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Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Francesco Forte – Il Giornale

Susanna Camusso, nell’adunata a Roma della Cgli cui partecipa l’anima dura del Pd ha minacciato lo sciopero generale sula legge di Stabilità, come se con questo sistema di potessero creare posti di lavoro e crescita del Pil. Al contrario, Davide Serra, finanziere renziano della prima ora, nella convention della Leopolda cui partecipa l’anima populista- versione british – del Pd, ha chiesto la limitazione del diritto di sciopero dei servizi pubblici. Citando Alitalia e trasporti pubblici, ha detto che una impresa estera che li ha visti perde la voglia di investire in Italia.

La proposta di Serra, alla Leopolda, è stata accolta con imbarazzo, ovattato dal garbo che è nello stile della convention, nel garage che evoca i creativi di internet della Silicon Valley. Nella tesi del Serra c’è del vero. L’attuale regolamentazione dello sciopero di pubblici servizi è cucita su misura della Cgil e dei lavoratori del pubblico impiego, garantiti dai soldi del contribuente. Infatti, si può annunciare lo sciopero nel pubblico servizio, creando la disdetta di viaggi, appuntamenti, udienze, con gravi danni al servizio e al suo pubblico e poi revocarlo all’ultimo minuto, beffando datori di lavoro e pubblico. Si possono concentrare questi scioperi prima dei giorni festivi settimanali e di Natale, Pasqua e altre festività, in modo da creare «ponti lunghi» a beneficio degli scioperanti e danni speciali per il pubblico. Ma ciò è secondario.

Il punto centrale è che quando i servizi pubblici sono privatizzati, con aziende quotate in borsa e senza pubbliche sovvenzioni, i contratti di lavoro aziendali prevalgono su quelli nazionali e sono orientati alla produttività e le imprese possono ricorrere a part-time, lavoro flessibile cosiddetto precario e a partite Iva e lo sciopero nei servizi pubblici lo si fa solo in casi estremi e delimitati. Ciò perché il lavoratore, allora, è al servizio del pubblico, anziché viceversa. Solo così il suo posto di lavoro regge e la sua retribuzione è basata sul risultato di mercato. Non si tratta tanto di limitare lo sciopero dei pubblici servizi quanto di privatizzare i servizi pubblici, dalle ferrovie, alle poste, alle migliaia di imprese di comuni e regioni e di recidere i legami fra politica e imprese e banche. Ma questa spending review e le privatizzazioni nella legge di Stabilità dei leopoldiani non ci sono.

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Carlo Lottieri

In Italia, a seguito dell’iniziativa politica del premier Matteo Renzi sull’articolo 18 i temi del mercato del lavoro e della libertà contrattuale sono tornati al centro del confronto pubblico. C’è però una questione un po’ spinosa che resta sempre fuori discussione: come fosse un tabù o un tema che non va neppure sfiorato. Si tratta dello sciopero.
Eppure altrove non è così. Qualche anno fa la società italo-svizzera incaricata di gestire i collegamenti ferroviari tra la Lombardia e il Canton Ticino fu alle prese con un contratto travagliato, dato che i sindacati italiani erano infuriati per il fatto che i colleghi svizzeri avevano sottoscritto un’intesa che prevedeva la rinuncia a interrompere il lavoro per l’intera durata del contratto. Liberamente, insomma, ci si vincolava a non scioperare.
Da noi questa libertà contrattale non è pensabile, dato che lo sciopero – già nella carta costituzionale – è considerato un diritto fondamentale. E come non si può cedere la propria vita o la propria libertà, allo stesso modo è inconcepibile che vi sia chi rinuncia alla facoltà di scioperare.
In realtà, i responsabili sindacali elvetici in quella circostanza accettarono proposte che a loro parvero vantaggiose e la controparte fu lieta di ottenere la garanzia che non vi sarebbero stati scioperi: tutelando in tal modo le attese e gli interessi degli utenti, che hanno bisogno di andare al lavoro ogni giorno. Ma nell’immaginario del sindacalismo italiano toccare lo sciopero è peggio che bestemmiare in chiesa.
Diversamente la pensava un grande liberale del Novecento, Bruno Leoni, per il quale quello dello sciopero non era un diritto. Ai suoi occhi, sciopero e serrata erano sullo stesso piano, rappresentando evidenti violazioni contrattuali. Come emerge in alcuni suoi scritti ripubblicati qualche anno fa in un volume intitolato La libertà del lavoro(edito da Rubbettino), egli non riteneva certo che si potesse obbligare la gente a lavorare contro la propria volontà, ma gli pareva giusto che – come avviene di fronte alle violazioni contrattuali – s’intervenisse con penali a carico di chi non rispetta gli impegni assunti.
In realtà, ormai lo sciopero è soprattutto un’arma nelle mani delle burocrazie sindacali. Potendo ricattare imprenditori e utenti, gli apparati sindacali dispongono di grande visibilità. Non è caso che molti politici italiani (da Marini a Bertinotti, da Cofferati a Del Turco e via dicendo) siano usciti proprio dalle file del sindacalismo: il potere crea potere, e il sindacato è una delle vie maestre per accedere alle più alte cariche.
I moderni sindacati (ben diversi da quelli che sorsero nella seconda metà dell’Ottocento) vivono per giunta grazie all’esproprio del diritto del lavoratore a negoziare il contratto. Se gli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali fossero vantaggiosi, non vi sarebbe bisogno d’imporli ai non iscritti: ben pochi vi rinuncerebbero e, in generale, i lavoratori si rivolgerebbero ai sindacati per consegnare loro la delega a rappresentarli. Se non è così, è perché solo la libertà contrattuale tutela i lavoratori, mentre il “monopolio” della negoziazione imposto dai sindacati maggiori difende unicamente gli interessi del ceto sindacale.
Così, decidendo anche a nome di chi non nutre fiducia nei loro riguardi, i sindacalisti sono ormai un grave ostacolo all’emancipazione dei lavoratori.
Da Milano al confine elvetico c’è meno di un’ora di viaggio. Ma quanto a civiltà giuridica la distanza è abissale e non c’è da stupirsi se stipendi, condizioni contrattuali e qualità della vita sono assai diversi. A tutto vantaggio di quanti hanno la fortuna di starsene a Nord di Ponte Chiasso.
Il sindacato non c’è più?

