roberto sommella

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Roberto Sommella – Europa

Se si vuole cercare una data precisa per capire da quando le finanze pubbliche hanno cominciato a prendere una brutta piega, non ci si può sbagliare. è il primo gennaio 2002, l’anno della nascita dell’euro e della concreta attuazione della riforma del titolo V della Costituzione. Se l’avvento della moneta unica ha comportato un passaggio storico in termini di minore costo del denaro, dall’altra ha segnato una costante devoluzione dei poteri economico-monetari alle istituzioni comunitarie.

La stessa cessione di sovranità che è avvenuta in contemporanea a favore delle regioni, sulla base della nuova suddivisione delle funzioni legislative tra stato centrale e periferico. è allora che si è aperta la forbice che sta ora dilaniando i rapporti tra il governo (Renzi arriva buon ultimo dopo Berlusconi, Monti e Letta) e i governatori. Il primo, a causa della crisi finanziaria del 2008 e della recessione che dura dal 2011, ha dovuto varare manovre per oltre 200 miliardi di euro, soprattutto fatte di tasse, per ottemperare ai Trattati. I secondi, si sono trovati a fare i conti con una situazione sempre più precaria dal punto di vista dei trasferimenti dello Stato alle regioni, governando di fatto in mezza Italia uno situazione di pre-default finanziario.

In sostanza, con la riforma fatta a maggioranza dal centrosinistra nel 2001, mentre lo Stato centrale si consegnava mani e piedi alle rigide regole di bilancio di Bruxelles e di Francoforte, inevitabilmente indebolendosi, dall’altra gran parte del peso della gestione amministrativa locale si spostava sulle spalle di regioni ognuna diversa dalle altre, in un federalismo del tutto incompiuto. Con il risultato all’amatriciana: abbiamo i lander, ma chi li presiede non ha poteri compiuti dal punto di vista della devolution fiscale né dei costi standard da applicare alla spesa per beni e servizi. Sono proprio questi gli anni (dal 2001 ad oggi) in cui, non sarà un caso, il debito pubblico italiano è passato da 1.620 miliardi di euro (solo il 108% del Pil) a 2.148 miliardi (oltre il 133% del Pil, ora 127% per via dei nuovi criteri di calcolo Eurostat): in termini assoluti, 528 miliardi in più, uno score catastrofico.

Eppure basta rileggersi con attenzione l’articolo 117 della Costituzione, novellato proprio da quella revisione di inizio millennio, per capire che si sarebbe andati a sbattere. È lunghissima e piena di ricadute finanziarie la lista delle cosiddette materie “di legislazione concorrente” e cioè di competenza esclusiva delle regioni, un mare magnum che soffoca ogni logica senza un adeguato sistema di controlli ex ante della spesa e un analogo potere impositivo territoriale, che permetterebbe agli elettori di giudicare i propri amministratori anche e soprattutto dal punto di vista dei servizi offerti. Vale la pena ricordarli, solo per farsi un’idea della mostruosità e economica e forse anche giuridica. Rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Gran parte di queste mansioni va gestita con i soldi dello Stato centrale. Un’assurdità.

L’interminabile elenco spiega più di tante altre parole come sia potuto accadere che oggi, nel 2014, lo Stato abbia un debito pubblico che lo impegna per 80 miliardi di euro di interessi all’anno e ben sei regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Sicilia) siano costrette ad attuare forzosi piani di rientro dal deficit sanitario che per alcune di esse supera e di molto il miliardo di euro. Spetta alla Corte dei conti, ma solo a babbo morto e quindi ex post, cercare di fare luce su una situazione al limite del collasso; ai governi, come quello attuale, tocca invece il gravoso compito di chiedere sacrifici anche agli amministratori locali tagliando, come nel caso della legge di stabilità, 4 miliardi su 36 di computo totale.

È una strada ancora percorribile quella di impugnare le forbici a palazzo Chigi quando molti poteri (persino molti beni, come nel caso della devolution immobiliare) sono volati via? Se si ragiona nell’ottica dei sacrifici necessari data l’urgenza del momento, la risposta è affermativa. Ma in un’ottica di lungo periodo diventa impossibile andare avanti così. Esecutivo e amministratori regionali devono mettersi intorno ad un tavolo non tanto per avviare il consueto balletto di modifiche ai tagli inseriti nella manovra, quanto per porre mano alla doverosa e non più procastinabile revisione della riforma del Titolo V. Se è vero che senza rappresentanza non può esserci tassazione, a maggior ragione senza poteri fiscali non si possono delegare funzioni cruciali del vivere sociale a mega-organismi dai piedi (e dai bilanci) d’argilla. Questo al netto degli scandali che hanno colpito quasi tutti i consigli regionali e delle inchieste che ne seguono in alcuni casi l’evolversi. Lo Stato è diventato una Ferrari che deve consumare come una Panda, il sistema delle Regioni è l’esatto contrario. La benzina è la stessa e sta finendo per tutti.

