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Presentazione del libro: “La politica italiana per l’innovazione”

Presentazione del libro: “La politica italiana per l’innovazione”

Martedì 17 gennaio alle ore 17:30 nella sede della Fondazione Einaudi in Largo dei Fiorentini, 1 a Roma Salvatore Zecchini presenterà il suo libro “La Politica Italiana per l’Innovazione: criticità e confronti”. Discuteranno con l’autore, Giuseppe Pennisi e Antonio Marzano.

Il volume, edito dal Centro Studi ImpresaLavoro, parte dalla valutazione per cui  malgrado i numerosi sostegni introdotti, negli ultimi anni, dai Governi italiani per accrescere ricerca ed innovazione, il nostro Paese non è riuscito a ridurre il divario che lo separa dalle economie più innovative dell’Unione Europea. Al tempo stesso, l’attività di innovazione, particolarmente tra le piccole e medie imprese, non è riuscita a svolgere quella funzione di motore dello sviluppo economico che si auspicava sia negli anni della recessione economica, sia negli anni pre-crisi. Nasce da queste considerazioni lo spunto che ha spinto Salvatore Zecchini – già Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, Executive Director del Fondo Monetario Internazionale e Vice Segretario Generale dell’Ocse – a esaminare l’insieme degli interventi messi in atto dai Governi italiani, confrontandoli, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie disegnate ed attuate dai Paesi di maggior successo nella ricerca ed innovazione.

 

 

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La politica croce e delizia di chi innova

La politica croce e delizia di chi innova

di Giuseppe Pennisi – Avvenire

L’inchiesta sulle “idee per riaccendere l’Italia” e sull’innovazione e le vere e proprie eccellenze, inducono a chiedersi se e come “la politica industriale” possa contribuire ad accelerare il rinnovamento. Per decenni, una linea di pensiero ha ritenuto che l’intervento dello Stato potesse non incoraggiare ma addirittura frenare l ‘innovazione: in un volume del 1972 ( “Il Governo dell’industria in Italia”, il Mulino 1972) definiva la pubblica amministrazione in supporto dell’innovazione «impicciona» e «pasticciona». A un giudizio quasi analogo si giunge dalla lettura di un recente volume di Franco Debenedetti. Il titolo è eloquente: “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti: l’insana idea della politica industriale” (Marsilio, 2016).

Un punto di vista differente è quello di Salvatore Zecchini, presidente del Comitato Piccole e Medie Imprese dell’Ocse e vice segretario generale Ocse, nonché direttore esecutivo del Fondo monetario: “La politica per l’innovazione in Italia: criticità e confronti” (Centro Studi ImpresaLavoro, 2016). Il volume confronta gli interventi, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie attuate dai Paesi di maggior successo ed indica misure specifiche per chiudere le falle: a) dare al pubblico il ruolo di coordinatore e facilitatore; b) stimolare ricerca e innovazione in azienda; c) creare un contesto favorevole all’innovazione; d) sviluppare la domanda di R&I sia privata sia pubblica; e) rendere più efficaci le modalità d’intervento e di finanziamento; f) potenziare la valutazione economica degli interventi. Per ciascuno di questi temi vengono declinati provvedimenti puntali che saranno presto oggetto di un dibattito a Roma.

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

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IL LIBRO

Malgrado i numerosi sostegni introdotti, negli ultimi anni, dai Governi italiani per accrescere ricerca ed innovazione, il nostro Paese non è riuscito a ridurre il divario che lo separa dalle economie più innovative dell’Unione Europea. Al tempo stesso, l’attività di innovazione, particolarmente tra le piccole e medie imprese, non è riuscita a svolgere quella funzione di motore dello sviluppo economico che si auspicava sia negli anni della recessione economica, sia negli anni pre-crisi.  Nasce da queste considerazioni lo spunto che ha spinto Salvatore Zecchini – già Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, Executive Director del Fondo Monetario Internazionale e Vice Segretario Generale dell’Ocse – a esaminare l’insieme degli interventi messi in atto dai Governi italiani, confrontandoli, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie disegnate ed attuate dai Paesi di maggior successo nella ricerca ed innovazione.

“La politica italiana per l’innovazione. Criticità e confronti”, disponibile su Amazon in versione cartacea e digitale e arricchito da un Poscritto di Giuseppe Pennisi (Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro) sulla strategia di politica industriale in Italia e nei maggiori Paesi europei, è stato pubblicato nella collana “Biblioteca di ImpresaLavoro” curata dal centro studi presieduto da Massimo Blasoni e diretto da Simone Bressan. Si tratta di un lavoro essenziale per individuare le pecche nel sistema italiano provare a correggerle, traendo indicazioni da misure attuate all’estero e riadattabili al nostro caso.