Il sindacato non c’è più?

Enrico Deaglio – Il Venerdì di Repubblica

No, non è stato solo l’articolo 18. Quello era il pretesto, il tabù da abbattere. Quello che è successo il 29 settembre 2014 alla direzione del Pd, è stato un evento epocale. Per la prima volta nella sua storia, il partito italiano della sinistra ha rotto con il sindacato, con la sua visione del mondo, il suo linguaggio, la sua burocrazia, il suo peso politico, la sua storia. Senza rispetto, senza dire grazie. Anzi, con uno sfogo liberatorio. Non ne possiamo più di voi; siete vecchi, malvestiti, non siete sexy. Nooo! Noi non siamo i vostri figli!

Era già da un po’ che quest’aria circolava. Oggi infatti, insieme al politico della casta, il sindacalista è la persona più disprezzata d’Italia. Quando il presidente del Consiglio – a capo del partito della sinistra; Berlusconi non avrebbe osato tanto – deforma in un messaggio video la voce della segretaria Cgil Susanna Camusso in un piagnucolante falsetto e attacca il sindacato definendolo il principale responsabile di un apartheid sul luogo di lavoro, ha voglia Camusso di prospettare, a mezza bocca, uno sciopero generale. Lei per prima sa che non avrebbe successo. Quando anche il comico liberal Maurizio Crozza scherza su Maurizio Landini (il segretario della irriducibile Fiom) e Camusso e li mostra mentre mobilitano gli iscritti telefonando con i gettoni dalle cabine telefoniche, sembra di sentire una campana a morto: il sindacato, dice lo sketch, è un fantasma del passato; vive ingenuamente in una «bolla spazio temporale sopravvissuta agli anni Settanta»; il futuro delle relazioni di lavoro è piuttosto Flavio Briatore, il boss, quello che in un programma tv su come avere successo negli affari, ti guarda in faccia e ti fa: «Sei fuori». E poi, c’è il popolo che non tollera i fannulloni. Il popolo del blog di Beppe Grillo, il popolo dei melomani che plaude al licenziamento collettivo dei 182 orchestrali e coristi dell’Opera di Roma dopo la rinuncia del Maestro Riccardo Muti a dirigere Aida e Le nozze di Figaro. E poi c’è Sergio Marchionne, nella parte dell’imprenditore coraggioso, che si è trovato contro dei sindacati che volevano mettere becco con lui persino sulle pause per andare a fare la pipì alla catena di montaggio e che è dovuto emigrare in America.

A questo si era giunti, in Italia, nel 2014. Tutti dicevano che erano i sindacati, coi loro stupidi privilegi, a bloccare la speranza. Altro che i minatori gallesi! Altro che i controllori di volo americani! Altro che i ferrovieri inglesi che non volevano rinunciare alla pausa per il tè! No, qui in Italia si è andati oltre. I sindacati hanno distrutto l’Alitalia, difendono i ladri del bagaglio a Malpensa, fanno fuggire gli imprenditori con i loro diktat. Improvvisamente, sono diventati i responsabili di tutto; del precariato, della mancata innovazione, della rigidità del mercato del lavoro, della burocratizzazione della cosa pubblica, dell’assenza del merito, della fuga dei cervelli (94.121 giovani emigrati in un anno), dell’abulia della gioventù, del suicidio degli imprenditori, della crisi. Questa l’aria che tira. Vento forte, non c’è che dire, visto che è arrivato così tumultuosamente anche dentro il partito che era sempre stato l’unico alleato del sindacato.

Vien voglia, allora, di guardarla un po’ più dappresso, questa causa di tutti i mali. Prima di tutto: si dice sindacato o sindacati? Se si sceglie la dizione «sindacati», essi sono in Italia – a seconda delle stime – tra gli 800 e i 1.100; pare sia impossibile avere un censimento sicuro, visto che moltissimi sono sindacati registrati, ma composti di una sola o al massimo due o tre persone, per ottenere qualche beneicio legale. Nella scuola, per esempio, i sindacati sono ben 43, mentre 13 sono quelli dell’Enav, ovvero i controllori di volo. Alitalia e Meridiana schierano 13 sigle (a Ryanair, invece, il sindacato è di fatto vietato. Ehi! Vedi che si può volare senza sindacato!). I magistrati sono organizzati in 5 correnti sindacali, i dirigenti d’azienda hanno sindacati categoriali, provinciali, regionali, così come i prefetti. La Rai, con tredicimila dipendenti, sfoggia Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Telecomunicazioni, Snater, Libersind Conf Sal, Usigrai, ma dirotta tutte le sue produzioni all’esterno, dove lavorano cooperative o altre entità ovviamente senza sindacato. I disoccupati di Napoli assommano 15 sigle, tutte piuttosto vivaci. In realtà praticamente tutti gli italiani (notai, taxisti, allevatori, guide alpine, vittime del racket) fanno parte di un sindacato alla ricerca di un tavolo di trattativa dove poter far valere le proprie ragioni. La Lega Nord ha fatto il suo sindacato, il Sinpa, sindacato della Lega Nord e la destra ha fatto l’Ugl, diventata nota perché la sua segretaria, Renata Polverini, stava sempre in televisione.

