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L’Acropoli e il Quirinale

L’Acropoli e il Quirinale

Davide Giacalone – Libero

C’è un filo che lega l’Acropoli al Quirinale. E non è fatto di moneta. Guardando alle elezioni greche ci siamo tutti concentrati su faccende di debito e valuta. Che sono certo rilevanti, ma non uniche. Quel filo passa da questioni politiche più generali, attinenti agli equilibri globali. E mette ancora di più in frizione la posizione della Germania con il posizionamento atlantico dell’Europa.

Gli errori tedeschi li vedemmo per tempo, quando in Italia erano considerati fulgido esempio di virtù economica e lungimiranza politica. Monti arrivò al governo dicendosi economista tedesco e fummo pochini ad avvertire il rischio. Ora, però, provate a mettervi nei panni della classe dirigente tedesca, politica e non solo: hanno aizzato i cittadini nel far credere (falsamente) che correvano il rischio di pagare i debiti altrui, impugnando l’arma del rigore come una specie di falce morale, e si ritrovano con politiche monetarie espansioniste e messi in minoranza presso la Banca centrale europea. Guardate i numeri con i loro occhi: passano per gli affamatori d’Europa, ma poi scoprono che le famiglie italiane hanno più patrimonio delle loro; in Italia ci sono più ricchi, in rapporto alla popolazione, che da loro; mentre nel loro Paese ci sono più poveri che da noi. Gli invasati del germanocentrismo possono non vederlo, ma i tedeschi s’avvedono che, ancora una volta, rischiano per mancanza di visione intemazionale. Erano stati avvertiti, anche da due ex cancellieri. Fatto è che, in questa condizione, è forte la tentazione di far i rigidi con i greci. Tanto più che i torti ellenici non sono pochi. Ma è possibile?

Il problema non è economico. Se all’inizio di questa storia si fosse scelta la strada della protezione, ci sarebbe costata meno. Il problema è di politica estera. La Grecia ha una posizione e un ruolo importanti, accresciuti dallo scivolare della Turchia verso non tanto i costumi neo-islamici, quanto verso le rimembranze vetero-imperiali. Non dimentichiamoci che il bastione della Nato, in quell’area, poggiava e poggia su Turchia e Grecia. E ciò fu possibile grazie all’occidentalismo kemalista, che dominava la Turchia, per il tramite dell’esercito, così come da un equilibrio ellenico che escludeva la possibilità d’influenze comuniste nell’area, fino a rendere possibile il colpo di stato militare. Roba del secolo scorso, certamente. Ma non è che in questo possa avvenire l’opposto.

Il nuovo governo greco è un’incognita, da tale punto di vista. Le alleanze che lo reggono non rassicurano. Ha chiarito che non intende allontanarsi dall’euro, ma cosa succederebbe se politiche sbagliate allontanassero l’euro dalla loro portata? La Grecia sprofonderebbe in una miseria senza fondo, con le banche destinate a saltare una dopo l’altra. Oppure interverrebbero capitali non europei. Quelli cinesi sono gia presenti e crescenti. La Russia è interessata, sia per rapporti esistenti che per riequilibrio sul versante del Mar Nero (dove la Grecia non si affaccia, ma presidia le spalle della Turchia). Anche capitali arabi sarebbero interessati, per giocare qualche pezzo in più sulla già complessa scacchiera mediterranea. E tutti hanno il loro tornaconto nel divaricare le posizioni dell’Unione europea da quelle degli Stati Uniti. Ue che, del resto, nel ribollire scomposto d’astratte patire e di concreti errori, vede crescere, a destra e a sinistra, formazioni nazionaliste e isolazioniste che incarnano la perdita dell’orientamento e della vitale collocazione atlantica. Non è un mistero che l’operazione Quantitative easing sia ben vista a Washington e mal sopportata a Berlino. Mettete anche questa nel conto e darete maggiore corpo al nervosismo tedesco. Quindi: condonare ai greci i loro debiti è impossibile, anche perché sono i nostri soldi; supporre di farglieli pagare per fargliela pagare è impossibile, perché significa perderli; perderli è pericoloso, perché rattrappisce l’Ue attorno agli imperi centrali (e fanno giusto ora 100 anni!). Occorre equilibrio, dunque. Che è il contrario del cavalcare il marasma e soffiare sulle paure.

Il Quirinale c’entra, perché con la Francia implosa (anche lì i tedeschi hanno sbagliato, e la Merkel, facendo campagna per Sarkozy, ha dimostrato i limiti della sua e della tedesca visione politica) l’Italia ha un ruolo accresciuto. O potrebbe averlo. Il che comporta un presidente della Repubblica eletto guardando anche questo scenario, non solo la cucina del potere nostrano. Potremmo essere noi (traendone vantaggio) a tendere la mano di cui i tedeschi hanno bisogno, per placare gli spiriti di un passato oggi interpretato da chi non lo ha vissuto: i più giovani. Per riuscirci, però, c’è bisogno che i nostri protagonisti non siano a loro volta ghermiti da quegli spiriti, sebbene in versione maccheronica. Sarebbe saggio che la cronaca della corsa al Colle, legittimamente agonistica, non fosse meramente dialettale.

Per sopravvivere all’embargo russo nasce il pacifismo degli imprenditori

Per sopravvivere all’embargo russo nasce il pacifismo degli imprenditori

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Se nella gravissima congiuntura internazionale che attraversiamo il pacifismo tradizionale appare completamente fuorigioco, o comunque non in grado di dotarsi di una lettura efficace dei conflitti in corso, sta nascendo, invece, una sorta di pacifismo imprenditoriale all’insegna di un inedito «Non siamo disposti a morire per Kiev». All’origine di questo slittamento di opinione c’è l’embargo proclamato da Mosca nei confronti di una larga serie di prodotti occidentali e i riflessi pesantissimi che questa decisione ha sull’export italiano.

È chiaro che per l’abbigliamento, l’arredo, le calzature, l’alimentare, le macchine agrìcole e i beni strumentali made in Italy quello russo è un mercato pregiato e che Prometeia stimava in crescita al ritmo di 200 mí1ioni l’anno da qui al 2019. Il rischio, secondo gli imprenditori, è che le forniture italiane siano sostituite dai produttori turchi e cinesi, che avrebbero brindato alla crisi ucraina come un’occasione irripetibile per conquistare spazi a nostro danno. Chi va in missione di business in Russia in questi giorni si sente ripetere da parte degli interlocutori locali che gli interessi di Stati Uniti e Ue non coincidono e che l’industria italiana oltre a pagare i riflessi dell’austerità tedesca ora soffre anche a causa della politica americana anti-Putin.

È inutile negare che, in una situazione economica come l’attuale, le argomentazioni russe incontrino il favore delle imprese più impegnate nell’interscambio. E a farsi interprete di questo disagio è stata la Confindustria Russia che ha emesso una netta presa di posizione e attraverso il suo presidente, il manager Eni Ernesto Ferlenghi, ha scritto a Giorgio Squinzi. Il tono del comunicato stampa è perentorio e chiede al premier Matteo Renzi «di mostrare più equilibrio» e di non alimentare «contrapposizioni da cui nessuno tlarrà beneficio». Ce n’è anche per i media italiani accusati di avallare «posizioni nostalgiche» della Guerra Fredda. Squinzi ha rassicurato Ferlenghi, ha ribadito la fiducia nella via diplomatica ma ha anche sostenuto che il tema non può essere affrontato solo in chiave nazionale. Il messaggio da Mosca, comunque, a Roma è arrivato.