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Leodori (Pd): “Occupazione, cantiere-lavoro stabile in Provincia di Roma”

Leodori (Pd): “Occupazione, cantiere-lavoro stabile in Provincia di Roma”

di Daniele Leodori*

La Provincia di Roma si è lasciata la crisi alle spalle. Adesso che le fondamenta sono stabili, il cantiere su lavoro e occupazione potrà crescere e consolidarsi. Dal 2014 al 2015 – comunica ImpresaLavoro nell’analisi dati Istat – l’occupazione nella provincia di Roma ha registrato un dato positivo, crescendo di oltre 4.500 unità. Ma, ancora più confortante, il saldo occupazionale dal 2007 al 2015 che è di 163.100 unità rispetto ai livelli pre-crisi, con un distacco evidente rispetto alla provincia di Milano, Monza e Brianza, ferma a oltre 31mila.

Nell’ultimo anno ottimi risultati anche per la provincia di Frosinone (+8.639 dal 2014-2015) in netta ripresa rispetto agli anni passati. Seppur con dei distinguo su cui è necessario riflettere e agire con politiche più incisive, il Lazio raccoglie sul territorio i frutti delle politiche attive sul fronte occupazione. Con il risanamento dei conti certificato dal ministro Padoan e la spending review applicata alle società regionali, l’economia regionale cambia marcia.

* Presidente del Consiglio regionale del Lazio

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

di Carlo Lottieri

Si può leggere la tragicommedia che ha avuto per protagonista il sindaco Ignazio Marino in vari modi. È possibile focalizzare l’attenzione sui peculiari limiti del personaggio, sul carattere davvero unico di una città tanto scettica quanto cinica e a più riprese indagata dal cinema (da Federico Fellini a Paolo Sorrentino), su questa Italia renziana che non riesce a passare dalle promesse ai fatti. Ma si può anche leggere questa vicenda avendo consapevolezza che Roma è in un certo senso l’avanguardia di un degrado che riguarda – sotto vari aspetti – l’intero continente.

Non c’è dubbio che l’Europa abbia avuto un grandissimo passato e che ancora oggi, tutto sommato, continui a essere un’area che permette un tenore di livello piuttosto alto ai propri abitanti e seguiti a esprimere – in qualche campo – eccellenze significative. Se una gran massa di persone lascia l’Asia o l’Africa per venire da noi un motivo c’è.

Bisogna però essere consapevoli che le civiltà passano: anche molto velocemente. Se andate a visitare l’Atene dei nostri tempi certamente non trovate molto della grandezza della città di Socrate e Aristofane, ma anche per Roma si può dire lo stesso: quello che fu il centro del mondo ora è soltanto la capitale di un Paese largamente screditato, oppresso da un debito pubblico colossale e caratterizzato da una cronica incapacità ad affrontare i suoi problemi, e cioè una burocrazia oppressiva, uno statalismo pervasivo, un Mezzogiorno bloccato proprio perché troppo assistito.

Roma è comunque Europa in un senso molto profondo. In Germania, Svezia o Danimarca possono anche sorridere di fronte a molti tratti della contemporaneità italiana, ma dovrebbero essere consapevoli come tutto il continente stia declinando a grande velocità. E se l’Italia non cresce, non si creda che il resto dell’Europa galoppi. Non è così, dal momento che da noi sono solo un po’ più accentuate una serie di difficoltà che ritroviamo anche altrove. E se si dice questo non è per minimizzare la malattia italiana (che è gravissima), ma solo per ricordare come anche il resto d’Europa abbia davvero tanti problemi.

Le società funzionano, o non funzionano, a causa delle loro istituzioni fondamentali, che sono – in primo luogo – di carattere informale. I costumi, le regole non scritte e le attitudini prevalenti sono cruciali nel favorire oppure ostacolare lo sviluppo della società. E quello che in Europa vediamo è il declino della volontà di fare figli, creare imprese, progettare il nuovo, immaginare mondi inediti e provare a farli venire alla luce.

