sergio soave

Le strane parole di Draghi fanno presagire un commissariamento

Le strane parole di Draghi fanno presagire un commissariamento

Sergio Soave – Italia Oggi

C’è qualcosa di poco chiaro nelle più recenti esternazioni di Mario Draghi, nelle quali prevede che i governi che non riescono a creare lavoro saranno costretti a dimettersi. L’elemento di ambiguità sta nel fatto che un potere che agisce dall’alto rispetto ai governi europei, soprattutto ovviamente quelli dell’area euro, sembra appellarsi a una sorta di pressione dal basso, che provenga da cittadini ed elettori. Se letto con malizia, sembra una sorta di predisposizione di un «commissariamento democratico», cioè di un intervento dall’alto sulla situazione politica e non solo economica dei paesi europei (ma Draghi è italiano e si sente tale) basata su una sorta di appello proveniente dal basso. Fu così, peraltro, che i Savoia giustificarono la loro occupazione dei territori italiani in base a presunte richieste popolari poi confermate dai plebisciti celebrati con le truppe piemontesi in casa. È un caso felice di commissariamento democratico, ma certamente non un esempio di rispetto della sovranità degli stati preunitari.

Anche senza ricorrere a paragoni ovviamente forzati, si potrebbe determinare una situazione di crisi finanziaria nuovamente aggressiva, alla quale il governo nazionale non è in grado di reagire e che richiede quindi un cambio nella direzione politica. Draghi ha recentemente ricordato, forse non a caso, come una analoga situazione condusse alla sostituzione dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi con un esecutivo tecnocratico volto a realizzare le raccomandazioni europee, a cominciare da quelle dello stesso Draghi. Ora la situazione sembra diversa perché non c’è, a causa del disfacimento delle formazioni politiche esterne al Partito democratico, una possibilità reale di ribaltare il governo con una pressione dal basso, cioè in parlamento o nel voto popolare. A meno che, appunto, non intervenga una formidabile destabilizzazione «dall’alto», che Draghi sarebbe il più titolato a esprimere e forse anche a impersonare, nel caso in cui nelle cancellerie europee si ritenesse che spetta a lui assumere direttamente la responsabilità di «raddrizzare» le cose in Italia, magari dal Quirinale con poteri di fatto straordinari. Si dirà, con ragione, che allo stato degli atti questa è pura fantapolitica, che dedurre tutte queste conseguenze dalle parole di Draghi è un triplo salto mortale dal punto di vista della consecutio logica. È così senza dubbio, ma resta un certo stridore della funzione tecnica e istituzionale del presidente della Banca centrale europea e le considerazioni sulle reazioni elettorali ai comportamenti dei governi che non risultino abbastanza ligi alle direttive, anche se queste sono sostanzialmente condivisibili.

Sul Jobs Act Renzi ha dimostrato di essere un politico navigato

Sul Jobs Act Renzi ha dimostrato di essere un politico navigato

Sergio Soave – Italia Oggi

L’iniziativa messa in atto da Matteo Renzi sulla riforma del lavoro sembrava destinata a infrangersi sugli scogli delle intransigenze filosindacali di una parte consistente del gruppo democratico e delle simmetriche rigidità del Nuovo centrodestra, che ha bisogno di dimostrare di essere influente sulle scelte più delicate. Per giunta la materia è abbastanza scivolosa, perché per esempio basta allargare i casi discriminatori coperti dal reintegro obbligatorio a una fascia ampia di licenziamenti disciplinari, e si torna di fatto alla situazione precedente, mentre, dall’altra parte, la definizione degli incentivi per le assunzioni dei giovani se non sono ben calibrati rischiano di mortificare strumenti che sono risultati assai utili altrove, come l’apprendistato, senza compensazioni adeguate. La scelta di una delega ampia è lo strumento adeguato, ma perché non venga appesantita da emendamenti che ne delimitano troppo le potenzialità, è indispensabile imporre una disciplina di voto alla maggioranza con una richiesta di fiducia che ha due effetti coincidenti, imporre alla minoranza democratica che non è orientata a una scissione un voto favorevole e evitare un vistoso appoggio determinante di Forza Italia, che farebbe apparire irrilevante il contributo di Ncd. Renzi è riuscito a manovrare abilmente e sembra che alla fine otterrà proprio questo risultato, rinviando poi alla stesura delle norme delegate la discussione vera sugli aspetti più complessi della riforma del lavoro.

