roberto napoletano

La partita italiana nel gioco globale

La partita italiana nel gioco globale

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

L’allargamento al mercato cinese può essere per l’Italia di oggi dello stesso segno e importanza di quello che fu l’allargamento dell’Italia di ieri al mercato europeo e americano. Questa è la grande occasione che non possiamo permetterci di sprecare oggi. Dipende, in gran parte, da noi. Questa almeno è la sensazione che si ricava dalla lettura dell’articolo («L’albero sempreverde dell’amicizia tra Cina e Italia») che il premier cinese, Li Keqiang, ha voluto riservare al Sole 24 Ore di ieri come presentazione della sua missione nel nostro Paese.

Ci è sembrata un’apertura interessante perché parte dall’Italia storica ma arriva in fretta a quella attuale. Ci sono il Colosseo e il Pantheon, per intenderci l’inchino alla bellezza cosmopolita italiana che viene dal suo passato, ma ci sono, soprattutto, un riconoscimento diretto all’Italia imprenditoriale come “leader mondiale nell’innovazione e nel design” e l’indicazione operativa di un’alleanza strategica per potenziare gli investimenti cinesi in Italia, favorire gli investimenti nostri in Cina e sviluppare “nuovi prodotti di marca progettati e realizzati da Cina e Italia” destinati ai mercati globali.

Il pragmatismo che spinge a indicare una per una, dall’energia ai macchinari, le aree di intervento, gli accordi di peso in via di imminente sottoscrizione tra Cassa depositi e prestiti e China development bank per fare crescere insieme le imprese italiane e cinesi sui mercati globali e quelli in dirittura d’arrivo tra il Fondo strategico italiano e il Fondo sovrano cinese, si propongono di consegnare al nostro Paese carente di risorse una dote di capitali preziosa perché indirizzata all’innovazione e attratta dalla calamita della creatività, del saper fare e di tutto ciò che appartiene a quell’unicum italiano, manifatturiero e di servizi, che vale ancora oggi 400 miliardi di esportazioni e un surplus di 100.

Abbiamo ancora un deficit di interscambio bilaterale molto alto e questo ci dice che non bastano i nostri imprenditori dinamici (meno male che esistono) e bisogna fare in modo che la dimensione delle nostre aziende cresca e la rete di intelligenze tra territori, imprese, scuola e università diventi, anzi torni ad essere, una realtà. Se le imprese tedesche vendono in Cina macchine per fare pane e prodotti da forno tre o quattro volte più di noi, vuol dire che il modello organizzativo italiano non consente di arrivare dove meritiamo di essere. Vuol dire che le imprese italiane devono fare la loro parte fino in fondo e il sistema Paese deve essere in grado, alla voce fatti, di azzerare i vincoli burocratici, ridurre il carico fiscale e contributivo, promuovere l’internazionalizzazione.

L’allargamento al mercato cinese, in un quadro geopolitico complicato, può consentirci di fare un ulteriore, significativo passo in avanti sui mercati esteri. Non siamo, ovviamente, indifferenti al tema dei diritti umani e al futuro di democrazia che la Cina deve riuscire, nel suo interesse, a costruire. Siamo, però, altrettanto certi che proprio queste aperture economiche e la scelta strategica di partnership mirate, aiutino la Cina ad adeguarsi alle regole condivise dei brevetti e della proprietà intellettuale del mondo occidentale, aumentino la consapevolezza dello spirito della concorrenza globale e dei principi del mercato. Siamo certi che passi per la via economica la crescita del tasso di apertura verso un futuro democratico della Cina e sappiamo bene quanto ciò sia importante per loro e per il mondo. Se la Merkel almeno due volte all’anno è in visita a Pechino per consolidare le alleanze e stringere accordi commerciali, altrettanto (anzi, di più) dobbiamo fare noi. I rapporti politici, da sempre, hanno un peso nella costruzione della pace e della democrazia, ma anche nell’economia. Soprattutto se l’integrazione tra capitale umano e finanziario, può far crescere l’innovazione e valorizzare il talento italiano.

La scossa degli investimenti

La scossa degli investimenti

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

Il bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo. Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.

La fiducia delle famiglie italiane non si “ricostruisce” con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo “brucia”, l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone, guai a dimenticarcelo.

Ma quale Paese vuole Renzi?

Ma quale Paese vuole Renzi?