L’Europa nel suo insieme appare stanca, disincantata, scettica: anche perché nel Vecchio Continente è difficile lasciarsi alle spalle una crisi le cui radici sono profonde. Il dissesto economico, in effetti, è stato causato da un coacervo di scelte stataliste compiute da chi gestisce la moneta, controlla le banche, distribuisce risorse che non ha, è incapace di limitare la spesa pubblica, e via dicendo. Di fronte a questo dissesto, per giunta, le risposte che i governi stanno dando sono tutte, o quasi, nel segno di un interventismo crescente.

L’incapacità degli europei di contrastare il crescente potere delle classi politiche è quindi figlia di una debolezza culturale che è davanti agli occhi di tutti. Nella mentalità contemporanea la pretesa del ceto politico, tanto nazionale come euro-comunitario, di disporre dei diritti e delle risorse degli europei trova sostenitori ovunque. Chi oggi prova ad opporsi al dispotismo della politica, rivendicando il diritto naturale dei singoli e delle comunità volontarie (a partire dalle famiglie) a vivere pacificamente e in piena autonomia, è guardato come un lunatico. Si è giunti al punto da definire “ladri” quanti tengono per sé i loro soldi, resistendo di fronte alle pretese di un fisco sempre più vorace, e non già gli esponenti di una classe politico-burocratica che si considera autorizzata a entrare costantemente in casa di altri per sottrarre il frutto del loro lavoro.

In questa Europa è ormai quasi inimmaginabile che si possa assistere a una “rivolta fiscale” che contrasti l’assolutismo del Principe in nome della libertà dei singoli. Senza valori e senza midollo, gli europei sembrano ormai costantemente impegnati nel cercare di partecipare al banchetto di chi si spartisce il bottino ottenuto grazie alla tassazione. Per la maggior parte di quanti vivono nei paesi europei, le tasse rappresentano una fonte di reddito parassitario (basti pensare agli agricoltori e alla Pac, ma l’elenco sarebbe lungo) e chi oggi non dispone di ciò spera soltanto di poter averlo al più presto.

L’imposizione fiscale abnorme ha fatto sì che la maggior parte degli europei cerchino di realizzare quello che Giuseppe Prezzolini ebbe un giorno a definire il sogno della maggior parte degli italiani, che in fondo vogliono solo “lavorare poco e guadagnare tanto”, ma che sono anche pronti ad accontentarsi di “lavorare poco e guadagnare poco”. Continuando su questa strada (e sono già quasi totalmente pubblici l’istruzione, la sanità, l’università, i trasporti e molti altri settori), saranno presto accontentati.

Roma insomma è solo l’apripista, ma il disastro è ben più ampio e generalizzato. E in questo quadro non è sensato pensare di trovare “capitali morali”, fingendo che l’infezione sia localizzata. Purtroppo non è così.

Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Davide Giacalone – Libero

Hai un impianto di climatizzazione estiva o di riscaldamento invernale? Disgraziato, distruttore dell’ambiente, ricco profittatore. Ora, per penitenza, paghi una patrimoniale e vieni ginocchioni a darmene ricevuta, dopo avere scucito l’obolo alla società privata cui assegnai il compito di vigilare sul nulla. Il burocrate più socialmente utile è quello che non fa niente, il più nocivo quello che si trova una funzione. Vediamo, dunque, questa nuova incarnazione del satanismo.

Ricevo una lettera su carta intestata del comune di Roma: «Gentile Cittadino». Bene, cominciamo bene. Ma cadiamo subito: «desideriamo informarLa che, con riferimento a quanto in oggetto…». Fanno dei corsi appositi, per compitare in tal modo? Comunque, vogliono farmi sapere che «l’ATI CON.TE, organismo tecnico, ha attivato il servizio di censimento e controllo degli impianti di climatizzazione estiva ed invernale previsto dal D.Lgs. 192/ 2005, così come modificato dal Decreto Legge n. 63 del 4 giugno 2013 n. 90 del 03/08/2013». Chi siete? Che volete? Che cavolo di servizio è stato «attivato»? Che vi hanno fatto di male le virgole? Le congiunzioni non si mettono in quel modo, altrimenti ci si riferisce solo a impianti che riscaldano «ed» raffreddano.