Questo fatto conferma che il premier sa utilizzare con consumata maestria gli strumenti politici di partito per poi trasferirne gli effetti nel confronto parlamentare, che non è affatto rozzo o inesperto come viene dipinto (e ama egli stesso farsi dipingere). La vera debolezza risiede nella capacità di affrontare nel merito i nodi che imbrigliano l’economia e la società italiane, e sarebbe utile che chi ha le competenze necessarie le impiegasse per aiutare non il governo ma il Paese che oramai sembra boccheggiare in attesa di qualche innovazione reale che ristabilisca un minimo di fiducia. Se le rappresentanze delle parti sociali, i tecnici dell’economia e del diritto, i commentatori capaci di incidere sull’opinione pubblica, perderanno questa occasione di essere utili, anche con richiami critici naturalmente purché attinenti alle difficoltà reali, rischiano di finire anch’essi nell’irrilevanza. Da questo punto di vista l’atteggiamento rissaiolo della Cgil, isolata dagli altri sindacati del lavoro e dell’impresa che cercano punti di contatto e di dialogo, è un gran brutto segno per la sinistra sindacale.

L’unilateralità sindacale, fucina di infiniti privilegi

L’unilateralità sindacale, fucina di infiniti privilegi

Sergio Soave – Italia Oggi

Ancora una volta la questione del diritto del lavoro si presenta come quella più ostica da governare per la sinistra italiana. L’onda lunga del ’68 italiano ha prodotto una saldatura tra i settori radicali del sindacalismo (non necessariamente sempre della Cgil, se ci si ricorda dell’egualitarismo originario di Pierre Carniti) e i giovani magistrati del lavoro, che hanno applicato per decenni in modo unilaterale e creativo le norme dello Statuto in base al principio, proclamato apertamente, che il dipendente ha sempre ragione e se la legge non lo dice bisogna interpretarla in modo da farglielo dire.

Naturalmente alla base c’era l’idea di un risarcimento per decenni di discriminazione antisindacale e anticomunista nelle fabbriche, ma la risposta a una esigenza giusta si è trasformata in una nuova gabbia che ha portato a una stratificazione straordinaria del lavoro, minando alla base lo stesso principio di solidarietà sociale che è alla base del sindacalismo confederale.

La difesa dello status quo del mercato del lavoro è passata per diverse fasi, compresa quella degli attentati terroristici contro le agenzie di collocamento non più pubbliche (dopo che una vertenza europea contro il monopolio statale del collocamento era stata vinta da Pietro Ichino, che si era fatto le ossa nell’ufficio legale della Cgil milanese). I tentativi successivi, quello di Massimo D’Antona sostenuto da Antonio Bassolino ministro del lavoro di Massimo D’Alema e di Marco Biagi, sostenuto da Roberto Maroni nel governo di Silvio Berlusconi, come è noto, provocarono tragici crimini terroristici. Di tutt’altra natura, naturalmente, la risposta di massa della Cgil di Sergio Cofferati, pacifica e democratica ma connotata dall’idea di fondo del riformismo novecentesco, secondo cui c’è una freccia della storia che segna il progresso nelle condizioni di lavoro, il che implica che le differenziazioni rappresentano solo le conquiste già ottenute da alcuni destinate a essere estese a tutti. La realtà ha dimostrato che le cose non stanno così, che i vantaggi di alcuni vengono pagati da altri e così diventano privilegi, ma è proprio su questo giudizio di fondo che la sinistra italiana non riesce a concordare, come quella francese sull’inutilità della riduzione dell’orario a 35 ore, il che finisce col costruire steccati ideologici che rendono o inefficace l’azione dei governi o irrilevante la protesta dei sindacati o riescono nel capolavoro di mettere insieme l’insuccesso di ambedue le parti in causa.

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Sergio Soave – Italia Oggi

Il discorso che Matteo Renzi ha voluto pronunciare per illustrare il programma di legislatura del suo governo aveva lo scopo di rintuzzare le critiche di chi, non senza ragioni in Italia e in Europa, contrappone l’ampiezza degli impegni assunti alla miseria dei risultati raggiunti, ma, soprattutto, serviva a lanciare un messaggio chiaro ai settori riottosi della sua maggioranza e del suo partito. Rimettere in testa all’agenda la riforma elettorale, che era finita nelle sabbie mobili dopo l’approvazione ottenuta alla Camera, significa rendere possibile la via d’uscita di elezioni anticipate nel caso in cui la maggioranza si squagli sui temi più controversi. Ai suoi gruppi parlamentari Renzi deve far digerire la riforma del mercato del lavoro che sostituisce indennizzi all’obbligo di riassunzione previsto dall’articolo 18 e all’alla giustizialista un avvio di riorganizzazione del sistema giudiziario che parta dal settore apparentemente meno minato della giustizia civile. Agli alleati centristi, soprattutto a quelli che insistono sulla loro ispirazione cristiana, invece deve far digerire una qualche forma di riconoscimento delle unioni di fatto.