Poi, però, dato che siamo un Paese stravagante, esiste tutta un’altra Italia senza sindacati, ma altrettanto vivace. È l’Italia di mafia, camorra e ‘ndrangheta, di tutto il lavoro nero, degli usurai, degli immigrati che mandano avanti l’agricoltura e l’edilizia, degli schiavi che raccolgono il pomodoro. Insomma, quello che si dice normalmente il sommerso, che vale circa il 20 per cento del Pil. Ma, in generale, quando si parla del «sindacato » si intendono le tre grandi confederazioni Cgil, Cisl e Uil, che hanno numeri da lasciare a bocca aperta. Tutte e tre insieme raggiungono quasi dodici milioni di iscritti. Di questi, però, quasi la metà sono pensionati organizzati in una propria federazione. (L’Italia qui è un’anomalia. In Francia e in Germania, per esempio, i pensionati continuano a essere membri del loro sindacato di origine). Dei ventidue milioni di lavoratori in attività, quindi, uno su quattro è iscritto ad una delle tre grandi confederazioni. Non solo, ma all’interno di quel venticinque per cento, in netta maggioranza sono i lavoratori assunti dallo Stato. Per quanto riguarda l’industria, Cgil, Cisl e Uil rappresentano solo le realtà con più di 15 addetti, circa il sessanta per cento del totale. (Ovvero, il 40 per cento dei lavoratori italiani non è mai stato tutelato Redall’articolo 18. Un referendum per estendere la tutela si svolse nel 2003, ma fallì clamorosamente il quorum).

Un altro calcolo interessante è poi quello del numero dei sindacalisti. Secondo Bruno Manghi, il grande sociologo del sindacato, ex dirigente della Cisl, i sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil – ovvero le persone che dedicano almeno qualche ora al giorno, tutti i giorni, alle attività della loro federazione, sono circa 700 mila. Il loro lavoro è in parte volontariato, oppure è ricompensato da «permessi retribuiti» o «distacchi». Il fenomeno è particolarmente presente nella pubblica amministrazione, dove i sindacalisti in distacco retribuito erano arrivati ad essere quattromila, prima che fossero falcidiati dai ministri Brunetta e ora Madia. Quindi, quando vedete una manifestazione sindacale di mezzo milione di persone, duecentomila sono pensionati e il resto sono sindacalisti, in genere del pubblico impiego. Numeri impressionanti. Gli iscritti al sindacato in Italia superano di gran lunga i cattolici che vanno a messa la domenica; i sindacalisti a tempo pieno sparsi sul territorio sono sette volte gli effettivi dell’Arma dei carabinieri.

Da istituzione che difende i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, il sindacato si è progressivamente trasformato in un colossale patronato che funge da centro di assistenza fiscale e pensionistico. I salari, invece, la cui difesa e il cui aumento sono il core business del sindacato, non sono stati molto tutelati. Marco Revelli, storico e da sempre appassionato militante delle battaglie sindacali, nel suo libro Poveri noi (Einaudi) ha riportato un dato quanto meno inaspettato. Una ricerca di Luci Ellis (Banca internazionale dei regolamenti di Basilea) e Kathryn Smith (Fondo Monetario Internazionale) scoprì già nel 2008 che la somma dei salari italiani era diminuita verticalmente. Per l’Italia si stimava un trasferimento tra salari e profitti di 8 punti percentuali (circa 120 miliardi di euro all’anno). Mi dice ora Revelli: «Luciano Gallino aggiorna i dati per l’Italia ipotizzando ora addirittura una quindicina di punti, il che farebbe 250 miliardi». Diversi i fattori: diminuzione della produzione generale; aumento della produttività dovuto al maggior uso di tecnologia, ma soprattutto aumento enorme della forbice tra le retribuzioni del lavoro manuale o impiegatizio, di livello sempre più basso, e quelle che l’alta dirigenza e la proprietà si assegnano. «Una delle più significative sconfitte sindacali è avvenuta alla Fiat. Nel 2012 Marchionne chiese un referendum in cui poneva seccamente la possibilità della chiusura se non fossero stati accettati pesanti cambiamenti (in peggio) dell’orario di lavoro. I dipendenti chiamati al voto si espressero, per poco, per il sì; ma questo non servì a garantire i livelli di produzione promessi e si entrò piuttosto in uno stato di cassa integrazione prolungata e apparentemente senza fine. La vertenza in pratica finì con una perdita di diritti sindacali che si erano acquisiti con anni di lotte e un salario decurtato sensibilmente, dato che la cassa integrazione copre solo l’ottanta per cento della busta paga. Detto in un altro modo, forse più crudo: quello che trent’anni fa era il volano che aveva spinto in alto le richieste sindacali – l’industria dell’automobile – ha perso nove decimi della sua forza numerica ed è composta da migliaia di operai di mezz’età o sulla via della pensione che vivono con meno di mille euro al mese». E di pari passo vennero i call center, i co.co.co, il precariato, le false partite Iva, le false cooperative.