Cerco e scopro che CON.TE è un soggetto privato cui partecipano Promoseco SME, Servizi Energia Ambiente e Italgas Ambiente. Troppo ambiente, è inquinante. Questi signori hanno vinto un appalto e ora vogliono mettere le mani sui miei impianti. E siamo già alle minacce: «Alla luce di quanto sopra, pertanto, Le richiediamo la trasmissione della dichiarazione di avvenuta manutenzione, entro e non oltre il 15 luglio 2015 (…) mediante l’invio di: 1. Rapporto di efficienza energetica (conforme all’Allegato III del Decreto Ministeriale del 10/02/2014), rilasciato da manutentore al momento del controllo; 2. Ricevuta di relativo versamento, il cui importo è stabilito in base alla potenza termica dell’impianto».

Quindi devo: a. chiamare i signori di CON .TE, altrimenti fanno senza di me; b. riceverli quando sono disponibili, perché si dà per inteso che tutti noi, come loro, non si abbia nulla da fare; c. pagarli, per il loro prezioso e per niente desiderato intervento; d. pagare una patrimoniale che sale al salire della potenza istallata. Ometto alcune spontanee considerazioni, come quella sulla burodemenza dell’«entro e non oltre». Esiste un entro che è oltre? Un oltre che è entro? Piuttosto fornisco qualche suggerimento, a gratis.

Mettiamo che siano utili questi controlli. Si fanno su impianti regolarmente installati (quelli irregolari manco li conoscono), con macchine regolarmente omologate, che ho pagato coni miei redditi, da cui sono già state detratte le imposte, con regolare fattura, quindi ho già pagato anche l’Iva. Chiedermi di pagare dell’altro è un insulto alla ragionevolezza. Poi, una volta che un manutentore autorizzato, vale a dire quelli che curano questi impianti, quasi sempre a nome dei produttori, quindi non necessariamente il vincitore di un appalto di cui non si sentiva il bisogno, viene e controlla, gli si mette a disposizione un bel sito del Comune, una bella banca dati degli impianti, sicché spunta on­line il mio nome e il mio indirizzo. Fine della trasmissione. I controlli così sono facilitati, visto che si dovrà pensare solo a chi non lo ha fatto. Questi, invece, vogliono non solo che anticipi la documentazione (e la ricevuta della patrimoniale) via fax o e.mail, ma poi devo recapitarla ai loro uffici, quelli di quei privati, e devo sempre conservarne una copia, da esibire tremulo al sopraggiungere del CONTE Tacchia.

Da diversi punti si può guardare Roma dall’alto. Fatelo con gli occhi del CON.TE: vedrete che moltissimi hanno i condizionatori o le caldaie, variamente inchiodati alle mura esterne di case e uffici, ma in alcuni punti si concentrano tumori del tetto, baluginanti impianti atti a riscaldare l’Antartide o rendere fresco il Sahara. Non vi potete sbagliare: sono uffici pubblici. Gli unici che non pagano per boccheggiare d’inverno e congelare d’estate, tanto che gli impiegati, prudentemente, tengono comunque la finestra aperta. Che manco ci sono più le mezze stagioni.

Questa storia dei bollini, infine, è una gran presa in giro. Si spaccia per utile, ma non lo è. Dice di difendere l’ambiente, ma lo peggiora. Portai la macchina a controllare i gas di scarico, così come previsto dalle norme. Arrivai, pagai e mi diedero il bollino da appiccicare al parabrezza. Scusate, chiesi, ma non controllate i gas? Il meccanico rispose, saggiamente: dotto’ ce pole mette ‘n tubo e ficcarlo nell’abitacolo, così more subitamente, i gas benefici non l’hanno ancora ‘nventati. Famolo sindaco.

Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Davide Giacalone – Libero

Il motto di De Coubertain vale solo per gli atleti. Per chi organizza le olimpiadi l’importante è vincere. Impossibile se ci si abbandona alle due opposte suggestioni: a) sarà l’immagine dell’Italia e la campana della riscossa (l’ho già sentita, a proposito dell’Expo); b) sara l’orgia della corruzione e delle tangenti. La prima suggestione è il più sicuro viatico per l’inverarsi della seconda. Sebbene a fatica e controcorrente, la faccenda deve essere ricondotta su un piano razionale. Il primo punto da tenere presente è che questo genere di appuntamenti globali non sono un buon affare in sé. La settimana scorsa ero a Nanchino (Cina), per lavoro, il cui traffico pazzesco era stato ulteriormente sconvolto, per un paio d’anni, dalla preparazione delle olimpiadi giovanili, tenutesi nell’agosto scorso. Ho domandato: ci avete guadagnato? Risposta: ci abbiamo perso. Questo è il primo punto: se il conto economico si limita ai giochi è difficile vincere. La scommessa italiana non può essere sbandierata come certamente vittoriosa, ma neanche come sicuramente nefanda. Tutto sta ad avere le idee chiare e a trarre qualche insegnamento dai non pochi errori compiuti. Sono tre le questioni decisive.