Il lavoro condensa in una visione d’insieme una miriade di misure e strumenti che sono stati impiegati da diversi ministeri ed autorità sul territorio italiano, e disseminati in innumerevoli provvedimenti ad iniziare dagli ultimi anni del primo decennio. Nelle conclusioni, infine, si formula un insieme di proposte per il miglioramento della politica italiana sul tema, auspicando un maggiore coordinamento  tra le diverse componenti del Governo nella programmazione di obiettivi e strumenti, in congiunzione con l’incremento della quota di PIL destinata a R&I. L’aumento delle risorse non sarebbe però sufficiente  senza un profondo cambiamento della cultura sociale in tutte le sue articolazioni per renderla ben disposta al cambiamento, all’innovazione e alla competizione.

L’AUTORE

Salvatore Zecchini. Completati gli studi di economia presso le università Columbia University (MBA) e Wharton School of Finance, Department of Economics (PhD program), ha lavorato come economista presso il Servizio studi della Banca d’Italia, fino a divenirne uno dei Direttori. Ha partecipato ai lavori del Comitato Monetario e del Comitato di Politica Economica della CEE, collaborando in particolare alla costruzione tecnica del Sistema Monetario Europeo. Nominato Executive Director del Fondo Monetario Internazionale, si è occupato della crisi debitoria internazionale e della riforma della sorveglianza multilaterale. È stato successivamente all’OCSE, divenendo direttore del programma di assistenza di politica economica ai paesi post-comunisti e Vice Segretario Generale. Quindi Consigliere economico del Ministro del Tesoro-Bilancio, consulente del Ministro delle Attività Produttive e del Ministro dello Sviluppo Economico, presidente del GME e dell’Istituto per la Politica Industriale. Presidente del OECD Working Party on SME and Entrepreneurship e del suo Steering Group on SME finance. Docente all’Università di Roma Tor Vergata ed autore di saggi, libri ed editoriali nella stampa.

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Per ulteriori informazioni è possibile contattare la Sede di Roma del Centro Studi ImpresaLavoro:
Via dei Prefetti, 30 – tel. 06 62280527 – info@impresalavoro.org

Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Salvatore Zecchini * – Il Foglio

Il populismo di proposte quali il reddito di cittadinanza di cui ha parlato il Foglio ieri e la recente pubblicazione del volume di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La Buona spesa – Guida operativa alla spending review” (edito dal Centro studi ImpresaLavoro) riaccendono l’attenzione sulla spesa pubblica. Questa ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso, con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha oscillato tra il 49,1 per cento del Pil nel 2011 e il 51,2 per cento nel 2014 (50,5 nel 2015), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota serve a remunerare il debito pubblico (4,2 per cento del Pil nel 2015), un’altra a migliorare il potenziale economico attraverso investimenti in capitale fisso (2,3 per cento nel 2015) e capitale umano (8 per cento per istruzione e ricerca), e un 2 per cento circa alla difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile attorno al 42 per cento del Pil. Ad eccezione della spesa per interessi, che è guidata dalla Banca centrale europea e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa quella sociale, si presta logicamente a una revisione, anche quella definita come “non aggredibile”. Infatti, ben poco rileva che gran parte abbia carattere obbligatorio, perché nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Dal 2011 i governi hanno dovuto intraprendere la strada della revisione sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’Ue e della Bce, il rischio di insostenibilità del debito in presenza di stagnazione o recessione economica, e l’acuta intolleranza di imprese e famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale. Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 per cento del Pil dal 2012 al 2015 (43,5 per cento nel 2015), mentre la spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente. Le quattro esigenze, pur essendo distinte, sono collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Tuttavia, ridurre la spesa pubblica in una fase in cui famiglie ed imprese tendono a spendere meno può apparire come una mossa azzardata e controproducente per la crescita. Nondimeno, questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più efficaci per la crescita di medio periodo, ovvero per la competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse delle nuove generazioni. Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia: una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce, delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è percorribile e in quali tempi? Se una riforma costituzionale della politica, delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente, i tempi indubbiamente sarebbero lunghi. Occorre, pertanto, iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito assume un ruolo fondamentale la valutazione economica, benché sia resa molto ardua dalle carenze di informazione e di competenze tecniche nella Pa. Non si sa ancora abbastanza per valutare la gestione degli enti decentrati, dei servizi pubblici locali, società partecipate, meccanismi delle commesse pubbliche, performance delle scuole, gestione di ospedali, Asl, università, etc.. La capacità di valutare della Pa, inoltre, è limitata dalla scarsa conoscenza delle metodologie, mentre l’impiego di esperti indipendenti è visto con timore.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 miliardi nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 miliardi del 2016 ai 28,7 miliardi del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale più che su Regioni e Comuni e, in particolare, su consumi intermedi e personale, toccando sia le retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del Def si desume anche che parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello presente della spesa ma sulla sua espansione futura.

A parte i dubbi sulla fattibilità, i tagli si accompagnano a nuove spese, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, Regioni e Comuni sono toccati meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina accumulando debiti occulti, con ritardi nei pagamenti ai fornitori o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni di ogni singola voce di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali, sulla riorganizzazione della Pa, al centro come in periferia, sulla sua responsabilizzazione e sulle sanzioni. La valutazione non può, d’altronde, esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento. Diversi altri strumenti potrebbero essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla determinazione della leadership nel ridurre sostanzialmente spesa e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa che è carente nella nostra particolare democrazia.

* Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico di ImpresaLavoro

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

di Salvatore Zecchini*

La recente pubblicazione del Documento di Economia e Finanza del Governo, nonché del libro di Pennisi e Maiolo “La buona spesa”, riaccende l’attenzione sull’urgenza di ridurre la spesa pubblica, in particolare quelle parti frutto di sprechi ed inefficienze, al fine di acquisire margini per interventi mirati ad accrescere il potenziale produttivo del Paese.

La spesa pubblica ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha costantemente oscillato tra poco sotto (49,1% nel 2011) e poco sopra il 50% del PIL (50,5% nel 2015; 51,2% nel 2014), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito rispetto alle imprese, famiglie e settore estero.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota tra il 4,8 e 4,2 % del PIL è diretta alla remunerazione del debito pubblico (4,2% nel 2015) e una quota attorno al 2% del PIL (2,3% nel 2015) è destinata alla formazione di capitale nella forma di investimenti fissi utili per migliorare il potenziale di crescita. Inoltre una quota pari all’8% serve per investire in capitale umano attraverso il sistema di istruzione e ricerca, e un 2% circa in spese per la difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile negli ultimi 3 anni, collocandosi nell’ordine del 42% del PIL (42,2% nel 2015).

Lasciando da parte la spesa per interessi, che è guidata dalla BCE e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa la spesa sociale, si presta logicamente a passare sotto l’esame di una revisione di spesa, anche la spesa definita come “non aggredibile”, che Piero Giarda ha stimato in 500 mld circa. Infatti, ben poco rileva che una parte sostanziale della spesa ha carattere obbligatorio, perché all’esecutivo nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Una volta definito l’ambito di revisione della spesa, bisogna affrontare il problema della finalità della revisione, perché questa ne condiziona e delimita il campo di applicazione, la portata e le modalità. Revisione non vuol dire tagli, specialmente se indiscriminati, ma ottenere lo stesso risultato, o uno migliore, al minor costo.

Dal 2011 i governi hanno perseguito la strada della revisione di spesa sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’UE e della BCE, il rischio di insostenibilità del livello di debito accumulato in un contesto di tendenza alla stagnazione se non all’arretramento della produzione di reddito, e l’acuta intolleranza mostrata da gran parte delle imprese e delle famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale.  Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 % del PIL dal 2012 al 2015 (43,5% nel 2015), mentre il livello in valore assoluto della spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente.

Quindi, attualmente la revisione della spesa è dettata da quattro esigenze distinte ma collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Il DEF usa termini meno espliciti, o eufemismi, parlando di controllo della spesa e sua razionalizzazione per acquisire margini per la riduzione delle imposte.

Ridurre la spesa pubblica in una fase in cui si evidenziano carenze di domanda aggregata, particolarmente nei settori imprese e famiglie, può apparire  come una mossa azzardata e controproducente per la crescita.

Questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra, tuttavia, né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché in via di principio si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più produttive di effetto sulla crescita di medio periodo, ovvero su competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività tra i dipendenti pubblici, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse supremo delle nuove generazioni.

Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista in una economia apparentemente di mercato, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia. Una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è o no percorribile, e in quali tempi? Una riforma costituzionale della politica, dell’articolazione delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente per un paese così piccolo, anche se disomogeneo, come il nostro. I tempi indubbiamente sarebbero lunghi; tuttavia, occorre iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito primario di revisione profonda della spesa assume un ruolo fondamentale la valutazione economica. Le sue modalità e le sue precondizioni richiedono tuttavia diverse precisazioni.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 mld nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 mld del 2016 ai 28,7 mld del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale piuttosto che sugli enti decentrati (Regioni e Comuni) e, in particolare, sui consumi intermedi e sul personale, toccando sia l’ammontare delle retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del DEF si desume anche che una parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello della spesa ma sulla sua espansione futura. Alla luce delle reazioni tra i settori colpiti e dalle pronunce della magistratura sui ricorsi sorgono, nondimeno, dubbi sulla realizzabilità di tale programma. Se, invece, si attuasse sarebbe un grande risultato perché per la prima volta si arriverebbe a tagliare circa 100 mld in 5 anni.

Tuttavia, ai tagli si accompagnano nuove spese programmate, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, le Regioni e i Comuni sono coinvolti meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina dei tagli accumulando debiti occulti, come i ritardi nei pagamenti ai fornitori, o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni delle singole voci di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali e sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione, al centro come in periferia. Donde la necessità di una profonda riforma istituzionale. Tagli lineari di spesa sono invece inaccettabili anche sul piano politico, sebbene siano stati usati in questi anni.

