sandro iacometti

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Sandro Iacometti – Libero

Servizi funzionanti, tasse basse, burocrazia inesistente. Siamo a Liberrima, paradiso di modernità ed efficienza, dove trionfa l’ideale dello Stato minimo e si celebrano i diritti fondamentali dell’individuo. Un sogno, ovviamente, a cui Massimo Blasoni ha voluto dedicare l’ultimo capitolo del suo saggio Privatizziamo!, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubettino Editore. Imprenditore del Nordest, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione di strutture socio-sanitarie e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Blasoni maneggia con disinvoltura i grandi maestri della tradizione liberale e liberista, da Smith a Nozick, da Hayek a Friedman.

L’autore descrive, numeri alla mano, il declino dell’Italia, l’impoverimento delle famiglie, il tracollo dei conti pubblici. «Così non va», sintetizza, e una via d’uscita «è immaginabile solo rompendo gli schemi» del dibattito culturale e politico. La rottura non è il liberismo selvaggio. Quello che viene proposto è un cambio di prospettiva. Un mondo di regole e leggi (drasticamente ridotte) dove «lo Stato continua a garantire servizi, ma in modo diverso». Dove tutti, siano essi soggetti pubblici o privati, cercano sul mercato prestazioni che vengono fornite da «società in concorrenza che si sfidano su qualità, innovazione e costi».

Ma Privatizziamo! è molto più di un inno alla privatizzazione. È un appello alla rivoluzione liberale in ogni settore. Dal fisco, che ancor prima di essere più leggero dovrebbe essere semplice e trasparente, alla politica, che dovrebbe ridurre le sue competenze e i suoi rappresentanti, al lavoro, che malgrado le recenti novità del Jobs Act continua a proporre modelli di rigidità costosi e poco orientati ai bisogni di lavoratori e aziende.

Blasoni non si fa troppe illusioni sulla capacità della classe dirigente di raccogliere i suoi suggerimenti. Alla sinistra, spiega, «non si può chiedere di giocare un ruolo autenticamente riformatore in senso liberale». Quanto ai moderati, bisogna riconoscere «i troppi errori compiuti, i troppi tradimenti, le numerose timidezze». La soluzione è quella di ripartire da zero. Cominciando da un elettorato più consapevole, che abbia ben chiaro che «il mondo intorno a noi è competitivo, non solidale» e che «lo sviluppo del nostro Paese, con più libertà e meno Stato, così come il lavoro dei nostri figli non saranno frutto di casualità, ma la conseguenza della nostra capacità di decidere per il tempo a venire e creare le occasioni per concorrere. Senza compromessi».

Il fisco setaccia i conti

Il fisco setaccia i conti

Sandro Iacometti – Libero

Il grande fratello fiscale affila gli artigli. Il progetto, che viaggia sottotraccia da anni, era stato annunciato qualche mese fa. Obiettivo: fare in modo che il fisco abbia a portata di mouse la possibilità di controllare in qualsiasi momento anche il più piccolo dettaglio della vita finanziaria, lavorativa, sociale e anche biologica di ogni singolo contribuente. Tutto, ovviamente, nel nome della lotta all’evasione e della semplificazione, che dovrebbe passare per il progressivo trasferimento di una serie di adempimenti fiscali (vedi il 730 precompilato) dal cittadino all’amministrazione. L’operazione ruota intorno al progetto di «vista unica del contribuente» su cui lo scorso autunno il nuovo direttore dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, ha iniziato a premere l’acceleratore. L’idea è quella di eliminare sovrapposizioni e duplicazioni e unificare tutti i flussi di informazione in un solo canale. I dati confluiranno poi in una Anagrafe nazionale della popolazione residente su cui il supercervellone della Sogei, Serpico (Servizi per i contribuenti), effettuerà controlli, incroci e verifiche.

La rivoluzione a cui sta lavorando la Orlandi si sviluppa su più fronti e prevede il coinvolgimento di tutti i soggetti in possesso di informazioni sensibili dei contribuenti, dai sostituti d’imposta ai commercialisti, fino agli enti previdenziali e alla sanità. Punta di diamante del progetto resta, comunque, il cosiddetto archivio dei rapporti, il contenitore dell’Anagrafe tributaria a cui tutti gli intermediari finanziari (banche, assicurazioni, sim e Poste), come previsto dal Salva Italia di Monti, devono periodicamente inviare le informazioni sui clienti. Incamerati negli scorsi anni i dati relativi al 2011 e 2012, il direttore dell’Agenzia delle Entrate ha deciso ora di cambiare passo. Nel provvedimento firmato ieri si stabiliscono infatti le nuove regole per l’invio dei dati. Tempi strettissimi per le informazioni relative al 2013, che dovranno avvenire entro il 28 febbraio, e al 2014, entro il 29 maggio. Poi, dal 2016, il sistema entrerà a regime, con l’invio periodico delle comunicazioni relative all’anno precedente entro il 15 febbraio. La banca dati sarà ricca di informazioni. Ci sarà non solo il nome dei contribuente ma anche il codice identificativo del rapporto, il saldo di inizio e fine anno, l’importo totale dei movimenti attivi e passivi dell’anno.