Una massa di lavoro precario che è esplosa oggi in Italia fino a coinvolgere tre milioni di persone. Sono poveri, infelici, indignados, ma soprattutto non sindacalizzati. Nacquero più o meno insieme all’ultima grande manifestazione di forza della Cgil, nel 2002. Tre milioni di persone sfilarono a Roma per «mantenere l’articolo 18» che Silvio Berlusconi voleva eliminare. Non bastando i pullman italiani, la Cgil andò ad affittarli in Slovenia e il sindacato si vantò di aver prodotto tre milioni di spillette e cappellini in una settimana senza ricorrere al lavoro nero. A Sergio Cofferati, il segretario generale, venne pronosticato il ruolo di leader politico. Si parlò di un «ticket Prodi Cofferati», che avrebbe guidato un’Italia socialista. Ma era lo stesso Cofferati a sapere che quei tre milioni erano una specie di illusione ottica, l’ultima raffigurazione di un mondo che non esisteva più. «Quando facevo il sindacalista e c’era un contratto da rinnovare facevamo un’assemblea per turno alla Pirelli Bicocca. Ad ogni assemblea partecipavano settemila operai. Questo vuol dire che il sindacato riusciva a raggiungere in un giorno quattordicimila operai. Ieri, mi hanno portato i dati di adesione al nostro nuovo sindacato che vuol organizzare i precari. Abbiamo raddoppiato gli iscritti! Peccato che da 15 siano passati a trenta!». Giorgio Airaudo è stato il segretario nazionale della Fiom ed è ora parlamentare con Sel. Ha vissuto gli aspetti più drammatici della trasformazione del lavoro e della perdita di forza del sindacato. «Per dire tutta la verità, anche noi non ci rendemmo conto. C’era tutto questo parlare di flessibilità, necessaria per superare la crisi, che ci eravamo illusi che fosse qualcosa di momentaneo. Mi ricordo di quando andai a vedere il call center delle Pagine Gialle, sistemato dentro un’officina vuota di Mirafiori. Era la nuova catena di montaggio, però senza diritti! Noi eravamo abituati ad inserire nelle vertenze concessioni sullo straordinario, in cambio di assunzioni, ma notavamo che agli imprenditori non interessava più. Loro erano alla ricerca di un nuovo modo di produrre – e quando potevano andavano in Serbia o in Romania – e cercavano solo un modello che svalutasse il lavoro, così come ai tempi della lira si svalutava la moneta. Questa è la tendenza di oggi, purtroppo. Lavoro sempre più dequalificato e precario; volatile e licenziabile al primo accenno di crisi. Diventeremo un ex Paese industrializzato, ma forse il primo tra i Paesi sottosviluppati. Credo che dovremo abituarci a considerare il tempo del sindacato forte come un’età dell’oro. Il 13 ottobre, quando John Elkann suonerà la campanella di Wall Street, avrà quotato in borsa una società che in Italia ha lasciato solo piccoli pezzi di produzione».

Dodici anni dopo quella grandiosa manifestazione in nome della dignità del lavoro, il rosario di sconfitte sindacali è lungo. Un quarto delle manifatture è andato perso, il potere d’acquisto è diminuito, le pensioni sono state pesantemente allontanate dal costo della vita e ribassate, il lavoro precario è diventato legge e lo stesso potere politico del sindacato – i grandi accordi di concertazione – sulla politica economica, è un rito del passato. Franco Marini (una vita nella Cisl) non è diventato presidente della Repubblica. Fausto Bertinotti (sindacalista Cgil) si è fatto conoscere per aver fatto cadere il governo Prodi, reo di non aver fatto un legge sulle 35 ore di lavoro. Sergio Cofferati non è diventato il leader del Pd; oggi lo è invece un giovane che ha portato il partito sopra il 40 per cento dei voti, che ha scavalcato i sindacati mettendo lui ottanta euro in busta paga, senza nemmeno un’ora di sciopero. Li ha dati a dieci milioni di garantiti e sindacalizzati, ma è probabile che sia l’ultima volta. Matteo Renzi ha preso l’impegno di difendere «Marta, 28 anni, precaria, che aspetta un bambino» e a cui il sindacato non garantisce le tutele che invece garantisce alle dipendenti pubbliche. Nella stessa riunione, il Pd – dove la Cgil ha scoperto di non avere che pochissimi amici – una direzione euforica ha applaudito il diritto dei «padroni» (e basta chiamarli così!) a licenziare. Non Marta, s’intende. Ma Cofferati e la sua genìa.

Il sindacato è una cosa del passato? Difficile rispondere, perché il quadro non è uniforme. Negli Stati Uniti sembra essere diventato definitivamente un fenomeno residuale, con solo il sette per cento di lavoratori iscritti (dopo la guerra erano il 35 per cento). In Cina è ferocemente represso nei suoi tentativi. Il simbolo del suo sviluppo è piuttosto la gigantesca fabbrica Foxconn, con più di un milione di operai che assemblano telefonini chiusi da reti alle finestre per impedire i suicidi. Il suo contrappeso americano è la catena di grandi magazzini Walmart, anche questa con più di un milione di dipendenti (80 per cento dei prodotti venduti sono made in China) e nessuna rappresentanza sindacale; da cui paghe bassissime, turn over altissimo, licenziamenti facilissimi. Ma non tutto il mondo è così. In Brasile, Lula e Dilma Roussef sono stati portati alla presidenza dal sindacato e il Paese ha vissuto il suo migliore sviluppo economico con grande redistribuzione della ricchezza. La Polonia moderna è nata con la vittoria di un sindacato, Solidarnosc. La Germania è mitica per il potere della sua IG Metal, nel cui grattacielo svettante su Francoforte si decide di che colore saranno le prossime Bmw, di quante settimane di terme a Ischia possono godere gli operai, quanti saranno gli apprendisti da assumere e naturalmente si detta la linea alla politica, anche alla Merkel.

L’Italia oggi è in bilico, ma la tendenza è ad avere un grande futuro dietro le spalle. E dire che la storia è lunga e il sindacato ha radici talmente forti nel popolo italiano da rendere difficile una sua sparizione. In un immaginario tour di turismo sindacale, ecco Torino, la capitale operaia del Novecento, dove una fermata della nuova metropolitana si chiama XVIII dicembre, per ricordare la strage che le bande fasciste di Piero Brandimarte fecero contro la Camera del Lavoro nel 1922. Venti morti ammazzati, un telegramma di plauso da Benito Mussolini. Il sindacalismo italiano era nato da poco più di vent’anni – le leghe dei braccianti e quelle di mutuo soccorso, la gioventù operaia cattolica e i consigli di fabbrica gramsciani, un’idea di lavoro organizzato da contrapporre al padronato che era, davvero, avido e cattivo. Cesura di vent’anni, causa fascismo. Ripresa nel 1945, in cui agli operai e ai contadini nessuno regalava niente. Le fabbriche allora erano caserme, la polizia sparava volentieri. Tour sindacale in Sicilia, alla ricerca delle 44 Case del Popolo distrutte e dei 44 sindacalisti uccisi nel dopoguerra dalla maia, che difendeva feudi e latifondi. Un passaggio nella oggi placida Puglia, a ricercare le orme di Giuseppe Di Vittorio, il più grande sindacalista italiano.