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

«Ma Renzi le cose le fa o non le fa?». Questa è la domanda di oggi. Dopo il 40,8% nell’urna, un risultato politico storico che ha dato forza alla speranza, è arrivato il meno 0,2% del pil che segue il meno 0,1% del trimestre precedente e fa ripiombare l’Italia in recessione, con una stima annua di meno 0,3%. Alla domanda che tutti si pongono, dai vecchi saggi dell’Europa alla comunità degli investitori, imprese, famiglie, giovani, da ieri non fa più seguito la positiva attesa di qualche mese fa, ma un’aspettativa di semplice attesa. La capacità di Renzi e del suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, deve essere quella di agire, alla voce fatti, prima che questa aspettativa neutra si trasformi in un sentimento comune (pericolosissimo) di attesa negativa. Potremmo dire (Ritorno alla realtà, 16 maggio, Il coraggio della verità, 11 luglio) che siamo stati facili profeti, ma non lo faremo. Abbiamo l’interesse esattamente contrario: sappiamo quanto sia vitale che il Paese riparta, lo vogliamo come italiani, sappiamo che qui ci sono le competenze per cambiare con le proprie teste e con le proprie mani.

Servono investimenti interni ed europei, pubblici e privati, quelli veri, quelli possibili, non la farsa dei 43 miliardi annunciati all’Expo parlando dello sblocca-Italia. Serve un disegno di sviluppo condiviso che metta al centro l’investimento e Renzi deve dimostrare di averlo e di essere capace di realizzarlo. Mille giorni, bene, ma per fare che cosa? Chi ci osserva da fuori vuole capire se l’Italia è in grado di gestire situazioni difficili e la risposta non può non essere un disegno organico di azioni che riguardano l’economia e vengono comunicate e attuate in tempi certi. Con le risorse destinate al bonus di 80 euro, si poteva dare una scossa seria agli investimenti scegliendo la strada prioritaria di abbassare in modo significativo l’Irap, gli investimenti “producono” lavoro e consumi, ciò di cui si ha più bisogno. Non si è fatto e oggi i dati dell’Istat certificano che è, soprattutto, la caduta degli investimenti ad averci riportato in recessione. La linea di provvedimenti del fare del governo Letta (bonus per l’edilizia e altro) va proseguita e rafforzata. Non pensate che siano piccole cose, il pil si nutre di bonus che si ripagano. Si agisca, come promesso, su mercato del lavoro, riforma fiscale, macchina dello Stato e giustizia, a partire dalle due emergenze assolute che sono il civile e l’amministrativo. Sulla spending review si operi non con la logica del taglione (tolgo da qui e metto lì) ma con quella di un recupero di efficienza che riduca stabilmente i costi dello Stato. Queste sono le priorità, non le riforme istituzionali, che sono ovviamente importanti, ma vengono un attimo dopo e vanno messe a punto in Parlamento, consentendoci di uscire dalla trappola del bicameralismo perfetto evitando nuovi gattopardismi su ruolo e peso delle Regioni. L’urgenza è l’economia e guai se i mercati si dovessero convincere che chi ci governa sottovaluta. Il tema del debito pubblico e delle privatizzazioni si affronti con pragmatismo senza lasciare nulla di intentato, ricordandosi, però, sempre che la via maestra è quella di recuperare la strada della crescita.

Sia chiaro: la metà dei problemi non è colpa nostra. I troppi focolai di crisi geopolitica (Russia-Ucraina, Israele-Palestina, Siria, Iraq, Libia) frenano la crescita mondiale e chiudono fette di mercato per le nostre esportazioni, ma anche per quelle tedesche. Il vero rischio che corre l’Europa è quello di non prendere atto che, così com’è, la Germania non riesce ad essere una forza propulsiva per sé e per gli altri, manca il traino del suo mercato interno. Oggi, però, la Commissione è in stallo, la Bei non funziona come dovrebbe, la politica monetaria ha fatto e farà tutto il possibile per evitare la deflazione iniettando tanta liquidità in giro, ma perché la ripresa riparta ci vuole almeno una domanda potenziale. Per questo l’Europa sarà chiamata, nei tempi che riuscirà a darsi, a promuovere con forza un vero New Deal, dovrà dotarsi di un esercito e di una politica estera comuni. Per noi e per la nuova Europa in costruzione sarà vitale che il governo Renzi raddoppi gli sforzi e alimenti un circolo virtuoso di investimenti-aspettative-fiducia che si trasmette alle imprese e alle famiglie facendo sì che ritorni la voglia (sana) di spendere. Si deve percepire che ci sono il disegno e la reale volontà di attuarlo uscendo dalla logica del colpevole (l’Europa, la banca, il burocrate e così via) che aumenta i voti nell’urna, ma non risolleva l’economia.