Né si possono limitare i risparmi solo agli acquisti di beni e servizi per consumi intermedi, ma devono investire ogni comparto di spesa. Una giustificazione si trova nella analisi fatta sotto il governo Monti con il contributo di Giarda, che arrivava a stimare un eccesso di spesa tra il 20% e il 30% del totale aggredibile, ossia ai valori del 2015 si tratta di riduzioni tra 60 e 90 miliardi.

Le difficoltà di una riduzione oculata di spese stanno, oltre che sul piano degli interessi di parte, nella carenza delle condizioni per una valutazione accurata di ogni singola voce o ente, in quanto vi sono ancora molti vuoti di conoscenza. Non si sa ancora abbastanza per una valutazione sulla gestione degli enti decentrati, sui servizi pubblici locali, sulle società partecipate, sui meccanismi delle commesse pubbliche, sulla performance delle scuole, sulla gestione degli ospedali etc..

Per una valutazione adeguata degli investimenti bisognerebbe predisporre l’obbligo del beneficiario a fornire una serie di informazioni che sono essenziali per una valutazione in itinere ed ex-post. Le valutazioni che si fanno finora hanno un carattere di formalità cartolare, piuttosto che di esame dell’efficienza, dei risultati e dell’impatto economico.

Le valutazioni ex-post degli investimenti e della spesa corrente sono quasi del tutto assenti e nei pochi casi in cui esistono, non sono rese pubbliche se non raramente. I politici non amano che si dimostri i difetti delle loro scelte d’intervento e le inefficienze di gestione. Di conseguenza, viene a mancare quel processo di apprendimento dagli errori del passato, che permette di migliorare l’azione pubblica per il futuro.

Una difficoltà della valutazione sta anche nella scarsa conoscenza della metodologie di valutazione da parte dei funzionari pubblici. Un’altra risiede nei meccanismi di spesa e nell’organizzazione  dell’amministrazione. La valutazione non può esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento.

Come porre rimedio a questi ostacoli attraverso una riduzione di spesa su base valutativa? La lotta alla corruzione e la centralizzazione degli acquisti, sebbene importanti, appaiono come strumenti di parziale efficacia. Ad esempio, gli acquisti di un ente ospedaliero per forniture varie possono essere esenti da fenomeni corruttivi e rispondere ai criteri standard della centralizzazione, ma risultare allo stesso tempo inefficienti o inefficaci, nel caso in cui opzioni alternative consentissero di curare il paziente meglio e a costi inferiori.

Occorrerebbe avere un processo frequente di rivalutazione delle scelte di spesa, condotta da organismi indipendenti con pieno accesso alle informazioni necessarie e resa perfino pubblica. Questo è lo spirito dello zero-base budgeting.

Occorrono anche regole vincolanti in tal senso, che si applichino a tutta l’amministrazione pubblica, inclusi Regioni e Comuni. Ciò implica una piena responsabilizzazione dei centri di spesa e un forte vincolo finanziario tendente a fare attuare un programma di riduzioni di spesa a parità di prodotto su un arco pluriennale. Al tempo stesso, occorre penalizzare seriamente coloro che hanno consentito gli scostamenti di spesa e le istituzioni di appartenenza. Si sono già visti, in particolare, diversi modi di aggirare i vincoli, spostando spese in capo a società pubbliche ed espandendo i debiti verso imprese e banche.

Anche la valutazione d’impatto dovrebbe guidare le scelte, possibilmente sperimentando tecniche nuove, come la stima di soluzioni contro-fattuali, o la selezione casuale su piccola scala dei destinatari degli incentivi agli investimenti all’interno di un gruppo di progetti ritenuti eleggibili per le agevolazioni.

Naturalmente, questa opera di razionalizzazione richiede un massiccio sforzo di formazione dei decisori pubblici in materia di valutazione e gestione della spesa, con un parallelo sviluppo di metodologie adeguate e certificate nella loro efficacia. Paesi come la Germania e il Regno Unito da anni percorrono questa strada.

Altri strumenti potrebbero parimenti essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla volontà e determinazione della leadership del Paese di ridurre sostanzialmente entrambi, spesa pubblica e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa volontà che è soprattutto assente nella nostra particolare democrazia.

 *Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico ImpresaLavoro

Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il Foglio dell’8 giugno 2016.

Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Salvatore Zecchini – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano, più a torto che a ragione, sembrava aver perduto agli occhi dei governanti e dell’opinione pubblica gran parte di virulenza ed attenzione. Fino a qualche giorno fa, se se ne parlava, era per la questione degli “esodati”, per i quali si cerca di trovare un avvicinamento alla pensione che costi poco alle casse dello Stato. Improvvisamente, dal 30 aprile la situazione è cambiata con la dichiarazione di incostituzionalità del congelamento dell’adeguamento all’inflazione dei trattamenti medi ed alti. Il Governo, dopo aver dichiarato col DEF e successivamente che non era intenzionato a intervenire, ora è costretto a reperire circa 17 miliardi (1% PIL al lordo della tassazione di ritorno) per coprire il nuovo buco di bilancio. Non si tratta soltanto di corrispondere quanto non versato, ma di evitare che negli anni avvenire la curva di proiezione della spesa pensionistica in rapporto al PIL si innalzi, compromettendo gli sforzi fatti per abbassarla nell’ultimo decennio. Visto che un nuovo aumento del peso del fisco è insostenibile, è quindi probabile che sarà necessaria una nuova riforma di sistema con tagli di spesa.
Perché i conti della previdenza non erano più visti come un problema tale da richiedere nuove, tempestive riforme? A parte le considerazioni di opportunità elettorale, la risposta sta negli esercizi di simulazione della spesa pensionistica fino al 2060 effettuati dalla Ragioneria Generale e confermati nel DEF 2015. Ne risulta che in rapporto al PIL la spesa, dopo aver raggiunto l’apice del 15,9% nel 2014, dovrebbe scendere al 15,8% quest’anno e continuare a flettere fino al 15,4% del 2019. Queste previsioni di sostenibilità del sistema non sembravano del tutto irrealistiche, pur scontando alcune ipotesi su cui è ragionevole nutrire dubbi. In particolare, una crescita reale di medio periodo del 1,5% annuo, un tasso d’occupazione di circa 10 punti percentuali più elevato che nel 2010, e un tasso d’incremento della produttività dell’1,5% annuo.
Sempre prima della sentenza della Consulta, la RGS riteneva che il rapporto Spesa pensionistica/PIL avrebbe continuato a scendere fino al 15% a circa il 2030 a causa dell’innalzamento dell’età minima di accesso alla pensione e dell’applicazione parziale del metodo contributivo, per poi risalire fino al 15,5% nel 2044 per effetto dell’aumento del rapporto pensionati/occupati, e successivamente ridiscendere fino al 13,7% nel 2060 a seguito dell’estesa applicazione del sistema contributivo e della riduzione del rapporto pensionati/occupati. Questi risultati ovviamente sono attesi se le regole del sistema rimangono stabili nel tempo, ma è evidente che il sistema non è stabile, perché è sotto il costante assedio di una massa di lavoratori che vedono come scopo principale della loro vita lavorativa quello di andare in pensione a spese di quanti restano a lavorare. Un chiaro esempio di parassitismo sociale!
Ma questo non è il solo motivo per preoccuparsi degli effetti del sistema attuale, perché ve ne sono altri ben più pressanti:
  1. L’impatto negativo del sistema pensionistico attuale sulla capacità di crescita dell’economia;
  2. le iniquità intragenerazionali ed intergenerazionali;
  3. il disincentivo implicito nel sistema nei confronti della previdenza complementare e l’alimentare distorsioni nella società verso un modello tendente all’inattività.
Ciascuno di questi punti richiede un breve commento per concludere con l’indicazione di qualche orientamento a cui dovrebbe ispirarsi il governante saggio.
Una spesa pensionistica nell’ordine del 15,5% del PIL può apparire sostenibile, ma è superiore di circa 3,5 punti alla media dell’eurozona, e lo è ancor più se il confronto è fatto con le economie più dinamiche dell’area OCSE. L’incidenza sul PIL risulta di circa 1 punto percentuale superiore a quella della Francia, di oltre 4 punti alla Germania e di 9 punti al UK. Questa forte incidenza si riflette in un prelievo per contributi sulle remunerazioni che dovrebbero andare ai lavoratori pari al 33%, mentre la media OCSE è del 19,6%. Questa imposizione inoltre grava per 23,8 punti percentuali sul datore di lavoro, appesantendo il costo del lavoro e scoraggiando la domanda di lavoro, con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione e sulla propensione ad investire nel Paese.
Appare altresì sproporzionato che questa spesa assorba attualmente il 34% della spesa pubblica primaria, percentuale che dovrebbe salire al 35,6% nel 2019.
Nondimeno non è solo la sproporzione, ma le iniquità del sistema che lo dovrebbero rendere poco accettabile ai lavoratori delle ultime generazioni. Mentre costoro si vedono sottrarre il 33% del loro reddito per sostenere i pensionati, il loro titolo alla pensione rappresentato dal tasso di sostituzione netto è destinato a scendere, ad esempio per un lavoratore dipendente, dall’83,2% nel 2010 al 77,3% nel 2020 e al 71,4 nel 2040. Queste percentuali peraltro nascondono la pochezza degli importi risultanti in valore assoluto, dato che esse si applicano a retribuzioni che tendono a crescere poco, che si collocano su livelli inferiori mediamente a quelli dei maggiori paesi UE, e che non si riferiscono a carriere di lavoro spezzettate. Le attese sono peggiori per chi lavora ad intermittenza, in quanto non può sperare di ricevere una pensione consistente nella vecchiaia, a meno che accetti di lavorare più a lungo o abbia goduto di retribuzioni medio-alte.
L’iniquità intergenerazionale del sistema pensionistico attuale si può cogliere anche sotto un altro profilo. Secondo le stime dell’OCSE, in media la ricchezza pensionistica netta data dal cumulo delle pensioni riferite all’arco di vita al netto delle imposte sulle pensioni stesse supera il salario medio annuale lordo di 9,5 volte per gli uomini e di 10,8 volte per le donne (contro 8,1 e 9,3 volte rispettivamente nella media OCSE). Questa ricchezza viene coperta dai contributi versati annualmente da chi resta al lavoro, oltre che dalle imposte.