Fatevi accompagnare dal libro di Luciana Castellina e Milena Agus, Guardati dalla mia fame, e scoprirete gli agrari che mettevano la museruola ai bambini perché non mangiassero l’uva durante la vendemmia e le donne proletarie affamate che entrarono nel palazzo dei signori e uccisero per vendetta, a mani nude altre donne, perché simbolo della ricchezza arrogante. Il sindacato in Italia è nato con sangue, passione e sacriicio. È ancora quello? Secondo lo storico Giovanni De Luna «l’apogeo venne raggiunto negli anni 70. I tre sindacati erano uniti (la destra, che li temeva, li chiamava la Triplice, la Trimurti), i grandi contratti collettivi erano momenti in cui si prendevano decisioni sulla scuola, sulla sanità, sulla casa, sullo sviluppo economico. Un’era che allora prese il nome di pansindacalismo, ma che fu sconfitta, principalmente perché non divenne progetto politico. Oggi viviamo i risultati di quella sconfitta; e il sindacato appare una somma di interessi di corporazioni. Un cambio antropologico piuttosto triste».

Pietro Marcenaro, già senatore del Pd, una vita passata nella Cgil, prima come operaio poi come dirigente, non pensa che il sindacato scomparirà. «Fa parte dell’Italia, è stato costruito da uomini e donne di nobili sentimenti e di grande moralità e la sua massima nobiltà l’ha avuta quando è stato unitario. Ma è ovvio che qualcosa è cambiato. Mi dispiacerebbe che la reazione alla politica di Renzi fosse uno scatto pavloviano di autodifesa. Credo piuttosto che il sindacato debba ripartire dal basso, che i sindacalisti debbano considerarsi soggetti che vogliono tutelare altri, non dirigenti di gruppi che cercano tutele. Ripartire dai più deboli. Il primo pensiero che mi viene in mente è questo. Sono un operaio marocchino, cerco qualcuno che mi difenda. Lo trovo, un sindacato?». La stessa domanda potrebbe fare Marta, che aspetta il bambino. O forse queste domande resteranno senza risposta, perché non ci sono più i sindacalisti di una volta. Il rischio è che anche il nome perda di significato. In California circola un adesivo, di quelli da appiccicare sul paraurti posteriore dell’auto. «Non sai chi è un sindacalista? È quello che ti ha fatto avere il weekend».

Occupy Landini, quel mito sbagliato che porta alla disfatta

Occupy Landini, quel mito sbagliato che porta alla disfatta

Mario Lavia – Europa

A un certo momento persino a uno mediaticamente perfetto come Maurizio Landini può capitare di spararla grossa. E se nessuno ha riso davanti alla sua ultima ineffabile minaccia di occupare le fabbriche deve essere stato perché è come se tutti si fossero guardati negli occhi con aria interrogativa: ma che sta dicendo? E facendo ironie fin troppo facili: occupare quali fabbriche, che sono tutte chiuse? C’è da chiedersi, insomma: è veramente Maurizio Landini questo? Accidenti, un leader con la “l” maiuscola, si è confermato di talk in talk, il sindacalista con la t shirt sotto la camicia spiegazzata. Uno che rende l’idea di un capo che ha le masse e non qualche direttivo di categoria dietro di sé, uno tosto, realista, pragmatico, insomma emiliano-emiliano. E allora com’è che gli sfugge una fregnaccia del genere?

Diciamola tutta. Se finanche i giornali, sempre in affanno nel riempire la pagina, non hanno per nulla scavato sulla “minaccia” landiniana, se l’hanno sì riportata nei catenacci, ma senza che ci sia stato uno straccio di cronista che si sia lontanamente posto la domanda “come funzionerà questa mega-occupazione?”, vuol proprio dire che a ’sta storia non ci ha creduto nessuno. Ma come, occupare le fabbriche? Chi? Dove? Come? Voleva incutere paura, il capo della Fiom? Ora, non conoscendolo personalmente, non è semplice diagnosticare cosa sia scattato nella sua testa: sarà stato – nulla di male – un affiorare di ansie, di istinti ribellistici, di pulsioni giovanili. Ma no, forse è successo semplicemente che – a un certo momento – gli è salito in groppo alla gola il rigurgito di un passato più o meno eroico, nell’intreccio ideologico di Bienni rossi e Autunni caldi su su fino al Berlinguer con megafono in mano davanti alla porta 5 di Mirafiori – «se i sindacati decideranno l’occupazione noi metteremo al loro servizio l’esperienza e l’organizzazione del partito comunista…» – cioè «un’altra batosta», come diceva Nanni Moretti a proposito delle elezioni studentesche di non so più quando. Già, batoste. Batoste operaie. Come quella, mitica, la madre di tutte le batoste quando tra il primo e il 4 settembre del 1920 oltre 500mila operai metallurgici occuparono la gran parte delle fabbriche, in prevalenza metallurgiche, a Milano, Genova, Roma, Napoli, Palermo e in altre città. Fu l’acme del Biennio Rosso. Roba grossa, di valenza storica. Con tutto il rispetto, Matteo Renzi pare ancora confinato nella cronaca.

