggi stimabile in 6,2 miliardi di euro, nonostante i quasi 1,9 miliardi versati dagli azionisti negli ultimi 2 anni sotto forma di aumenti di capitale e di rimborso anticipato (in azioni) di obbligazioni convertibili. Entrambe le banche inoltre si apprestano a richiedere ai soci altri 2,5 miliardi di capitale nei primi mesi del 2016, al fine di ripristinare i livelli di patrimonio e garantire la continuità aziendale.

Al di fuori delle due popolari venete (che a dispetto della denominazione hanno nel tempo assunto una dimensione nazionale e tale da essere incluse tra le 15 “big” italiane vigilate direttamente dall’Europa), vi sono una quarantina di istituti non quotati ma con azionariato diffuso, e dunque con una compagine sociale costituita in gran parte anche da piccoli risparmiatori. Oltre alla Popolare delle Province Calabre (commissariata), tra questi istituti non risultano altre crisi in corso paragonabili a quelle di Vicenza e Veneto Banca, ma la trasparenza dei prezzi e nelle quantità di azioni di questi istituti, scambiate attraverso i loro “borsini interni” più o meno evoluti, risulta in media molto scarsa (seppur variando significativamente tra istituto e istituto). Oltretutto, il prezzo di tali azioni risulta in media più alto rispetto ai multipli di borsa ed è dunque possibile che, a fronte di eventuali nuove svalutazioni, emergano perdite per i loro piccoli azionisti per un totale di altri 2,5 miliardi di euro.

Molto più trasparente, ma anche molto più grave, il conto per le più grandi banche italiane quotate in Borsa. Il mercato azionario ha punito i loro investitori sin dai primi inizi della crisi finanziaria, ovvero dal 2007. Nonostante il netto recupero che si sta materializzando sui titoli quotati sin dal 2013, secondo i dati di Borsa Italiana il settore delle banche italiane risulta aver bruciato, rispetto al 2007, ben 100,1 miliardi di valore, a cui si devono aggiungere i 48,9 miliardi versati dai soci tramite aumenti di capitale dal 2008 a oggi. Tra le quotate, oltre alla già citata Banca Etruria caduta in liquidazione, a presentare le perdite più vistose sono state Banca Carige e il Monte dei Paschi, che hanno però superato i più recenti test europei sul capitale. Inoltre, vanno citati anche gli azionisti di Banca Popolare di Spoleto, che vivono nell’incertezza da almeno due anni, con il titolo sospeso dalle quotazioni e con il commissariamento di Banca d’Italia (conclusosi nel 2014), ora impugnato dagli ex-vertici.

Ma la vera spada di Damocle che incombe sulle nostre banche sostanzialmente comune a tutto il sistema ed è ancora quella dell’elevato volume dei crediti deteriorati, problema ad oggi irrisolto, che corrisponde, secondo le recenti stime della European Banking Authority, addirittura a oltre 17 punti del nostro Pil.  Nella sostanziale impossibilità di un aiuto pubblico in soccorso dei dissesti bancari, rimarcata dalle nuove regole del bail-in, una cosa è certa: i piccoli risparmiatori dovranno necessariamente aumentare il proprio grado di consapevolezza, e ricordarsi che in base alle nuove norme gli unici strumenti davvero tutelati saranno i conti correnti e depositi (e solo entro i 100mila euro per istituto), mentre gli altri titoli bancari come azioni e obbligazioni (ancor di più se non quotati), già oggi possono presentare un grado di rischio più alto di quanto inizialmente prospettato.

I Bot non convengono più, meglio puntare su mattone e azioni

I Bot non convengono più, meglio puntare su mattone e azioni

di Lorenzo Cairati – Stop

“Tradito” dai titoli di Stato, il piccolo investitore se ne va. Sì, ma dove? Secondo una recente analisi del centro studi ImpresaLavoro (www.impresalavoro.org), con i tassi d’interesse dei Bot semestrali e annuali nonché dei Ctz, i Certificati del Tesoro zero-coupon, finiti in rosso (il tasso di rendimento era pari al meno 0,055 percento a fine ottobre), gli italiani si sono visti sfilare sotto i piedi un’altra certezza. Già a guardare i conti del triennio 2012-2014, il bilancio del rendimento annuo netto è negativo per chi ha investito nei Buoni ordinari del Tesoro. E così, dice lo studio, da qualche mese è in corso una vera fuga.

