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C’è troppa Germania sotto il cielo d’Europa

C’è troppa Germania sotto il cielo d’Europa

Romano Prodi – Il Messaggero

Mentre il semestre italiano ha già compiuto oltre la metà del suo corso, la confusione domina sovrana a Bruxelles. Nessuno obbedisce a nessuno, anche perché a Bruxelles non vi è nessuno in cerca del compromesso necessario perché i vari paesi possano essere in grado di obbedire a parametri che costituiscono sempre meno un obiettivo condiviso e sempre più una temuta minaccia. Mancando un’autorità riconosciuta ognuno, a Bruxelles, disobbedisce per conto suo. Cominciando dalla Germania che, mantenendo da lungo tempo un surplus della propria bilancia commerciale del 7%, non solo viola l’impegno di non eccedere mai il 6%, ma costituisce un elemento di squilibrio nell’economia mondiale pari a quello che in passato noi rimproveravamo alla Cina. Inoltre, il numero dei paesi che disobbediscono alla regola del deficit del 3% cresce ogni giorno, sotto la spinta dalla congiuntura sempre più sfavorevole.

Si potrebbe minimizzare l’importanza di questi fatti con la semplice osservazione che le cose stanno andando in questa direzione già da qualche anno e che quindi nulla di radicalmente nuovo sta succedendo nel rissoso recinto europeo. I fatti nuovi invece esistono. Prima di tutto il tasso di crescita (potremmo meglio chiamarlo di decrescita) sta ancora peggiorando e i 25 milioni di disoccupati non vedono alcuna migliore prospettiva per il loro futuro, anche perché non vi è più nessuno disposto a ripetere le errate previsioni che sempre promettevano miglioramenti che mai si sono sono avverati. L’esperienza, tuttavia, ci insegna che anche la pazienza e la capacità di sopportazione hanno un limite.

Il secondo fatto nuovo è che la Banca Centrale Europea, che pure nel passato è riuscita ad evitare la catastrofedi una deflazione ancora peggiore, sembra oramai avere speso tutte le proprie limitate munizioni, anche se la sua politica ha raggiunto il positivo ma non dichiarato obiettivo di fare calare il valore dell’Euro di fronte al dollaro, con un potenziale beneficio per le nostre esportazioni. La prima tranche di finanziamento della BCE al sistema bancario ( il così detto Tltro) ha tuttavia trovato una limitata accoglienza proprio perché l’economia europea marcia ad una velocità ancora più ridotta rispetto ad ogni previsione. D’altra parte le dichiarazioni di Draghi rivolte a dare ossigeno alla crescita, non possono avere l’efficacia che avevano avuto in passato, proprio perché vengono sistematicamente ed immediatamente seguite da un’opposta dichiarazione della cancelliera tedesca sulla necessità di non allentare i vincoli dell’austerità. Il continuo richiamo ai compiti a casa suona sinistro soprattutto nei confronti dei paesi che, pur facendo tutto il possibile, vedono crescere continuamente il disagio sociale. I compiti a casa vanno fatti ma, ai presunti scolari, deve essere fornita almeno una matita e un quaderno.

Un terzo elemento da prendere in considerazione è il tono sempre più duro dei dibattiti all’interno del parlamento tedesco riguardo alla politica europea. Chi pensava che l’aumentato ruolo dei socialdemocratici avrebbe ammorbidito le posizioni germaniche e avrebbe reso più responsabile la politica tedesca si è sbagliato. L’intransigenza non è una caratteristica della coalizione CDU-CSU ma è una convinzione profonda e condivisa di tutta la Germania. Non aspettiamoci quindi alcuna novità da Berlino.

Il quarto elemento da prendere in considerazione è che la Francia ha preso atto della sua reale situazione ed ha reso palese che non solo non intende obbedire agli ordini tedeschi ma che si rifiuterà di obbedirvi anche in futuro. L’attuale politica, infatti, non è in grado di accelerare il cammino dell’economia francese e apre le porte ad una vittoria della signora Le Pen alle prossime elezioni presidenziali. L’asse franco-tedesco è quindi entrato anche formalmente in crisi. Oggi tuttavia è divenuto molto più difficile per Francia e Italia proporre a Bruxelles soluzioni innovative. Nella vana attesa di queste proposte, la posizione della Germania si è infatti ulteriormente rafforzata. Ai paesi che tradizionalmente gravitavano intorno alla sua orbita se ne sono aggiunti altri, a partire dalla Spagna, quotidianamente lodata dalla Cancelliera tedesca come esempio di paese riformatore, anche se le riforme messe in atto sono in realtà marginali e la Spagna resta con livelli di disoccupazione e tassi di sviluppo inaccettabili. Qui a Bruxelles, inoltre, la nuova Commissione viene considerata sotto totale controllo tedesco e i direttori germanici sostituiscono con inarrestabile progresso i loro colleghi britannici, francesi e italiani.