Su questi temi cruciali il premier è stato abbastanza chiaro, anche se non è entrato nei dettagli, il che consente ai suoi sostenitori di esibirsi in lodi per la concretezza del messaggio, ai dissenzienti (che non coincidono con gli oppositori al suo governo) di lamentare che si tratta sempre e solo di parole. Un punto però è stato affrontato con decisione: se ci saranno ostacoli all’applicazione della delega sulla riforma del mercato del lavoro, il governo agirà per decreto. È un modo per far intendere a sindacati e oppositori interni che non saranno tollerate più altre manovre dilatorie, che su questa questione, quella della flessibilità in uscita del mercato del lavoro, che viene peraltro messa al primo posto come priorità dalle indicazioni di tutte le autorità sovranazionali a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, il governo vuole arrivare a una decisione, più o meno nelle direzioni indicate da Maurizio Sacconi e da Pietro Ichino, che pare siano diventate convergenti. Molti diranno che è poco, il che si può sempre dire, ma se Renzi riuscirà davvero ad archiviare i due elementi di subalternità storica della sinistra italiana, al sindacalismo radicale sul mercato del lavoro, al giustizialismo sulle garanzie, avrà cambiato e nella direzione giusta anche se forse impopolare tratti essenziali della tradizionale imballatura ideologica che rende da decenni sterile il ventre del riformismo italiano.

Distacchi sindacali, verso un paese normale

Distacchi sindacali, verso un paese normale

Sergio Soave – Milano Finanza

Il dimezzamento dei distacchi sindacali, annunciato dalla titolare del ministero della Riforma della pubblica amministrazione Marianna Madia, ha il pregio di indicare uno dei nodi più aggrovigliati del sistema che paralizza l’Italia: l’intreccio conservatore tra burocrazia e corporazioni. La burocrazia, cioè la struttura amministrativa e gestionale pubblica, dovrebbe rappresentare l’interesse generale, contrapposto a quello legittimo ma particolare rappresentato dalle corporazioni o, se si preferisce un termine più carezzevole, dalle parti sociali. È così negli Stati che funzionano, indipendentemente dal fatto che la politica del governo sia basata sulla coesione sociale, come in Francia, o persino sulla decisione congiunta nel controllo di essenziali temi aziendali, come in Germania.

In Italia invece di una dialettica tra l’interesse generale e quelli particolari, cioè tra burocrazia e corporazioni, vige da sempre uno scambio delle parti, che trova nei distacchi sindacali, o anche simmetricamente nell’esercizio da parte dei sindacati di funzioni pubbliche come l’assistenza fiscale, un’espressione plastica. Si tratta però delle conseguenze di un intreccio conservatore assai profondo e radicato. Il governo fa bene a indicare un simbolo particolarmente evidente della patologia, ma non può illudersi di curarla partendo dai sintomi. Questo intreccio ha costituito la trama di continuità delle società italiane, dai Comuni in poi, che sostituiva o innervava Stati deboli o oligarchie autoreferenziali, ha resistito a tutti i cambiamenti istituzionali, è stato glorificato dal fascismo e rinforzato dall’antifascismo. Così in Italia è senso comune pensare che un segretario generale (di un ministero o di un sindacato) resta, mentre i ministri e i capi partito passano. Questo intreccio ha per sua natura un carattere conservatore, il che di per sé non sarebbe un male, ma lo ha declinato soprattutto negli ultimi decenni in una chiusura ermetica alle esigenze di riforma che nascono dalla globalizzazione dei mercati, e questa e la ragione che ha visto le varie esperienze politiche di governo bloccate nelle loro volontà o velleità riformistiche.

Ora ci prova Matteo Renzi, che ha una condizione di particolare forza politica, dovuta essenzialmente alla debolezza dei suoi concorrenti politici e alla comprensione generale dell’esigenza di cambiamento di cui ha fatto una bandiera propagandistica.Merita tutto l’incoraggiamento possibile che, per essere sincero, deve metterlo in guardia contro la faciloneria di misure simboliche che vanno bene per iniziare un processo di riforma e di trasformazione assai più complesso e profondo, ma non possono certo sostituirlo.