L’iniquità non è soltanto intergenerazionale ma anche intragenerazionale. Tra i pensionati attuali sussiste infatti un’ampia differenziazione quanto al rapporto tra l’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa e il totale dei redditi da pensione durante la vita residua. Per una fascia abbastanza ampia, l’ammontare del trattamenti supera ampiamente il montante contributivo, sempre che si applichi interamente il sistema contributivo in vigore per il calcolo delle pensioni. Ne sono esempi i trattamenti accordati ai rappresentanti politici, ai ferrovieri e ad alcune categorie con fondi speciali. Questo squilibrio, contrariamente a un’opinione diffusa, non è impossibile da misurare, considerato che i dati sono disponibili dagli anni 90, mentre per i due decenni precedenti si conoscono le aliquote contributive e si possono ricostruire le retribuzioni a cui andavano applicate.
Il disincentivo al risparmio previdenziale complementare è un altro degli effetti deplorevoli del sistema. Per quanti possono contare su uno stabile lavoro remunerato mediamente, dato l’alto tasso di sostituzione, l’incentivo a risparmiare per crearsi una previdenza complementare si riduce significativamente. Solo con l’abbassamento del tasso di sostituzione e con il lavoro precario, o le retribuzioni relativamente basse l’incentivo aumenta, ma questi sono casi in cui le possibilità di risparmio sono ridotte. Non deve quindi sorprendere che solo 6,2 milioni di lavoratori su 22,2 milioni aderiscono alla previdenza complementare. Questa è anche penalizzata dal Quantitative Easing della BCE, che ha polverizzato i rendimenti obbligazionari, e dall’incremento della tassazione sui rendimenti.
Su questo sfondo è evidente che il Governo non ha scelta migliore che intervenire con l’ennesima riforma al fine di smorzare la dinamica della spesa pensionistica in rapporto al PIL e al totale della spesa pubblica, ridurre le iniquità e favorire la previdenza complementare. La motivazione principale è che per stimolare la crescita occorre anche ridurre la tassazione e potenziare le risorse per gli investimenti. In quest’azione il vincolo da tenere presente è la ricerca di una maggiore equità sia intergenerazionale che intragenerazionale.
Traducendo questi principi in poche parole, significa ridurre al tempo stesso i trattamenti a tutti i pensionati, facendo alcune distinzioni, e i prelievi contributivi per lasciare più risorse per investimenti, salari e future generazioni.
Nella riduzione dei trattamenti, non appare equo tendere a perequare tagliando genericamente tutte le pensioni medie ed alte. La pensione, infatti, rappresenta, anche per la Consulta, reddito differito del lavoratore, ovvero risparmio forzoso accumulato per fini previdenziali a copertura di consumi differiti al tempo in cui il lavoratore rimane inattivo per motivi di età o altra valida inabilità. Manovre di redistribuzione fatte con le risorse pensionistiche e non con le imposte sono la negazione del principio di previdenza. Si ritiene, invece, che il Governo debba usare come metro dei tagli la differenza esistente tra il montante dei contributi versati dal soggetto e quello delle pensioni che gli vengono corrisposte nell’intero arco della vita residua. È proprio su coloro che godono maggiormente di questa eccedenza che dovrebbero incidere i tagli che sono necessari per finanziare una nuova azione di stimolo alla crescita del Paese.
Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Non sono uno specialista di scienza delle finanza o di diritto tributario. Tuttavia, in Italia il nodo centrale è l’oppressione fiscale più che la pressione fiscale. Ho vissuto 15 anni a Washington: di norma dedicavo una sera (dopo il lavoro) agli adempimenti nei confronti dell’imposta federale sul reddito e la sera successiva agli adempimenti relativi all’imposta sul reddito del Distretto di Columbia (dove risiedevo) e alla ‘real estate tax’ (ossia all’imposizione immobiliare e per i servizi comuni indivisibili). Di norma il credito d’imposta, che spesso vantavo, veniva liquidato entro due mesi dall’Agenzia delle Entrate (a Philadelphia) tramite l’invio di un assegno. Nell’arco di 15 anni la modulistica è cambiata solo due volte ed era molto chiara.
Quando nel giugno 1982, mi sono trasferito in Italia alle prime scadenze tributarie ho dovuto servirmi di un commercialista (che mi assiste ancora adesso) a ragione della molteplicità di adempimenti le cui procedure sembrano mutare di anno in anno. A una pressione fiscale tra le più alte al mondo (in termini di Pil e di reddito disponibile delle famiglie) si aggiunge un’oppressione fiscale che è, a mio avviso, una delle prime cause del fenomeno della evasione. Un fisco semplice e comprensivo delle difficoltà dei contribuenti (individui, famiglie, imprese) invita a collaborare. Un fisco ossessivo incoraggia invece a fuggire. È il vecchio teorema di Albert Hirschman su lealtà, protesta ed uscita che temo sia poco conosciuto da coloro che plasmano il sistema tributario italiano. Più un sistema tributario è complicato e in continuo movimento più si favoriscono elusione ed evasione.
È noto che numerose imprese stabiliscono la loro sede legale al di fuori dell’Italia proprio per potere essere soggetti di un sistema tributario più semplice e più ‘amichevole’. È anche noto che artisti e pure imprenditori di rango diventano, per questa ragione, soggetti fiscali stranieri. È meno nota la migrazione di pensionati, anche di pensionati che hanno servito lo Stato per 40 e più anni verso gli Stati Uniti e la stessa Francia che ha aliquote elevate ma non in un moto perpetuo al segno della incertezza. Questi sono esempi di legittima elusione. Ma un fisco oppressivo e ossessivo dopo i tentativi di assecondarlo e le proteste di fronte all’inutilità delle proposte spinge a trovare meccanismi illegali per scappare, quindi evadere.
Mi associo, quindi, alle osservazioni del prof. Zecchini ed all’analisi del dr. Monsurrò. Ma voglio porre l’accento su questo tema specifico nella speranza che le autorità ne tengano finalmente conto.
Per una tassazione competitiva