Mettendo insieme tutte queste oggettive osservazioni si deve concludere che una concreta politica di più paesi, guidati da Francia e Italia, per portare avanti una linea alternativa di sviluppo non esiste più. Quest’alternativa esisteva fino a qualche mese fa: oggi è scomparsa di fronte ai mutamenti dei rapporti di forza. Eppure un’Europa che procede solo operando su parametri tecnici e non su una politica condivisa è destinata a scomparire. Perché questo non avvenga bisogna che chi ha oggi in mano il timone della politica europea abbia l’intelligenza di aiutare gli altri paesi a uscire dalla crisi. Tuttavia quest’obiettivo potrà essere raggiunto solo se le necessarie riforme potranno essere messe concretamente in atto senza provocare il disfacimento sociale.

Quanto è avvenuto in queste ultime settimane sembra tuttavia indicare che nei circoli politici non ci si rende conto della pericolosa rapida involuzione della politica europea. Ripeteva continuamente il cancelliere Kohl che, anche contro la volontà dei suoi elettori, egli aveva voluto dare vita all’Euro perché, parafrasando Thomas Mann, egli voleva una Germania europea e non un’Europa germanica. Pur avendo, con fatica e con lungimiranza politica dato vita all’Euro, ci stiamo oggi avviando verso la costruzione di un’Europa germanica e non di una Germania europea. E non è il destino che noi abbiamo per tanti anni sognato.

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

Romano Prodi – Il Messaggero

Nella sua visita in California il Presidente del Consiglio ha incontrato un nutrito gruppo di giovani imprenditori italianiche, a migliaia di chilometri di distanza, sono andati a costruire delle “start up”, cioè delle nuove imprese che nascono a grappoli dove esiste un ambiente favorevole. Dove sono disponibili risorse finanziarie e, soprattutto, energie umane giovani e coraggiose. In fondo anche noi abbiamo avuto il periodo delle nostre start-up quando, dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta, fiorivano i nostri distretti industriali, con sempre nuove aziende che fra di loro si integravano e nello stesso tempo si facevano feroce concorrenza. Questo era allora possibile perché le imprese si fondavano su tecnologie semplici e su accessibili fenomeni imitativi, mentre la tumultuosa crescita del mercato permetteva un rapido ritorno degli investimenti. Il tutto era molto adatto all’Italia di allora: pur con tutti i nostri problemi si è perciò potuto parlare di miracolo italiano e vedere le nostre piccole e medie imprese indicate come esempio di efficienza e di innovazione nei manuali di tutte le Business School del mondo.

Oggi viviamo in un pianeta diverso: le imprese fondate sull’imitazione non reggono più di fronte ai nuovi concorrenti mentre le nuove iniziative si fondano su tecnologie raffinate, hanno bisogno di nascere e vivere vicino a università e laboratori di ricerca d’avanguardia e, anche nei casi in cui richiedono capitali modesti, il ritorno del capitale di rischio è a lungo termine. Questo in conseguenza della complessità delle conoscenze da mettere insieme, delle laboriose prove sperimentali e delle autorizzazioni pubbliche necessarie. Il tutto senza tenere conto della difficoltà di reperire credito bancario, data la maggiore facilità nel giudicare il rischio di un prestito concesso a una fabbrica di piastrelle o di abbigliamento che non a un laboratorio che propone nuove molecole o raffinati processi di software. D’altra parte queste sono le aziende del futuro e la loro esistenza condiziona anche la vita e lo sviluppo delle aziende tradizionali.