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Distacchi sindacali, il bisturi di Renzi indica dove incidere

Sergio Soave – Italia Oggi

Il dimezzamento dei distacchi sindacali, annunciato dalla titolare del ministero della riforma della pubblica amministrazione Marianna Madia, ha il pregio di indicare uno dei nodi più aggrovigliati del sistema che paralizza l’Italia: l’intreccio conservatore tra burocrazia e corporazioni. La burocrazia, cioè la struttura amministrativa e gestionale pubblica, dovrebbe rappresentare l’interesse generale, contrapposto a quello legittimo ma particolare rappresentato dalle corporazioni o, se si preferisce un termine più carezzevole, dalle parti sociali. È così negli stati che funzionano, indipendentemente dal fatto che la politica del governo sia basata sulla coesione sociale, come in Francia, o persino sulla codecisione nel controllo di essenziali temi aziendali, come in Germania. In Italia invece di una dialettica tra interesse generale e interessi particolari, cioè tra burocrazia e corporazioni, vige da sempre uno scambio delle parti, che trova nei distacchi sindacali, o anche simmetricamente nell’esercizio da parte dei sindacati di funzioni pubbliche come l’assistenza fiscale, un’espressione plastica. Si tratta però delle conseguenze di un intreccio conservatore assai profondo e radicato. Il governo fa bene a indicare un simbolo particolarmente evidente della patologia, ma non può illudersi di curarla partendo dai sintomi.

Questo intreccio ha costituito la trama di continuità delle società italiane, dai Comuni in poi, che sostituiva o innervava stati deboli o oligarchie autoreferenziali, ha resistito a tutti i cambiamenti istituzionali, è stato glorificato dal fascismo e rinforzato dall’antifascismo. Così in Italia è senso comune pensare che un segretario generale (di un ministero o di un sindacato) resta, mentre i ministri e i capi partito passano.

Questo intreccio ha per sua natura un carattere conservatore, il che di per sé non sarebbe un male, ma lo ha declinato soprattutto negli ultimi decenni in una chiusura ermetica alle esigenze di riforma che nascono dalla globalizzazione dei mercati, e questa è la ragione che ha visto le varie esperienze politiche di governo bloccate nelle loro volontà o velleità riformistiche. Ora ci prova Matteo Renzi, che ha una condizione di particolare forza politica, dovuta essenzialmente alla debolezza dei suoi competitori e alla comprensione generale dell’esigenza di cambiamento di cui ha fatto una bandiera propagandistica. Merita tutto l’incoraggiamento possibile che, per essere sincero, deve metterlo in guardia contro la faciloneria di misure simboliche che vanno bene per iniziare un processo di riforma e di trasformazione assai più complesso e profondo ma non possono certo sostituirlo.

Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Sergio Soave – Italia Oggi

Matteo Renzi ironizza sulla discussione agostana sulle intenzioni «segrete» dell’esecutivo e in particolare sulle ipotesi che circolano di riduzione delle pensioni o di aumento delle tasse, come se si trattasse soltanto di elucubrazioni giornalistiche prive di fondamento o magari animate da ostilità politica. In questo caso, però, il sarcasmo del premier non è giustificato. Renzi ha ammesso che la crescita prevista per quest’anno non ci sarà, ha insistito a garantire che l’Italia manterrà gli impegni sul deficit, e questi due elementi dicono che mancano almeno cinque miliardi. Se si aggiunge che già la legge di Stabilità in vigore prevede che nel caso in cui non si raggiungano gli obiettivi si ricorrerà a un abbattimento lineare delle detrazioni (cioè a un aumento della tassazione) si vede che l’attesa di nuove tasse, che può essere surrogata solo da riduzioni di spesa che incidono sui grandi aggregati, l’unico dei quali che si può aggredire in tempo per ottenere un effetto sul bilancio dell’anno in corso è la previdenza, è tutt’altro che campata per aria.

D’altra parte, se le cose stanno davvero come dice il premier, il suo obiettivo polemico dovrebbero essere i membri del governo che si sono spesi per spiegare che una riduzione delle pensioni chiamate d’oro (ma che sarebbero quelle superiori a 2 mila euro) sarebbe tutto sommato equa. Renzi spiega che invece i risparmi ci saranno e saranno riduzioni di spesa pubblica, ma è lecito dubitare che queste, se non riguardano la previdenza, possano produrre effetti contabilizzabili nell’ultimo trimestre dell’anno. Probabilmente quello su cui il governo conta è l’effetto del mutamento della base statistica su cui si calcola il prodotto interno e quindi ovviamente la percentuale di deficit. Se in questo modo si aumenta il pil formalizzato si può aumentare il deficit mantenendolo all’interno dei vincoli europei, ma questo artificio si può applicare una volta sola e il problema si riproporrà, aggravato, nell’anno prossimo, nel quale peraltro, dovrebbe cominciare a operare la tagliola infernale del fiscal compact. Sarebbe ingeneroso attribuire al governo la responsabilità della situazione deflattiva che si è creata e che coinvolge quasi tutta l’Europa. Ma è altrettanto ingiusto accusare di strumentalità chi, facendo quattro conti, chiede al governo di spiegare come intende fronteggiare le conseguenze negative di un ciclo che non corrisponde alle previsioni troppo ottimistiche. E se si fa uso di troppa fantasia è anche perchè da parte del governo non si eccede certamente in chiarezza.