Gli esperti di ImpresaLavoro imputano la colpa al prelievo fiscale sui profitti e un’imposta di bollo troppo alta che finisce per portare risultati in rosso alle famiglie italiane, che hanno investito ben 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza, cioè il 4,7 percento del totale, in titoli di Stato (i dati sono di Bankitalia e sono relativi ai 2013). «Ma è inutile farsi prendere dal panico, le alternative per i piccoli e medi risparmiatori che vogliono faro investimenti esistono», spiega a Stop Roberto Di Lellis, editore, giornalista economico e per anni caporedattore del settimanale Il Mondo. «Non è un buon momento per puntare sui Bot» conferma «perché i tassi di interesse sono molto bassi. Chi ha a disposizione una cifra più o meno consistente può però rivolgersi altrove, tenendo presente un principio fondamentale: oggi è bene diversificare e distribuire i propri investimenti». In che modo? «Per gli immobili, ad esempio, il momento è proficuo: chi può permettersi di comprare lo può fare a prezzi interessanti e, ragionando su un investimento di lungo periodo, magari far rendere la nuova proprietà affittandola» risponde l’esperto. «Consiglio invece di guardare al mercato azionario con una certa prudenza, comprando, quando è il caso, a piccole dosi. Il primo suggerimento è scegliere fondi con diverse specializzazioni, ma esclusivamente europei o americani; non guarderei invece ai Paesi emergenti, che sono tuttora un’incognita».

L’altra buona idea è quella di puntare sulle società quotate che distribuiscono dividendi alti o molto alti. Ancora Di Lellis: «Sono investimenti che “assomigliano” ai Bot ma danno interessi del 3-4 percento netto l’anno. Senza farsi influenzare troppo dagli andamenti in Borsa, ci sono grandi compagnie come Snam, Terna o Eni, per esempio, che a maggio staccano cedole piuttosto ricche anche per i loro piccoli azionisti. Se si fa una scelta di questo genere, però, è bene sapere che l’investimento va effettuato in un’ottica di medio e lungo periodo».

Nel frattempo dall’America si susseguono le voci riguardo a un possibile rialzo dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, previsto per dicembre. «Qualora fosse confermata, questa misura inciderà sul mercato degli Stati Uniti ma non immediatamente sul nostro» riflette Di Lellis. «Piuttosto per noi saranno interessanti gli effetti delle manovre della Bce, la Banca centrale europea, che tra circa sei mesi potrebbero influire per circa l’uno percento sui tassi dei mutui». Che in Italia non sono mai stati così bassi: «E vero, più convenienti di così è impossibile. Oggi le banche che erogano il mutuo per comprare casa prendono i soldi in prestito dalla Bce a tasso zero. Il momento per il mattone è propizio e credo che non tornerà tanto favorevole per diversi anni».

Sullo sfondo resta lo spettro degli attentati terroristici di Parigi. «La reazione delle Borse poteva essere peggiore», ammette il giornalista, «ma fare previsioni è difficile: chi può dire oggi che cosa succederà domani. In ogni caso non dimentichiamo che l’economia è sottoposta a una legge spietata, il denaro non guarda in faccia a nessuno. Anche per questo mi sento di dire che l’allarme Isis deve sì preoccuparci, ma non sotto il profilo puramente economico».

Su Bot e Btp troppe tasse

Su Bot e Btp troppe tasse

di Massimo Blasoni – Metro

Prestare soldi allo Stato non conviene più. Anzi, le famiglie italiane che continuano a investire parte della loro ricchezza in Bot o Btp ci stanno addirittura rimettendo, spesso senza rendersene nemmeno conto. Vediamo di capire perché. Negli ultimi tempi si è assistito a un sempre maggiore calo nei rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano per effetto delle misure straordinarie adottate dalla Bce in risposta alla crisi dei Paesi periferici scoppiata nel 2011: taglio dei tassi fino allo 0,05%, operazioni straordinarie di rifinanziamento a più lungo termine (Ltro e Tltro) nonché acquisto di titoli pubblici sul mercato (Quantitative Easing). Risultato? Un risparmio notevole per il Tesoro ma anche un calo drastico della redditività di tale investimento nelle tasche delle famiglie italiane che, secondo i dati Bankitalia relativi a fine 2013, detengono in titoli di Stato ben 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale).