Non è quindi sorprendente dovere constatare le difficoltà della nostra industria, presa nella tenaglia fra i Paesi a basso costo del lavoro e quelli che fanno tanta ricerca, soprattutto ricerca applicata. Tuttavia, come capita in tutti i casi della vita, se si vuole cambiare qualcosa bisogna prima di tutto partire dalle risorse che abbiamo e cercare di utilizzarle al meglio, sperando di potere in seguito preparare il complesso ecosistema che caratterizza i distretti dove nascono le nuove imprese. Partiamo dal fatto che le nostre risorse spese in ricerca applicata sono scarse, anzi infime, rispetto agli altri Paesi moderni. Abbiamo tuttavia centri di dimensioni non trascurabili, almeno attorno aI politecnici di Torino e Milano, alle università di Bologna e Pisa e al complesso delle università romane e napoletane. Senza nominare la non trascurabile presenza del CNR e dell’Enea. Ho inoltre in mente l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) che è stato opportunamente creato proprio per promuovere la ricerca applicata dedicata a fare avanzare il nostro sistema produttivo e che sta facendo bene il suo mestiere.

Ebbene quando mi sono messo ad analizzare se questi centri di ricerca promuovono nuove imprese sono rimasto profondamente deluso. Le imprese generate sono pochissime e quasi sempre abbandonate a se stesse. E quindi non si sviluppano. I contatti fra le università e le imprese sono scarse, le “start up” non sono capite e non nascono le strutture dedicate a farle vivere. Strutture che, non a caso, nel linguaggio internazionale, sono chiamate “angeli“. Certo gli impedimenti burocratici e le regole allucinanti a cui sono sottoposte le nostre università e le nostre imprese costituiscono la prima difficoltà, ma ho dovuto constatare come siano difficili e complessi i rapporti perfino fra i laboratori d’avanguardia come quelli dell’IIT e la città di Genova che ne ospita le strutture portanti. Ancora ostacoli burocratici ma anche un quasi totale disinteresse del mondo produttivo per capire che cosa si può ricavare da quei ricercatori e da quei laboratori d’eccellenza. Almeno in questi casi la colpa non è certo tutta del governo. Sappiamo che i nuovi business sono difficilmente individuabili, altamente rischiosi e diversi fra di loro. Tra le nuove imprese solo una su cinque (o forse una su dieci) avrà successo ma sappiamo anche che, come accade in tutti gli altri Paesi, il guadagno che deriva dall’impresa di successo costituisce una remunerazione del capitale impiegato molto più elevata della media, anche tenuto conto del costo dei fallimenti.

Mi chiedo perciò come mai, intorno a questi ed altri centri di ricerca, non nascano gli “angeli” in grado di adempiere il complesso compito di legare le imprese all’ecosistema della ricerca, della finanza e delle altre imprese. E mi chiedo perché le autorità pubbliche non ne aiutino in modo prioritario la nascita, impegnandosi anche a contribuire in modo proporzionale agli impegni degli operatori privati. Parlo naturalmente di una presenza minoritaria, perché questo non è un mestiere adatto al pubblico. Ma quanti e dove sono gli operatori privati disposti a rischiare? Ben pochi! Eppure in Italia vi sono sufficienti persone che hanno preparazione, esperienza e conoscenza di uomini per aiutare i giovani ricercatori che si vogliono fare imprenditori, per consigliare a loro gli specialisti di cui hanno bisogno nelle nuove imprese e per dotare le imprese stesse delle necessarie risorse finanziarie. In Italia i potenziali “angeli” non mancano. E non mancano di certo le risorse finanziarie.

Nelle città indicate, ma non solo in queste, basterebbe una infima (ma proprio infima) percentuale delle risorse immobiliari o mobiliari parcheggiate all’estero per dare un contributo concreto all’occupazione giovanile, per rallentare la fuga dei cervelli e per fare si che almeno i colleghi migliori degli imprenditori che Renzi ha incontrato in California possano operare con successo in Italia. Diamo pure alla burocrazia le colpe che si merita ma non dimentichiamo che il coraggio ed il senso del futuro hanno importanza determinante per costruire il nuovo. Ricordiamo Inoltre che i nostri padri, al loro tempo, lo hanno avuto. E, soprattutto, ricordiamo che senza “angeli”non si può arrivare in paradiso.

In economia dobbiamo rimontare la classifica

In economia dobbiamo rimontare la classifica

Romano Prodi – Il Messaggero

Sarà stato il tempo autunnale di questa strana estate ma è certo che le ferie estive non hanno dissolto nessuna delle nebbie che gravano sull’economia mondiale. L’Asia continua a tirare ma con qualche incertezza in più, gli Stati Uniti hanno rallentato la loro crescita, molti Paesi in via di sviluppo stanno perdendo l’energia degli ultimi anni (persino il muscoloso Brasile va sotto zero) e l’Europa non si sveglia dal suo lungo sonno, anche perché la tensione ucraina, con le conseguenti chiusure del mercato russo, completa il quadro negativo di questa stagione.