All’epoca lo scontro tra operai e padroni (ma sì, padroni) era durissimo, salari di fame, orari impossibili. Altro che demansionamenti e giuste cause. Si usciva dal primo dopoguerra coi vestiti laceri, e il morale ancora peggio. C’era il socialismo da costruire, mentre si aggiravano le prime squadracce. Si occupò l’occupabile: eppure finì male, molto male. Il sogno dell’autogoverno dei produttori si infranse, l’assalto al cielo dell’autogoverno dei proletari evaporò in un soffio strozzato, e si vide prestissimo che la cuoca non sapeva dirigere non dico lo stato ma nemmeno lo stabilimento. Ma come ogni disfatta, anche quella contribuì ad alimentare il mito dell’occupazione delle fabbriche, che, insieme a tanti altri più o meno nefasti, fu custodito nella memoria operaia per riemergere, ancora più ricoperto da uno spesso strato di ideologia, quasi mezzo secolo dopo, sul finire dei Sessanta: l’Autunno caldo, le commissioni interne, i grandi cortei, le assemblee. Un altro punto alto. Un altro acme. Ecco l’artiglio della classe operaia, diceva Lenin, peraltro nel ’69 artiglio vincente. Ma fu l’ultima volta.

Quando nel 1980 a Enrico Berlinguer, scappò di evocare l’ipotesi dell’occupazione della Fiat (Piero Fassino, che quel giorno era presente a Mirafiori, scrisse anni dopo che fu una specie di incidente non premeditato), di fatto suonò la campana a morte di quel vecchio movimento operaio. Dalla sconfitta alla Fiat uscì un’altra classe operaia. E per sempre. Il mito dell’occupazione ha resistito, ma fra gli studenti, a cui in ossequio all’età dell’innocenza tutto è permesso. Ma agli operai, vaglielo a dire, oggi, di occupare lo stabilimento, di fare i picchetti, di andare avanti tutto il giorno ingollando caffè corretto col Fernet, come usava un tempo a Mirafiori. Chi glielo spiega, all’operaio del 2014, quello che non ce la fa a pagare il mutuo, che è sradicato socialmente, culturalmente, esistenzialmente e magari anche in quanto a passaporto, che deve rinunciare a giorni e giorni di paga solo perché lo chiede il leader sindacale, foss’anche quello più popolare e intelligente?

E allora, caro Landini. Si può capire l’esigenza, come si dice in gergo, di far montare il clima per evitare che la san Giovanni del 25 ottobre stia al Circo Massimo di Cofferati come Moccia a Thomas Mann e però la storia è andata troppo avanti, altro che Autunno caldo: non siamo più a quei tempi là, come cantava Guccini, tutta la vicenda si è fatta ancora meno semplice, perché non c’è più “la semplicità” del socialismo (Brecht) da fare né il padrone (il padrone!) da buttar giù, è tutto molto più complicato, bisogna vedere, bisogna tenere, bisogna trattare, bisogna ideare, bisogna avanzare piano piano. Dunque, nessuno si occuperà mai delle tue occupazioni: al massimo ne domanderanno con un pochino di curiosità i nipoti agli operai che le fecero quarant’anni fa, quelli che quando se ne ricordano corrugano la fronte e subito si mettono a parlar d’altro.

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Nel giorno in cui l’Italia lascia alle spalle il ‘900 e solennizza al Senato la presa d’atto che l’impresa non è l’«arma dei padroni», ma il luogo dove nascono eccellenze, conoscenza, collaborazione e responsabilità; per le vie di Milano la Fiom minacciava l’occupazione delle fabbriche. E a Palazzo Madama c’era chi occupava fisicamente lo scranno, dopo essere stato formalmente espulso, o chi gettava libri contro il banco della Presidenza creando un sovrappiù di tensione di cui certo non si sentiva il bisogno.

Una preoccupante aria di violenza (verbale in Aula, più concreta sulle strade), ancora una volta, ha segnato una giornata che resterà importante. E non basta a giustificarla il rimando subliminale alla “mitologia” di Enrico Berlinguer ai cancelli Fiat nell’80: la situazione non ha nulla di paragonabile. Semmai è proprio il continuo sguardo a un passato rigido socialmente, immutabile e schematico che ha portato a un mercato del lavoro “narrato” come il più garantista e tutelato del mondo ma che invece è nella realtà il più duale, il più distante dai giovani, il più ipocrita perché devastato dal sommerso, il più diseguale quanto a patto generazionale perché ha tolto la stabilità ad almeno tre generazioni di giovani per lasciare l’ipertrofia di un welfare e di garanzie disegnate negli anni 70 a misura di pochi e senza vera lungimiranza.

Il Jobs act, come era inevitabile, ha portato allo scoperto questo cambio di passo “ideologico”: la recessione ha indotto questa operazione verità perché la patria dei diritti non è in grado di trasformarsi nella patria dei lavori. Accadrà quando lo sguardo strategico si sposterà su un taglio drastico al cuneo fiscale su lavoro e imprese, unica vera terapia per creare occupazione attraverso una nuova stagione di investimenti. La detassazione è la strada indicata esplicitamente anche ieri al vertice europeo di Milano da Van Rompuy, Barroso, Hollande. Di questa rivoluzione fiscale c’è per ora solo una traccia nel Jobs act, va tutta tradotta e (molto) finanziata. Tolta l’enfasi dello scontro oratorio tra fazioni opposte, è importante guardare al dettaglio di ciò che è stato votato in Senato. E la fase attuativa di una delega a maglie tanto larghe potrebbe portare a risultati anche diametralmente opposti a quelli attesi, se non attentamente vigilata nella sua fase adattativa.