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La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Che la pacchia fosse finita molti lo sapevano o l’hanno capito leggendo i loro estratti conto, ma che un investimento in Bot o Btp potesse comportare una perdita non tutti l’hanno compreso pienamente. A ricordarlo ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro elaborando i dati delle ultime aste e confrontandoli con i precedenti relativi al triennio 2012-2014. Il combinato disposto del prelievo fiscale sui rendimenti e l’imposta di bollo comportano risultati complessivamente negativi per i risparmiatori. Il vero dramma è un altro: non esiste nessun limite alla tassazione di Bot e Btp anche in caso di rendimento negativo.
I dati sono impietosi e preoccupanti per le famiglie italiane che, secondo i dati ufficiali di Bankitalia relativi a fine 2013, hanno investito 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale) in titoli di Stato. Ma, soprattutto, è una patata bollente per il premier Matteo Renzi e per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ancora non sono intervenuti sulla materia, sebbene siano ampiamente consci del tradizionale «affetto» dell’italiano medio verso il solido Btp.
Per spiegare l’effetto perverso della tassazione conviene partire dalla fine, cioè dagli effetti che i bassi rendimenti (determinati sia dal taglio dei tassi della Bce che dal programma di acquisti di titoli di Stato di Eurolandia lanciato da Mario Draghi) e le imposte hanno prodotto sui buoni del Tesoro. Coloro che avessero acquistato 20mila euro di Bot semestrali all’asta dell’altroieri hanno lasciato sul terreno 25 euro e 60 centesimi. Di questi, 5 euro e 60 centesimi sono legati al fatto che i Bot hanno un rendimento negativo dello 0,055 per cento. Il calo dei tassi fa sì che bisogna pagare lo Stato perché custodisca i risparmi per 6 mesi anziché ricevere indietro del denaro a titolo di interesse sul prestito come accadeva un tempo. Gli altri 20 euro sono relativi all’imposta di bollo che dal 2014 è salita allo 0,2%, una mini-patrimoniale.
Questo caso particolare esclude altri due costi generalmente a carico dell’investitore in titoli di stato. Il primo è rappresentato dalle commissioni bancarie per l’acquisto dei titoli in asta (cioè quando si dà il mandato alla banca, ndr ), che tuttavia sono ridottissime o nulle se il rendimento è vicino allo zero o negativo. A questo si aggiunge il dossier titoli che è di massimi 10 euro semestrali. Se Bot e Btp offrono una cedola, lo Stato preleva il 12,5% (su azioni, fondi, altre obbligazioni e conti di deposito è del 26%) e se lo prende anche se vengono ceduti prima della scadenza conseguendo una plusvalenza.
L’analisi del Centro studi ImpresaLavoro mostra anche che in asta i Bot semestrali e annuali, nonché i Ctz, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. I Btp quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti, L’incidenza effettiva delle imposte (interessi + bollo) ha toccato, tuttavia, il 48,2% per i Btp a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i Btp a 10 anni offerti nel marzo 2015. La situazione non migliora per chi volesse comperare i titoli di Stato sul mercato telematico. I prezzi sono tutti superiori a quelli d’asta, per cui la perdita alla scadenza è già assicurata. È, tuttavia, possibile usare la minusvalenza a compensazione di futuri guadagni. Se il governo voleva spingere gli italiani a comperare azioni, ci è riuscito benissimo.
Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