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Quelle uniche 24 ore alla macchina utensile sono costate al generoso imprenditore 400 euro (sì, quattrocento euro), tra apertura e chiusura della posizione, contributi, dichiarazioni e bolli vari. L’episodio rivela quanto ormai sia urgente abbassare le tasse sull’occupazione e sulle aziende che la creano e quanto ogni passo falso del premier Renzi su una materia così verrà considerato una colossale presa in giro.

Questo è il paese dove viviamo: troppe tasse, troppa spesa improduttiva, troppe carte, poca certezza del diritto, poca fiducia. Serve una scossa più che una scommessa. E se il governo riuscirà nell’impresa titanica di far rialzare la testa a un’Italia impaurita e perduta grazie ad una legge di stabilità di 30 miliardi di euro che dà e non toglie, non ci sarà che esserne felici. L’impresa, a dire il vero e leggendo dati economici e prescrizioni contabili europee, sembra quasi disperata, ma una cosa il presidente del consiglio sembra averla capita bene: ogni euro di risorsa trovata nelle pieghe di bilancio, frutto della spending review, della riduzione dell’avanzo primario che farà aumentare il deficit di 11 miliardi o di qualche spremitura del settore dei giochi, deve andare a sostenere il lavoro che c’è ancora e a promuovere quello che manca. Per questo, almeno sulla carta, in attesa di vedere l’andamento delle legge finanziaria in Parlamento e di ascoltare le immancabili raccomandazioni della commissione europea (che non è detto debba per forza bocciare questa manovra italiana, vista la tempistica del passaggio di consegne tra Barroso e Juncker), sembra obbligata la strada intrapresa dall’esecutivo: l’azzeramento dei contributi per tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato, il taglio da 6,5 miliardi di euro dell’imponibile Irap legato al costo del lavoro, la conferma del bonus da 80 euro e la possibilità di utilizzare il Tfr in busta paga, vanno tutte nello stesso verso di rilanciare il fatturato e il bilancio di famiglie e imprese. E c’è da chiedersi che effetti si sarebbero potuti ottenere già dal 2012 con una politica economica del genere, invece di sospendere per un anno l’Imu, tornata più alta e complicata di prima nel 2014. Probabilmente, ci sarebbero più soldi in cascina e nei salvadanai, perché quella misura del governo Letta si è rivelata un terribile boomerang.

La formula meno tasse, più lavoro, più consumi, più crescita, sulla carta può quindi funzionare; nella pratica, date le condizioni oggettive dell’economia e della finanza pubblica e la vigenza delle norme del fiscal compact (che si fa finta siano state sospese, ma così non è), appare per ora un numero da novelli Houdini delle regole di bilancio più che da Keynes del XXI secolo. Può andare a buon fine ma anche avere effetti mortali se il Pil non riprenderà a marciare. Anzi, Renzi potrebbe meritarsi addirittura il Nobel quanto meno del coraggio, con questa manovra da 30 miliardi quasi tutta finanziata con nuova spesa e per l’altra metà coperta da una mostruosa operazione di revisione della stessa. Un premio che Bruxelles e Berlino non hanno però alcuna intenzione di conferire a scatola chiusa all’ex sindaco, perché sanno bene che il nostro paese è attanagliato da decenni di immobilismo, strangolato da un debito monstre, soverchiato da uno stato pachiderma, offeso da 120 miliardi di evasione annua. Troppo per sperare di farcela da soli, così, nel giro di due settimane. Ma sperare è lecito, provarci doveroso. Come auspicabile è augurarsi che la riduzione della spesa, dopo l’addio di Cottarelli, non si riduca in tagli lineari che altro non faranno che contrarre i servizi e magari gli stanziamenti agli agonizzanti enti locali. Per una volta, forse l’ultima, possiamo dimostrare ad altri paesi che stanno peggio ma vincono i veri premi di Stoccolma, che un’altra Italia è possibile e che quei 400 euro possono essere restituiti all’imprenditore, abbassando le tasse e migliorando i servizi.

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

Roberto Sommella – Europa

C’è una fiducia molto più importante di quella posta al senato dal governo per la riforma del lavoro: è la sicurezza del futuro che milioni di italiani chiedono dopo anni di crisi.I lavoratori sono davvero pronti a trasformarsi in cicale dopo essere passati alla storia come laboriose formiche, capaci di mettere da parte ancora oggi ben 8.000 miliardi di euro? Sta tutto nella soluzione di questo rebus il senso della mossa dell’esecutivo di Matteo Renzi di mettere in busta paga il Tfr. Una scelta che, previo assenso dei protagonisti, ha il sapore della scommessa.