È importante l’attenzione alle politiche attive e la scelta di ancorare i nuovi ammortizzatori sociali universali a percorsi di formazione e di reinserimento secondo standard che funzionano bene all’estero. È una svolta vera quella di stabilire che il contratto a tempo indeterminato, nella sua nuova veste di contratto flessibile a tutele crescenti, sarà la forma principale di ingresso al lavoro e sarà anche una forma contrattuale particolarmente conveniente e incentivata. È importante che la delega intenda disboscare le modalità di “ingaggio” in nome della semplificazione, tema altrettanto rilevante anche nella riduzione di adempimenti tra imprese e amministrazioni di cui il testo del provvedimento si fa carico. È novità rilevante e di altissimo impatto sui conti pubblici, oltre che sul regolare svolgimento delle relazioni industriali, l’introduzione del salario minimo.

Di articolo 18 non si fa mai cenno. Astuzia politica forse, ma in ogni caso sarebbe escamotage di breve periodo. Non è «l’alfa e omega del provvedimento» – come ha detto il ministro Poletti – ma certo ha catalizzato l’asprezza del confronto politico e sindacale. La “politica del carciofo” con cui finora, riforma dopo riforma, si è cercato di ridurre le possibilità di reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (compensata con un congruo risarcimento) conosce ora una nuovo capitolo: è stata tolta per il caso di licenziamento economico introdotto dalla riforma Fornero, ma viene ora riconfermato per i licenziamenti disciplinari (in un primo tempo erano esclusi, ma la mediazione dentro il Pd li ha alla fine ricompresi) oltre che, naturalmente, per i licenziamenti discriminatori.

Il Governo si è impegnato a “tipizzare” i casi per i quali diventi possibile il reintegro in caso di licenziamento disciplinare, ma è chiaro che, a fronte di ogni definizione legislativa, sorge naturale il contenzioso giurisdizionale per dirimere ambiguità o interpretazioni strumentali. Se si doveva ridurre l’alea delle sentenze non è affatto sicuro che l’obiettivo sia a portata di mano, senza contare che gran parte di chi è licenziato per motivo economico potrebbe avere interesse a farsi riconoscere dal giudice la fattispecie disciplinare.

Ieri Renzi ha girato la boa “europea” con il vertice di Milano che ha sancito in modo esplicito il plauso dei leader rispetto a una riforma di cui hanno colto la portata rifomista. Doveva essere anche un’operazione-immagine per il Governo Renzi e da questo punto di vista è stata un successo. Perché non resti solo il ricordo di una pacca sulla spalla, ora il Governo deve dare corso ai decreti delegati in modo coerente alle premesse e trasformarli in “moneta sonante” nella gestione della flessibilità nei conti pubblici anche per trovare parte delle risorse necessarie a finanziare questa stessa riforma. È la fase più delicata. E sarà il vero test, per il premier, per smentire l’accusa di eccessivo ricorso alla politica degli annunci senza fatti. Nel frattempo – triste revival – chi contesta le riforme prepara l’autunno caldo.

Resistenze antindustrialiste

Resistenze antindustrialiste

Il Foglio

Mentre il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, annuncia una mobilitazione contro il Jobs Act, con il motto “resistere, resistere, resistere”, anche la sinistra giudiziaria si mobilita. Non sembra un caso che le due “resistenze” convergano. Il segretario generale della Fiom-Cgil, Maurizio Landini, agita dietro le spalle della Camusso la linea ancora più oltranzista di resistenza, dicendosi pronto addirittura a occupare le fabbriche. Tutto perché il governo promette di affrontare il tema dell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nei decreti attuativi previsti dalla delega, mediante una disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti che lo renda più conveniente degli altri contratti. Ciò ha un valore simbolico e pratico non da poco. Comporta la distruzione del modello dell’unità sindacale, lo strumento cardine del patto neo corporativo fra Cgil e Confindustria.

Uil e Cisl si sono dissociate dalla Cgil e Matteo Renzi per ora non ha fatto alcuna concessione alle richieste della Cgil che, evidentemente, non è più l’interlocutore privilegiato del nuovo Pd. E l’effetto di ciò sulla Confindustria è evidente: ora anch’essa non è più un’interlocutrice privilegiata della Cgil. Tuttavia sulla linea oltranzista si colloca pure la magistratura giustizialista, dopo che il premier ha rotto la sacralità del corpo giudiziario a partire dalla contestazione delle lunghe ferie estive. Ma questo è solo un piccolo antipasto: nella corporazione dei giudici c’è chi si allarma per la possibile sottrazione di competenze in materia di lavoro connessa all’indebolimento dell’Articolo 18, per esempio, o addirittura chi tema responsabilità civile e separazione delle carriere. Perciò anche su questo fronte s’alzano barricate.

C’è infatti qualcosa di più sostanzioso della minaccia di scioperi: i processi per danno ambientale e per corruzione, a carico di grandi imprese, che possono entrare in crisi (vedi Ilva di Taranto, Tirreno Power, acciaierie ThyssenKrupp, già condannate a Torino per disastro ambientale). Ma ci sono anche i processi per corruzione per il Mose e per l’Expo di Milano che comportano il rischio che si blocchi la procedura semplificata per le grandi opere del decreto sblocca Italia appena varato. E poi ci sono i processi all’Eni per corruzione internazionale che coinvolgono l’ad appena nominato da Matteo Renzi, Claudio Descalzi. Resistere, resistere, resistere. Speriamo lo faccia pure Palazzo Chigi.

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.

Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.

Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.

Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.

Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?

Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.

Le mani dei sindacati sul Tfr

Le mani dei sindacati sul Tfr

Sandro Iacometti – Libero

Un flusso annuo di 4,2 miliardi che va ad alimentare una massa di risorse gestite che si aggira sugli 85 miliardi di euro. È questo, sostanzialmente, il Tfr che interessa ai sindacati. E pure alla Confindustria. Quello per cui entrambi sono saliti senza esitazioni sulle barricate, accanto ad artigiani e piccoli imprenditori, per difendere la liquidazione dei lavoratori dal progetto di Matteo Renzi di metterne una parte subito in busta paga.