Per una tassazione competitiva

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

In un mondo in cui da decenni sono caduti barriere commerciali e vincoli ai movimenti dei capitali l’Italia si trova ad essere sempre più stretta nella morsa della concorrenza tra sistemi economici nazionali. Non sono soltanto i prodotti italiani a doversi confrontare con la concorrenza estera, all’interno come all’estero, con in prima fila i partner comunitari, ma l’intero sistema economico e finanziario. Da anni si assiste a un progressivo disincanto verso il Paese come luogo di investimento e produzione (meno home bias), mentre si tende a investire in misura crescente là dove è più conveniente, indipendentemente dal paese. Il confronto con le convenienze offerte dai diversi paesi o regioni è quindi divenuto più pervadente e chiama in causa quasi tutti gli aspetti di sistema. La tassazione, in quanto parte inerente al sistema di produrre e finanziarsi, è assurta pertanto a terreno di contesa tra paesi per attrarre capitali, competenze, ingegni, imprenditori.
Come mostrano i dati comparativi dell’analisi di “ImpresaLavoro”, l’Italia non esce bene da questo confronto. Il riscontro si aveva da anni anche da altri dati, in particolare dagli investimenti diretti con l’estero, che mostrano dal 2000 un saldo tra i più modesti in Europa in termini sia di flussi, che di consistenze. Quali aspetti non vanno nella tassazione italiana nel confronto con i maggiori partner?
In breve, si può sostenere che il livello del prelievo, la sua distribuzione per classi di basi imponibili e tra soggetti (imprese, lavoratori, pensionati, altri percettori di reddito), la ripartizione tra consumi, investimenti reali e finanziari, e tariffe per servizi, la differenziazione tra regioni e la complessità del fisco e della sua amministrazione sono tutti punti deboli, che rendono poco attraente investire nel Paese. Da anni si richiede pertanto un radicale cambiamento di sistema, scevro da condizionamenti ideologici e diretto a rilanciare la competitività del Paese.
Una grande sfida, dato che queste scelte sono il vero specchio dei valori di uno Stato, una società, una democrazia. Sono scelte politiche dure, che non possono accontentare tutti per il fatto stesso che comportano scelte tra interessi contrapposti, ma che non hanno trovato un adeguato punto di ricomposizione nella politica. In realtà sono sfociate in una aggrovigliata ed oscura selva di norme e particolari esenzioni, senza giungere a una riforma di sistema.
In tale quadro non è nemmeno facile individuare come si distribuisce la tassazione. Il lavoro di IL è molto utile per gettare luce sull’intricata materia ed evidenziarne le differenze con altri paesi, ma restano punti interrogativi. Ad esempio, il rapporto col PIL, che è generalmente usato, non tiene conto che il peso sui contribuenti effettivi è maggiore di quanto mostra l’indicatore, perché gli evasori e gli esentati stanno all’interno della misurazione del PIL, ma non tra i colpiti dalla tassazione. I tributi locali complicano il confronto nella misura in cui si nascondono nelle forme di tariffe per servizi. Queste rappresentano una vera imposta se in contropartita non si danno servizi adeguati e si costringe il contribuente a dover pagare di nuovo per ottenere lo stesso servizio dal privato, come nel caso dei servizi idrici. Vi sono poi prelievi nascosti nei costi dell’energia, sotto voci di oneri di sistema, che peraltro non si applicano a tutti gli utenti, a causa delle esenzioni.
Anche l’attuale distribuzione del prelievo fiscale e contributivo pone difficili problemi di equità e di controversi effetti di incentivazione e disincentivazione di determinate attività. I troppi trattamenti pensionistici che superano di gran lunga le contribuzioni versate, costituiscono per chi lavora e deve coprirli un aggravio iniquo e non più tollerabile alla luce delle disparità di costo unitario del lavoro con i concorrenti e nel confronto intergenerazionale. Una tassazione crescente sui redditi da risparmio e da capitale scoraggia leve essenziali per la crescita economica. Lo stesso può dirsi per l’incremento di imposizione sui consumi, sebbene in questa area vi siano grandi sacche di evasione. Tassare i redditi d’impresa pesantemente scoraggia l’attività imprenditoriale, gli investimenti ed alimenta l’evasione.
La chiave di volta sarebbe un generalizzato arretramento della spesa pubblica a tutti i livelli e una sistemazione del macigno del debito pubblico accumulato. Ma si tratta di erodere diritti acquisiti anche se ingiustamente e di ridurre il welfare state, entrambi molto dolorosi.
Sono tutti dilemmi a cui si deve dare risposte appropriate al più presto. Si vedrà se la delega fiscale in approvazione al Parlamento saprà rispondere alla grande sfida per il meglio dell’economia e del Paese.
Salvatore Zecchini – commento al Paper di ImpresaLavoro