1) Il prodotto da vendere non sono i giochi, ma l’Italia. Fin da subito, quindi, si deve togliere la gestione del turismo alle Regioni (responsabilità della sinistra e della folle riforma costituzionale) e capire che non è la Calabria che fa la concorrenza al Piemonte, ma l’Italia alla Spagna o alla Francia. Noi restiamo la prima meta scelta dai turisti che vengono da fuori l’Ue, siamo già un prodotto forte. Le olimpiadi hanno un senso se servono a mettere il turbo in un motore che, invece, perde quote nel mercato interno europeo. Ciò comporta anche un piano trasporti e un piano aeroportuale non concepiti per soddisfare le pulsioni municipali, ma coerenti con la necessità di rendere l’intera Italia raggiungibile da chi vi metta piede.

2) Una partita simile è meglio non cominciarla neanche se non si stabilisce prima chi comanda (e ne risponde). La scena dei terreni Expo, il conflitto fra l’acquisto o l’affitto, lo scornacchiarsi di Regione e Comune, sono la certezza dell’insuccesso. La tendenza italica è quella di darsi regole dissennate, salvo derogarle quando si deve fare qualche cosa. Non funziona e genera corruzione. Alle olimpiadi è lecito pensare solo se il meccanismo decisionale non verrà concepito come un’eccezione, ma come la regola. Nuova e per tutti. Nella regola deve essere compreso il fatto che chi gestisce all’inizio continua a farlo rispondendo del risultato, senza chiedere aumenti del budget. Ma non basta, deve essere diverso il rapporto con i privati, chiamati ai lavori e sanamente desiderosi di far profitto: entra chi offre le condizioni migliori e condivide il progetto. Non possono esserci revisioni prezzi in corso d’opera. Chi partecipa ai lavori garantisce patrimonialmente la loro realizzazione, alle condizioni pattuite. Le incompiute o gli insuccessi comportano la perdita del patrimonio messo a garanzia. Onori, ma anche oneri.

3) Sbagliato creare un’autoiità di garanzia. Peggio ancora una specie di commissario all’onestà. Solo dove la disonestà è l’unico sistema funzionante si adottano simili ricette. Anche in questo campo non si deve creare l’eccezione, ma adottare una regola razionale. E farla rispettare. Gli organi di garanzia giurisdizionale sono quelli esistenti (vanno riformati, ma è questione non affrontabile qui). Il di più deve consistere nel riprodurre il funzionamento dell’audit (controllo) utilizzato nei grandi gruppi e nelle multinazionali: verifica costante dell’allineamento fra preventivo e spesa, nonché dell’avanzamento lavori. Chi bara o rallenta paga, rimettendoci soldi. Sicché eviterà di farlo per arricchirsi. Se bara l’audit ne risponde, patrimonialmente e penalmente. Ci sono affari che riescono bene e altri che falliscono, dipende dalla capacità d’individuare prima quale è il valore che si vuole vendere e dalla serietà nell’esecuzione. Se si parte dal principio che tutti gli affari divengono malaffari si può essere certi solo del disfacimento.

Legge magnaccia

Legge magnaccia

Davide Giacalone – Libero

Nello stato di diritto tutti siamo subordinati alla legge e nessun potere può essere esercitato con arbitrio. La legge può essere modificata, naturalmente, ma finché vige va rispettata. Nello stato storto, il nostro, la legge è irrilevante e solo i fessi vi sottostanno. Cambiare le leggi può essere divertente, ma inutile, perché si fa prima a interpretarle a proprio piacimento. Questa grottesca e inquietante storia romana, che riempie le cronache e svuota gli animi, ha due facce della medaglia, entrambe intitolate all’irrilevanza della legge: a. per concorrere agli appalti pubblici le aziende per bene producono montagne di carte, come la legge prevede, ma poi lavori e soldi possono essere affidati a cooperative di malfattori; b. una legge proibisce di ritrarre cittadini in manette, così che si è inventato il pallino bianco da mettere su fotografie e filmati, in compenso si può vedere in rete il cinema di persone arrestate con i mitra spianati sul muso. Questa è la medaglia di un Paese che non ha orrore di sé.