di Gianni Zorzi

Sintesi
Le misure straordinarie adottate dalla Banca Centrale Europea in risposta alla crisi dei paesi periferici scoppiata nel 2011, ivi inclusi il taglio dei tassi fino allo 0,05%, le operazioni straordinarie di rifinanziamento a più lungo termine (LTRO e TLTRO) nonché di acquisto di titoli pubblici sul mercato (“quantitative easing”), hanno portato ad un sempre maggiore calo nei rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano. Ciò si traduce in un risparmio (notevole) per il Tesoro, ma anche in un calo drastico della redditività di tale investimento nelle tasche dei piccoli risparmiatori italiani, che secondo i dati Bankitalia più recenti a fine 2013 ne detenevano in portafoglio per più di 180 miliardi di euro. Sebbene i rendimenti lordi dei titoli di Stato siano rimasti in territorio positivo, gli effetti fiscali (legati alle imposte sui guadagni finanziari e alla “mini-patrimoniale” dell’imposta di bollo salita allo 0,2% dall’inizio del 2014) conducono già da tempo a risultati netti complessivamente negativi per i risparmiatori che continuano a sottoscrivere o acquistare titoli di stato italiani. Con il DM 15 gennaio 2015 il Governo ha obbligato le banche a ridurre o annullare le commissioni applicate sui BOT in asta nel caso il rendimento sia nullo o appena positivo. Nessuna misura tuttavia è prevista per limitare il peso delle imposte nemmeno in tali casi.
1. Le modalità di investimento in titoli di Stato
I piccoli risparmiatori possono investire direttamente in titoli di Stato in due modi diversi:
• Sottoscrivendo i titoli in fase d’asta (il cosiddetto “mercato primario”: le aste sono organizzate direttamente del Tesoro secondo un calendario predefinito);
• Acquistando i titoli su uno dei mercati obbligazionari come il MOT di Borsa Italiana (i cosiddetti “mercato secondari”: i titoli già in circolazione sono quotati e gli scambi possono avvenire in tempo reale in tutti i giorni di apertura del mercato);
In entrambi i casi è comunque necessario che le operazioni di investimento siano gestite da un intermediario abilitato (tipicamente una banca), sulla base di un contratto di ricezione e invio ordini per conto del cliente, custodia e amministrazione dei titoli (il cosiddetto “deposito titoli” o “dossier titoli”).
C’è inoltre la possibilità dell’investimento indiretto in titoli attraverso la sottoscrizione di polizze, fondi comuni, fondi pensione, gestioni patrimoniali: in questo caso però il patrimonio è suddiviso – nella quasi totalità dei casi – anche su titoli di altra natura oppure emessi da soggetti diversi dallo Stato.
2. Le “norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato”
Un recente intervento normativo (il D.M. 15 gennaio 2015), entrato in vigore il 20 gennaio 2015, ha modificato le norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato, limitando in particolare le commissioni che banche e intermediari possono porre a carico della clientela in fase di sottoscrizione di titoli alle aste periodiche organizzate dal Tesoro. Il decreto è intervenuto a modificare il precedente D.M. del 12 febbraio 2004 (integrato dal D.M. 19 ottobre 2009), soprattutto per quanto concerne le commissioni massime applicabili alle aste dei BOT (sugli altri titoli come i BTP, i CTZ e i CCTeu permane il divieto di applicare commissioni). Nella sostanza il decreto ha limitato le commissioni massime sui BOT su questi livelli:
• Lo 0,03% del capitale sottoscritto per i BOT mensili (in precedenza era lo 0,05%);
• Lo 0,05% per i BOT trimestrali (era lo 0,1%);
• Lo 0,1% per i BOT semestrali (era lo 0,2%);
• Lo 0,15% per i BOT annuali (era lo 0,3%)
Inoltre, le commissioni devono essere ridotte se il prezzo d’asta dei BOT risulta inferiore a 100 ma il prezzo totale (comprensivo di ritenuta fiscale e commissioni medesime) la supera, e annullate se il prezzo d’asta dei BOT risulta pari o superiore a 100.
Questa norma, nella sostanza, obbliga le banche a ridurre oppure annullare le commissioni se per effetto delle stesse il rendimento per i risparmiatori diventa negativo, ed era stata introdotta infatti per la prima volta nel DM 19 ottobre 2009 in seguito al brusco ribasso dei tassi operato dalle banche centrali dopo il terremoto finanziario scatenato dal default di Lehman Brothers. Un’altra norma del decreto già in vigore dal 2004 limita a 10 euro semestrali il costo massimo applicabile dalle banche su un deposito titoli composto unicamente da titoli di Stato italiani.

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3. La fiscalità complessiva dei titoli di Stato per i piccoli risparmiatori
Il prelievo complessivo dello Stato a carico dei piccoli risparmiatori sui titoli del debito pubblico si compone di tre elementi:
• La tassazione sugli interessi (pari al 12,5% delle cedole lorde pagate da BTP, CCT e titoli analoghi, nonché della differenza tra prezzo di rimborso e prezzo d’asta di BOT e CTZ);
• La tassazione sull’eventuale capital gain (pari al 12,5% della differenza tra prezzo di vendita/rimborso e di acquisto, se positiva);
• L’imposta di bollo sul deposito titoli (dal 2014 calcolata in via proporzionale allo 0,2%, dopo una serie di riforme intervenute già dal 2011).
I titoli di Stato hanno resistito dunque agli aumenti delle aliquote sui redditi finanziari decisi negli ultimi anni, guadagnando peraltro una tassazione agevolata rispetto, per esempio, a depositi bancari e titoli emessi da altri soggetti, che scontano ora un’aliquota del 26%. Nel contempo, tuttavia, i titoli del debito pubblico non sono sfuggiti all’applicazione della cosiddetta “mini-patrimoniale” su depositi e investimenti finanziari, riformata una prima volta da Tremonti nel 2011, poi da Monti (2012-2013) e Letta (2014), da cui oggi sono esentati solamente gli investimenti in polizze vita di ramo I e fondi pensione.
Il complesso sistema delle tasse sugli investimenti finanziari in Italia ha inoltre queste due caratteristiche:
• Non c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applicano infatti solo alle commissioni bancarie;
• Non c’è la possibilità di compensare alcuni elementi di guadagno con altri elementi di perdita: nel caso dei titoli di Stato, non si possono compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto dei titoli sui mercati secondari.
Da questo si deduce che anche gli investimenti in titoli di Stato con rendimento lordo positivo possono in realtà presentare un rendimento effettivo netto negativo, ovvero determinare un costo a sfavore del piccolo risparmiatore piuttosto che un interesse a suo favore.