Come sempre in questi casi, vanno calcolati i costi per le imprese e le famiglie e i benefici per l’economia italiana. Tenendo presente però almeno tre elementi che stanno trasformando la nostra società: l’abbattimento della propensione ai consumi, il calo del Pil che comporta minori pensioni future e di conseguenza maggiori tutele integrative, e il costante aumento dei depositi. Proprio quest’ultimo punto, fotografato di recente, è quello che maggiormente sorprende: il cavallo non solo non beve ma sembra diventato un cammello. Nonostante i tentativi della Bce (che si è detta favorevole all’operazione Tfr in busta paga) i 23 miliardi di euro andati alle banche italiane dall’ultima iniezione di liquidità di Francoforte non si stanno tramutando in maggiori prestiti. Tutt’altro. I nostri concittadini, evidentemente chi può, tengono a mantenersi molto liquidi, in banca o addirittura a casa.

Prova ne è che dal 2007 ad oggi l’ammontare complessivo dei depositi bancari e dei contanti sia aumentato del 9,2% per un totale di 234 miliardi di euro. Una montagna, se paragonata alle cifre che potrebbero essere mobilitate dallo sblocco parziale del Trattamento di fine rapporto, che quest’anno ammonterà in 26,9 miliardi di euro (9,8 parcheggiati presso le imprese, 11,8 nelle casse dell’Inps a titolo pubblico e privato, 5,3 confluiti verso i fondi pensione). Il governo – sempre se le piccole e medie imprese saranno d’accordo, visto che sono quelle che avrebbero più da rimetterci perdendo il capitale costituito dal salario differito dei propri dipendenti – spera in un effetto benefico di circa 100 euro medi in busta paga al mese. E se così non fosse? Qui si tratta della vita delle persone, non solo di utilizzare un bonus come gli 80 euro. Hanno più paura del presente o del futuro? Alcuni dati vanno analizzati con grande attenzione.

A fronte di una crescente incertezza, la tentazione di preferire i risparmi ai consumi è sempre più alta. Per il 2014 il coefficiente di rivalutazione del Tfr si è attestato da gennaio ad agosto all’1,28% per cui sarà poco sopra l’1,5% a dicembre, a causa della deflazione. Con questo rendimento deve quindi confrontarsi chi vuole usare il Tfr per fare un altro tipo d’investimento. C’è qualcosa che può rendere di più, rinunciando alla pensione integrativa o alla liquidazione finale? Dall’inizio del 2001, ha calcolato Milano Finanza, da quando i comparti di previdenza complementare hanno cominciato a prendere piede in Italia, alla fine del 2013 i fondi negoziali hanno offerto un rendimento medio netto del 45%, superando la rivalutazione netta del Tfr mantenuto in azienda, che nello stesso arco temporale è stata pari al 41,1%. Ma nonostante questo le adesioni non sono mai decollate e oggi solo un quarto degli occupati è iscritto a un fondo pensione. Gli aderenti sono pochi, soprattutto tra i giovani e le donne, proprio quelli più bisognosi di un’integrazione e più colpiti da disoccupazione e precarietà. Di una copertura privata ci sarà sempre più bisogno, visto che quella pubblica è destinata a restringersi. E il perché è presto detto.

L’attuale sistema pensionistico si poggia su previsioni statistiche che calcolano l’assegno previdenziale in base anche al coefficiente di rivalutazione del Pil. Se quest’ultimo arranca o addirittura cala, come in questi anni, si avrà una rendita minore. Qualche esempio: lavoratori trentenni, dipendenti ed autonomi, che lasceranno l’attività a 68 anni e 9 mesi, avranno una pensione pari, rispettivamente al 64% e al 46% dell’ultimo stipendio se il Pil crescerà dell’1,5%; percentuale che si ridurrà bruscamente al 53% e al 38% dell’ultima busta paga se il Pil si fermerà al +0,5% (più o meno quanto viene stimato nel 2015). Non solo. Con più soldi in busta scenderanno, per chi li ha, anche le pensioni di scorta fino al 20% in meno se l’operazione durerà tre anni, perché i contributi cesseranno.

La fotografia dell’Italia di oggi è questa: meno crescita, meno consumi, meno pensioni future. La risposta, con un mese di stipendio in più a disposizione, sarà più spese famigliari o più previdenza integrativa? È una scelta, anche patriottica, quella che gli italiani si troverebbero a dover fare se andrà in porto, con tutte le precauzioni e le garanzie bancarie per le Pmi, il progetto Tfr: destinare al proprio benessere e quindi all’Italia una quota del salario, facendo ripartire l’economia, oppure richiudersi ancora di più nel formicaio in attesa di tempi migliori. Questi calcoli, che sembrano complicati, gli italiani sanno farli molto bene. Il governo ha avuto coraggio, bisogna vedere se l’avranno anche i governati.