Quando provi a divenire fornitore della pubblica amministrazione devi presentare un numero impressionante di documenti, attestanti l’onestà tua e dei tuoi familiari, nonché progetti e/o programmi che spieghino come intendi utilizzare il denaro che riceverai. Che poi nemmeno lo ricevi, perché il verbo continua a essere coniugato al futuro. È capitato che gare per importi rilevantissimi, assegnate regolarmente, siano poi state invalidate perché si scopre che l’affidatario ha una cartella esattoriale non pagata, magari per importo ridicolo, magari avendo anche ragione e, comunque, neanche sapendolo al momento in cui presentò la documentazione. Tanta maniacalità burocratica ha tratti di follia, ma, almeno, speri che serva ad evitare che i soldi pubblici finiscano in mani sbagliate. Poi scopri che una cooperativa può ricevere soldi pubblici pur essendo comporta da assassini, terroristi e criminali di varia caratura. Che i soldi che prendono li spendono solo in parte minimale per il servizio, mentre il resto s’imbuca altrove. Che la grana arriva in anticipo ed aumenta a saldo. Che a Castel Romano ha 986 dipendenti per servire 1400 nomadi (che non sono nomadi, dato stanno lì), un addetto e mezzo a testa. Concorrendo con Buckingham Palace, salvo il fatto che domina il degrado (è un discorso diverso, ma quei 1400 potrebbero anche lavorare …). Insomma, scopri che le regole ferree cui devono attenersi gli onesti diventano lattee con i disonesti.

Già, si potrà obiettare, ma quella era proprio una cooperativa di ex detenuti, quindi è ovvio che sia composta da chi fu ospitato, con una qualche ragione, nelle patrie galere. Un momento: conosco il lavoro della solidarietà e lo sforzo per favorire il reinserimento di chi ha vissuto esperienze negative, ma non consiste mica nel ciucciare denari pubblici, bensì nell’imparare a fare qualche cosa e metterci serietà e impegno di cui non si è stati capaci nel passato. Altrimenti, anziché reinserire gli ex galeotti, varrebbe la pena andare tutti in galera, così ti danno appalti a botte di tre milioni. Inoltre: non ha senso che il riassorbimento della devianza sia praticato nell’assistenza alla devianza, perché non ci vuol molto a immaginare quali possono essere le conseguenze.

Né sembra avere un gran valore neanche il dettato costituzionale, ove si legge che si è innocenti fino a sentenza definitiva. Non faccio che ascoltare intercettazioni, oramai corredate da immagini, tratte da indagini neanche ancora completate. Poi arriva la ciliegina dell’arresto in armi. Tutti documenti utili per riunire il tribunale del popolo ed emettere sentenza al bar. Con il che, però, il diritto è morto. Leggo che uno degli intercettati avrebbe detto: “meno male che è finita bene, sennò chissà come andava a finire”. Ci vedo il reato di lesa lingua italiana, ma mi preoccupo per il giornalismo che sugge questo nettare e per il procuratore che glielo segnala. E il cielo non voglia che le risultanze processuali, fra qualche lustro (è in partenza il processo per il sangue infetto, risalente a ventuno anni fa), dimostrino che l’accusa d’associazione mafiosa era un tantino esagerata (intanto ci vedo il reato d’offesa alla cultura sicula), perché non vorrei dover pagare, con i soldi presi dalle mie tasse, un qualche risarcimento alla compagnia dei magnaccioni.