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4. L’acquisto sul mercato primario (aste dei titoli di Stato)
Unendo i dati sui risultati delle aste dei titoli di Stato nel periodo 2012-2015 per alcune tipologie di titoli (BOT semestrali e annuali, CTZ, BTP triennali quinquennali e decennali) al meccanismo di calcolo delle imposte sugli interessi (la ritenuta fiscale del 12,5%) e dell’imposta di bollo per il periodo necessario di detenzione del titolo (lo 0,2% su base annua sul controvalore dell’investimento), si perviene a un indicatore definibile come “rendimento annuo netto effettivo per il piccolo investitore”, grazie al quale si ottengono le seguenti conclusioni:
• I BOT semestrali acquistati all’asta hanno finora avuto sempre un rendimento annuo lordo positivo (o tutt’al più nullo come nell’asta di aprile 2015) ma quelli sottoscritti nell’asta di agosto 2014 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo del -0,08%, e tutti quelli sottoscritti in asta a partire dal gennaio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BOT annuali e i CTZ sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento annuo lordo positivo ma a partire dall’asta di febbraio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BTP triennali sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento lordo positivo ma quelli emessi nel marzo 2015 presentavano un rendimento netto effettivo pari al -0,07%;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e del 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015.

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5. L’acquisto sui mercati secondari (MOT)
Questa seconda modalità di investimento in titoli di Stato risulta penalizzata dall’andamento del mercato: chi volesse procedere all’acquisto di titoli sul mercato secondario si ritroverebbe nella quasi totalità dei casi un prezzo di acquisto superiore alla pari. Come si è visto in precedenza, le norme sulla fiscalità delle “rendite finanziarie” impediscono la compensazione tra redditi da capitale come quelli derivanti dall’incasso di cedole dai titoli di Stato, ed eventuali minusvalenze pregresse. Ne consegue che acquistando un titolo sopra la pari:
• Le cedole vengono comunque tassate al 12,50%;
• La differenza tra prezzo di rimborso e prezzo di acquisto è negativa e darà origine, al momento del rimborso, a una minusvalenza utilizzabile a compensazione di alcuni redditi finanziari fino al quarto anno solare successivo.
Questa fattispecie si accompagna dunque alla possibilità concreta che il prelievo fiscale sugli interessi superi già di per sé il rendimento lordo del titolo, determinando una perdita.
Tutti i titoli inoltre sono soggetti all’imposta di bollo fissata nello 0,2% annuo.
Dall’esame dei rendimenti dei BTP quotati sul MOT di Borsa Italiana e dei meccanismi di calcolo delle imposte, si deduce, in base ai prezzi di riferimento rilevati il giorno 23/10/2015 che:
• Tutti i BTP quotati mostrano un rendimento lordo positivo, seppure per molti di essi vicino allo zero;
• Tutti i BTP con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046.

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6. Conclusioni
I principali risultati emersi nel corso dell’analisi sono i seguenti:
• In fase di sottoscrizione tramite asta, i BOT semestrali e annuali, nonché i CTZ, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. Ciò risulta verificato anche per il BTP triennale offerto in asta nel marzo 2015;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato tuttavia il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015;
• Per quanto riguarda i titoli offerti in asta, on c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applica infatti solo alle commissioni bancarie;
• Tutti i BTP quotati sul MOT alla data del 23.10.2015 mostrano un rendimento lordo positivo, ma tutti quelli con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046;
• L’acquisto dei titoli sul mercato secondario determina rendimenti ulteriormente peggiori per i piccoli risparmiatori poiché nel regime del risparmio amministrato non c’è la possibilità di compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto di titoli quotati al di sopra del valore di rimborso.