La novità principale, nell’ottica dell’unificazione di cui si diceva, riguarda le modalità di trasmissione dei dati. Al momento, infatti, le comunicazioni mensili, con le intestazioni dei rapporti attivi, e quelle annuali, con i saldi, viaggiano su un doppio binario: mensilmente tramite Entratel e Fisconline, annualmente tramite Sid (il nuovo Sistema di interscambio dati). Dal 2016 tutto viaggerà tramite Sid. Un’infrastruttura che rispetta standard di sicurezza più elevati e risponde anche alle perplessità sollevate a suo tempo dal Garante della privacy sul rischio di vulnerabilità dei dati sensibili dei contribuenti. L’utilizzo di un solo canale di trasmissione rientra in uno schema di unificazione dei flussi, ma complicherà molto la vita agli intermediari. La sua gestione richiede infatti una serie di accorgimenti tecnici e di automatismi che risulteranno gravosi per gli istituti più piccoli. Basti pensare che nel 2011 il 77% degli operatori finanziari (10mila su 13mila) aveva meno di 100 rapporti da segnalare. Mentre 260 operatori avevano complessivamente più di 550 milioni di rapporti su un totale di 600 milioni. Con il nuovo sistema le segnalazioni mensili conterranno anche il codice univoco del rapporto oltre alle informazioni del tipo e natura e dei soggetti collegati. Un modo per rendere più facile al cervellone il collegamento di polizze, conti, titoli, mutui e tessere telefoniche con ogni singolo contribuente.

La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

Sandro Iacometti – Libero

La stangata sulla casa è assicurata anche per il 2015. Mentre l’Europa continua a prenderci a sberle ogni giorno (ieri è stato il turno di Draghi e di Juncker, che ha rincarato la dose), inchiodandoci alla prospettiva di una manovra bis, il governo sembra aver deciso che il prossimo anno non solo resterà la Tasi, ma sarà pure più salata. La piacevole prospettiva è emersa nel corso di un vertice tecnico di mercoledì pomeriggio nel corso del quale, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore e da alcune fonti parlamentari, gli esperti governativi si sarebbero scontrati con le difficoltà di portare avanti il progetto frettolosamente, e incautamente, annunciato da Matteo Renzi della local tax.

La grande rivoluzione del fisco locale, tutte le tasse riunite in una sola gabella, sembrava da settimane lì lì per arrivare. All’inizio sembrava dovesse addirittura entrare nella legge di stabilità alla Camera. Poi si è detto che sarebbe stata introdotta al Senato. Un paio di giorni fa il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, ci ha spiegato che per la local tax il governo avrebbe usato provvedimenti diversi dalla legge di stabilità, ma comunque entro la fine dell’anno. Infine si è ipotizzato un intervento nei primi mesi del 2015. L’ultima versione, di fronte all’inevitabile complessità di un riordino generale dell’imposizione locale, è che non si esclude uno slittamento al 2016.

Ipotesi catastrofica per le tasche degli italiani. Il prossimo anno, infatti, non resterà tutto così com’è. Il simpatico vizio degli ultimi governi di prevedere clausole, cavilli e gradualità delle misure ha infatti spinto lo scorso anno l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e l’allora premier Enrico Letta ad inserire nella legge sulla Tasi una devastante bomba a tempo. Il tetto massimo dell’aliquota per la prima casa è fissato al 2,5 per mille (poi diventato 3,3 per mille con l’aggiunta della quota da destinare alle detrazioni), ma solo per il 2014. Dal 2015 l’asticella si allinea a quella prevista dalla vecchia Imu, ovvero il 6 per mille. In più, saranno tolte anche le detrazioni. Considerato che pure la legge che ha previsto l’aliquota aggiuntiva, spalmata sulla prima e sugli altri immobili, vale solo per il 2014.

La Cgia di Mestre si è fatta due conti. I Comuni che hanno applicato quest’anno l’aliquota massima del 3,3 per mille hanno incassato mediamente 347 euro per un’abitazione di tipo civile A2. Con il 6 per mille il conto sale a 631 euro, praticamente quasi il doppio. La stessa cosa si verificherà per un’abitazione di tipo economico A3: dai 233 euro di quest’anno si arriva a 424 euro nel 2015. Molto peggio andrà per chi ha pagato con aliquote inferiori al 3,3 per mille. Alla luce del fatto che la media applicata quest’anno è stata del 2,3 per mille, l’eventuale incremento al 6 per mille farebbe schizzare il gettito riferito ad un’abitazione A2 da 242 euro pagati a 631 euro (variazione +160%). Per un A3, invece, si passerebbe da 134 a 424 euro (variazione +2l6,4%).