Non date più soldi all’Opera di Roma

Non date più soldi all’Opera di Roma

Paolo Conti – Corriere della Sera

Il Teatro dell’Opera di Roma, cioè l’antico Costanzi. Ovvero il luogo in cui il sindacalismo capovolge con arroganza, e spesso con violenza, qualsiasi elementare regola: una minoranza che impone il proprio diritto di sciopero e nega alla maggioranza il proprio, di diritto: voler lavorare. II Teatro Costanzi, l’unica realtà musicale al mondo capace di disgustare un protagonista della scena internazionale come Riccardo Muti, prima nominato direttore artistico a vita e poi costretto a subire rabbiose rivendicazioni, autentici assalti personali tanto umilianti quanto impensabili in qualsiasi altro teatro d’opera al mondo.

Scena iniziale, siamo a febbraio nelle convulse ore della prima di Manon Lescaut, poi fortunosamente rappresentata. Muti è nel camerino, una dozzina di musicisti aderenti alla Fials e alla Cgil entrano urlando e senza chiedere alcun permesso: «Deve dire se lei sta con noi o contro di noi!». Non è il film di Fellini sulla Prova d’Orchestra ma pura realtà. Ancora, sempre nei giorni della Manon Lescaut . Alla prova anti generale l’orchestra proclama un’assemblea selvaggia e improvvisa. Muti attende il ritorno dei musicisti. Un’attesa di quasi mezz’ora. Poi gli orchestrali tornano. I macchinisti, dal palcoscenico, protestano gridando: «Vergognatevi, tornate a lavorare» . Altro che la necessaria concentrazione per una prova delicata e importante. E infine l’oltraggio dei venti musicisti, incluso il primo violino, che si rifiutano di seguire Muti nella tournée in Giappone tre mesi fa.

In qualsiasi altro teatro al mondo, i Maestri dell’orchestra avrebbero fatto a gara per il privilegio di partire con lui e rappresentare una capitale in un importante Paese così importante, per di più pieno di melomani appassionati. Muti lascia Roma e col suo gesto svela ciò che è già chiarissimo. Un teatro lirico capitolino, certo non tra i più stimati nel mondo, che riesce a perdere un vero Maestro per di più ribaltando qualsiasi regola democratica: la minoranza che ha la meglio sulla maggioranza. Trenta-quaranta orchestrali che bloccano il lavoro di cinquecento persone, proclamando scioperi che poi impediscono il compenso alla maggioranza che li ha subiti.

Carlo Fuortes, che dal 2003 amministra con successo l’Auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano, vive una condizione schizofrenica da quando, nel dicembre 2013, è stato chiamato con urgenza dal sindaco Ignazio Marino a governare l’Opera. All’Auditorium convive con l’Orchestra di Santa Cecilia che rispetta impegni e programmi, mai si sognerebbe di organizzare incursioni nel camerino di un grande direttore e soprattutto non proclama assemblee che mostrano una concezione dittatoriale del sindacalismo. Dall’altra si ritrova nel caos dell’Opera, sovvenzionato con ben 18 milioni dalle disastrate casse del Campidoglio, dove qualsiasi accordo viene negato il giorno dopo mostrando una concezione distruttiva della rappresentanza sindacale.

C’è infatti da chiedersi se Fuortes non avesse davvero ragione già a luglio quando parlò di una possibile chiusura e liquidazione dell’Opera: Fials e parte della Cgil avevano rimesso in discussione l’intesa, appena raggiunta, sul piano industriale. La stessa idea di sindacalismo distruttivo è tornata pochi giorni fa, quando la solita minoranza ha boicottato il referendum sul piano industriale, dichiarandolo illegale. Perché l’assurdo è che Muti viene costretto ad andarsene mentre l’Opera sta riuscendo faticosamente a risanare il proprio devastato bilancio grazie alla legge voluta, alla fine del 2013, dall’allora ministro Massimo Bray.

Ora l’Opera resta senza Muti ma è costretta a tenersi la minoranza antidemocratica che paralizza il teatro. Le domande si accumulano: il Teatro dell’Opera di Roma è irriformabile? Chi e come potrà mai, in simili condizioni, proporre un nuovo progetto di rilancio dopo il caso Muti? È giusto che la collettività continui a sostenere economicamente una struttura incapace non di imitare modelli europei ma semplicemente di comportarsi come l’orchestra di Santa Cecilia? Il ministro Dario Franceschini e il sindaco Ignazio Marino hanno materia sulla quale riflettere, dopo la vicenda Muti. Anzi, dopo il vero e proprio scandalo di questo addio.