Sarebbe tuttavia inappropriato attribuire principalmente alle tensioni politiche il cattivo andamento dell’economia europea: la nostra crisi ha radici lontane e ben poco è stato fatto per cambiare direzione. Per più di un anno e mezzo abbiamo ripetuto con noiosa monotonia che la crescita tedesca, fondata esclusivamente sulle esportazioni, non poteva avere vita lunga e che la Germania avrebbe potuto svolgere il suo ruolo di locomotiva dell’Europa solo se avesse iniettato nuovo potere d’acquisto nel suo mercato interno.L’illusione che la virtù germanica fosse più forte di ogni regola economica, che l’inflazione rimanesse l’eterno grande nemico e che i mercati esteri avrebbero per sempre sostenuto la crescita, ha impedito alla Germania di svolgere il ruolo di locomotiva che la sua dimensione economica e la sua responsabilità politica avrebbero dovuto comportare.

Finite le ferie estive ci accorgiamo di due nuove realtà. La prima è che la Germania non solo non è più in grado di fare da locomotiva ma ha cominciato ad essere un freno e che le previsioni dei suoi operatori economici peggiorano di giorno in giorno. Gli investimenti tedeschi veleggiano ormai verso un minimo storico, nonostante la necessità di recupero sia del settore pubblico che di quello privato. La seconda è che non solo non esiste alcun pericolo di inflazione ma che siamo ormai in piena deflazione. L’aumento dei prezzi non raggiungerà in ogni caso il mezzo punto all’anno mentre l’obiettivo della Banca Centrale Europea lo fissava intorno al due per cento.

Nessuna seria correzione è in vista né da parte delle autorità europee né dei singoli governi dell’Unione. È vero che il nuovo presidente della Commissione Juncker ha sottolineato la necessità di dare una spinta allo sviluppo ma poi si è dovuto accontentare di mettere a disposizione dell’intera UE una somma di cento miliardi all’anno per tre anni. Un passo nella direzione giusta ma non paragonabile a quello che fece Obama quando, per contrastare la crisi, iniettò nel sistema economico americano ottocento miliardi di dollari in un solo colpo. Quanto alla politica dei singoli Paesi, i messaggi di fine agosto sono a dir poco contrastati: in Francia il ministro dell’Economia è stato licenziato perché reputato uno spendaccione contro l’austerità mentre in Austria il “falco” Spindelegger si è dimesso per l’opposto motivo.

Il ruolo di armonizzare le diverse politiche ricade ancora una volta sulle spalle della BCE, anche se essa ha poteri assai più limitati di quelli della sua consorella americana. Nella cacofonia europea le parole di Draghi sulla necessità di utilizzare “una maggiore flessibilità nell’ambito delle regole esistenti” in modo da aiutare la ripresa e diminuire i costi delle riforme strutturali hanno fatto compiere un salto in alto a tutte le borse ed hanno contribuito ad abbassare i differenziali dello “spread” fra i titoli pubblici dei diversi Paesi europei. Una risposta positiva dei mercati al messaggio della BCE, nella convinzione che il cambiamento di politica europea fosse maturo, dato che la ripresa europea era ormai divenuta una condizione essenziale anche per la ripresa della crescita germanica.

A porre fine a queste illusioni ci ha pensato rapidamente il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Shauble, che ha brutalmente affermato che Draghi è stato male interpretato. Per rincarare la dose il responsabile dell’economia tedesca ha aggiunto che la BCE ha già usato tutti gli strumenti che essa ha disposizione nella lotta contro la deflazione e che quindi deve starsene buona. In poche parole la Germania non solo non intende cambiare politica aiutando a fermare il declino europeo ma dice a Draghi di non fare nulla perché ormai è andato oltre i suoi compiti.

Gli osservatori internazionali (a cominciare dall’Economist) pensano che una situazione di questo genere possa portare a una nuova crisi dell’Euro. Io non lo penso anche perché Draghi ha ancora molte armi da usare per combattere la recessione e ha ripetutamente espresso la volontà di usarle. In questo quadro tuttavia non mancheranno le tensioni e, come ben sappiamo, le tensioni speculative sono selettive e tendono a colpire i Paesi a uno a uno, cominciando dall’ultimo della classe. Purtroppo, tra i grandi membri dell’UE, noi siamo ancora gli ultimi della classe. È bene prenderne nota e reagire con serietà e con rapidità.