Per mitigare la batosta il governo sta valutando l’ipotesi di prorogare le detrazioni. Il problema è che nel 2014 sono stati stanziati allo scopo 625 milioni che oggi non ci sono. I Comuni ieri sono stati chiari: «Il governo deve garantirci nel 2015 le stesse risorse». Se non lo farà, gli aumenti sono sicuri. Nell’attesa, martedì si paga di nuovo: Tasi, Imu e qualsiasi altra cosa vi venga in mente.

Le mani dei sindacati sul Tfr

Le mani dei sindacati sul Tfr

Sandro Iacometti – Libero

Un flusso annuo di 4,2 miliardi che va ad alimentare una massa di risorse gestite che si aggira sugli 85 miliardi di euro. È questo, sostanzialmente, il Tfr che interessa ai sindacati. E pure alla Confindustria. Quello per cui entrambi sono saliti senza esitazioni sulle barricate, accanto ad artigiani e piccoli imprenditori, per difendere la liquidazione dei lavoratori dal progetto di Matteo Renzi di metterne una parte subito in busta paga.

L’interesse vitale delle Pmi è chiaro e solare. Dei 22-23 miliardi che compongono la torta complessiva annua del Tfr circa 11 miliardi restano in azienda. Liquidità preziosa, che la mossa del governo potrebbe dimezzare da un giorno all’altro. Ma i sindacati, sempre così attenti al rilancio del potere d’acquisto dei lavoratori, perché si scaldano tanto? E perché sbraita anche Confindustria, la cui maggioranza delle aziende rappresentate (sopra i 50 dipendenti) già versa il Tfr al fondo di tesoreria istituito presso l’Inps (per un totale annuo di 6 miliardi)? La chiave di volta per comprendere tanta attenzione si chiama previdenza complementare. Di quei 22-23 miliardi di Tfr che ogni anno maturano i lavoratori italiani, infatti, 5,2 miliardi finiscono in pancia ai fondi pensione. Di questi, secondo gli ultimi dati della Covip, circa 800 milioni vanno ai fondi aperti e ai Pip (piani individuali pensionistici) gestiti solitamente da professionisti del settore (sgr, banche, assicurazioni), 2,7 miliardi vanno invece ai fondi chiusi o negoziali e altri 1,5 ai fondi preesistenti (nati prima della riforma del 1993).

Le ultime due categorie di fondi, che ogni anno incamerano 4,2 miliardi dei nostri Tfr, hanno una caratteristica comune: sono gestiti per legge in forma paritetica da rappresentanti dei lavoratori e delle aziende. In altre parole, Confindustria e sindacati si spartiscono le poltrone nel cda. Gli incarichi sono solitamente retribuiti in maniera modesta, ma le somme amministrate sono spaventose. La riforma del 2007, che ha fatto schizzare le adesioni introducendo l’automatismo del conferimento del Tfr al fondo di categoria, non ha prodotto i risultati allora sperati dal governo, ma ha comunque fatto raddoppiare gli iscritti, con un colpo di acceleratore proprio dei fondi negoziali, che rappresentano il fortino della triplice sindacale. Metà di quelli preesistenti, infatti, appartiene al mondo della finanza, dove tengono banco le sigle autonome, mentre buona parte dell’altra metà è rappresentata da fondi dedicati ai quadri e ai dirigenti. Alla fine del 2013, secondo i dati Covip, gli iscritti complessivi ai fondi pensioni ammontano a 6,2 milioni. Di questi circa 2 milioni aderiscono ai fondi negoziali e 655mila a quelli preesistenti. I flussi annui di risorse (comprese quelle volontarie extra Tfr) hanno prodotto gruzzoli non indifferenti. I negoziali hanno in pancia 34,5 miliardi, i preesistenti (più vecchi) circa 50 miliardi. A gestire gli investimenti di queste risorse non ci sono manager esperti di finanza, ma vecchie volpi del sindacato che spesso collezionano più di un incarico.

Uno dei fondi negoziali più grande è quello dei metalmeccanici Cometa: masse amministrate 8,1 miliardi. Ebbene nel cda siedono Roberto Toigo, segretario nazionale Uilm e Francesco Sampietro, sempre della Uil. Giancarlo Zanoletti e Roberto Schiattarella, della FimCisl. Il sindacato autonomo Fismic ha invece nominato il broker assicurativo Luca Mangano, mentre la Cgil ha piazzato alla vicepresidenza il professor Felice Roberto Pizzuti, vicinissimo alla Fiom nonché candidato alle europee per Tsipras. Stessa solfa per Fonchim, altro colosso con 4,2 miliardi di risorse gestite. Anche qui la vicepresidenza è Cgil, con Roberto Arioli della Filctem. Poi ci sono Paolo Bicicchi e Mariano Ceccarelli della Femca Cisl, Salvatore Martinelli e Massimiliano Spadari ancora della Filctem, Eliseo Fiorin, segretario nazionale Ugl tessili e Fabio Ortolani, segretario confederale Uil.