Salvatore Zecchini – commento al Paper di ImpresaLavoro

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

La cartina di tornasole dell’efficienza di un mercato del lavoro sta nella sua capacità non solo di assicurare condizioni dignitose al lavoratore, ma di favorire la creazione di un ampio numero di opportunità di lavoro e di competenze, tale da assorbire il massimo delle forze lavoro disponibili. Alla luce di questo test, l’elevata disoccupazione e il basso tasso di partecipazione al mondo del lavoro, che caratterizzano da due decenni l’economia italiana, come pure il desiderio ardente dei lavoratori di assicurarsi una pensione prematuramente, possono prendersi a prova delle gravi inefficienze e disfunzioni del modo in cui si articola il nostro sistema lavoro.
In particolare, le misurazioni di queste debolezze da parte di istituti stranieri e il confronto con gli stessi parametri di altri paesi offrono uno spaccato di quanto non va nel sistema e di come queste incidono sull’attrattiva del Paese per gli investitori, italiani o stranieri che siano.
Rigidità nell’entrata e nell’uscita dal posto di lavoro, scarsa disponibilità ad adattarsi ai mutamenti nelle esigenze di lavoro delle imprese, dinamiche salariali inflessibili e poco in linea con l’evoluzione della produttività, pesanti oneri verso il fisco ed una diffusa contrapposizione corporativa verso le esigenze della produzione e della concorrenza sono tutti fattori che scoraggiano la domanda di lavoro delle imprese e ne modificano le caratteristiche. In particolare, da decenni le imprese tendono a sostituire i lavoratori con automazioni ed import di semilavorati, e a spostare le loro richieste verso qualifiche più elevate, dove si scoprono tuttavia imperdonabili carenze.
È su questi punti che dovrebbe specialmente indirizzarsi la riforma del lavoro da tempo annunciata dai governanti, con l’intento di realizzare notevoli correzioni strutturali e creare le condizioni istituzionali e culturali per un grande rilancio dell’occupazione.

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

La risposta per le rime a Renzi arriva da Massimo Blasoni, 49 anni, imprenditore udinese, che ha comprato un’intera pagina su Il Giornale di ieri. Due tondi, una con la foto del premier come è adesso, l’altro con un fotomontaggio che lo ritrae anziano e canuto. Sotto, la scritta “Torneremo ai livelli del 2008 quando Renzi avrà 67 anni”. Non è una stima sparata a caso. All’inizio di agosto Blasoni ha fondato il centro studi ImpresaLavoro, che ha ipotizzato il conto e di cui fa parte anche Salvatore Zecchini, presidente del gruppo di lavoro dell’Ocse su Pmi e imprenditoria.
Come è venuto in mente di comprare una pagina di giornale?
«Volevo comunicare a Renzi con un linguaggio schietto e mediatico come il suo. Il governo aveva previsto un livello di crecita del Pil dello 0,8 per cento. Balle. Per tornare ai livelli pre-crisi, considerando una crescita media tra il 2008 e il 2014 dello 0,3%, ci serviranno altri 24 anni».
Cosa le fa più paura?
«Quella di Renzi è solo una politica degli annunci. La pressione tributaria non è diminuita. Nessuna semplificazione burocratica per le imprese e nessuna facilitazione per l’accesso al credito. Imsomma, zero segnali di ripresa, nonostante le belle parole. Lo sa quanto costano i ritardi nei pagamenti della Pa alle imprese?».
Quanto?
«Cinque miliardi di euro l’anno. Lo abbiamo calcolato nella nostra prima ricerca».
Lei ha votato Renzi?
«No, anche se all’inizio gli davo fiducia. Ma di riforme vere finora neanche l’ombra. Renzi è un politico di vecchio corso con una faccia da giovane. Ma noi l’abbiamo già invecchiato».