L’interesse vitale delle Pmi è chiaro e solare. Dei 22-23 miliardi che compongono la torta complessiva annua del Tfr circa 11 miliardi restano in azienda. Liquidità preziosa, che la mossa del governo potrebbe dimezzare da un giorno all’altro. Ma i sindacati, sempre così attenti al rilancio del potere d’acquisto dei lavoratori, perché si scaldano tanto? E perché sbraita anche Confindustria, la cui maggioranza delle aziende rappresentate (sopra i 50 dipendenti) già versa il Tfr al fondo di tesoreria istituito presso l’Inps (per un totale annuo di 6 miliardi)? La chiave di volta per comprendere tanta attenzione si chiama previdenza complementare. Di quei 22-23 miliardi di Tfr che ogni anno maturano i lavoratori italiani, infatti, 5,2 miliardi finiscono in pancia ai fondi pensione. Di questi, secondo gli ultimi dati della Covip, circa 800 milioni vanno ai fondi aperti e ai Pip (piani individuali pensionistici) gestiti solitamente da professionisti del settore (sgr, banche, assicurazioni), 2,7 miliardi vanno invece ai fondi chiusi o negoziali e altri 1,5 ai fondi preesistenti (nati prima della riforma del 1993).

Le ultime due categorie di fondi, che ogni anno incamerano 4,2 miliardi dei nostri Tfr, hanno una caratteristica comune: sono gestiti per legge in forma paritetica da rappresentanti dei lavoratori e delle aziende. In altre parole, Confindustria e sindacati si spartiscono le poltrone nel cda. Gli incarichi sono solitamente retribuiti in maniera modesta, ma le somme amministrate sono spaventose. La riforma del 2007, che ha fatto schizzare le adesioni introducendo l’automatismo del conferimento del Tfr al fondo di categoria, non ha prodotto i risultati allora sperati dal governo, ma ha comunque fatto raddoppiare gli iscritti, con un colpo di acceleratore proprio dei fondi negoziali, che rappresentano il fortino della triplice sindacale. Metà di quelli preesistenti, infatti, appartiene al mondo della finanza, dove tengono banco le sigle autonome, mentre buona parte dell’altra metà è rappresentata da fondi dedicati ai quadri e ai dirigenti. Alla fine del 2013, secondo i dati Covip, gli iscritti complessivi ai fondi pensioni ammontano a 6,2 milioni. Di questi circa 2 milioni aderiscono ai fondi negoziali e 655mila a quelli preesistenti. I flussi annui di risorse (comprese quelle volontarie extra Tfr) hanno prodotto gruzzoli non indifferenti. I negoziali hanno in pancia 34,5 miliardi, i preesistenti (più vecchi) circa 50 miliardi. A gestire gli investimenti di queste risorse non ci sono manager esperti di finanza, ma vecchie volpi del sindacato che spesso collezionano più di un incarico.

Uno dei fondi negoziali più grande è quello dei metalmeccanici Cometa: masse amministrate 8,1 miliardi. Ebbene nel cda siedono Roberto Toigo, segretario nazionale Uilm e Francesco Sampietro, sempre della Uil. Giancarlo Zanoletti e Roberto Schiattarella, della FimCisl. Il sindacato autonomo Fismic ha invece nominato il broker assicurativo Luca Mangano, mentre la Cgil ha piazzato alla vicepresidenza il professor Felice Roberto Pizzuti, vicinissimo alla Fiom nonché candidato alle europee per Tsipras. Stessa solfa per Fonchim, altro colosso con 4,2 miliardi di risorse gestite. Anche qui la vicepresidenza è Cgil, con Roberto Arioli della Filctem. Poi ci sono Paolo Bicicchi e Mariano Ceccarelli della Femca Cisl, Salvatore Martinelli e Massimiliano Spadari ancora della Filctem, Eliseo Fiorin, segretario nazionale Ugl tessili e Fabio Ortolani, segretario confederale Uil.

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Il Foglio

Il giorno prima dicevano che sarebbe stato necessario “benaltro”. Il giorno dopo affermano con la stessa sicumera che bisognava fare “di più e di meglio”. Gli indiziati sono i soliti: confindustriali, sindacati, opinionisti vari. Molti fra loro – non tutti, ben inteso, infatti Repubblica ieri per esempio titolava a tutta pagina “Articolo 18, vince Renzi” – non sembrano essersi accorti che due sere fa, alla direzione nazionale del Partito democratico, il segretario del principale partito della sinistra ha sostenuto che “l’imprenditore ha il diritto di licenziare”, lo ha ripetuto ieri in inglese al Washington Post nel caso non si fosse capito, e il partito in questione ha votato compatto una mozione per riformare di conseguenza il mercato del lavoro italiano. La minoranza ha fatto la minoranza, perfino in maniera meno granitica e originale di quanto ci si potesse attendere da politici così esperti.

Ma il punto resta: se la delega sarà approvata in Parlamento, e se il governo scriverà i decreti promessi, il mercato del lavoro sarà un po’ più flessibile di prima e perfino l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – concentrato legislativo di un’ideologia ormai fuori dal tempo – sarà completamente superato per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Sia chiaro: non fossero esigenti per definizione, i commentatori – noi inclusi – avrebbero poco da commentare. Ma dopo che per mesi si è tentato di sviare l’italiano medio, sostenendo che scalfire ancora l’articolo 18 era poi piccola cosa, diventa incomprensibile la puntigliosità riformatrice e simil-thatcheriana del giorno dopo. Proprio adesso che, a riforma politicamente acquisita, sarebbe perfino legittimo parlare di “benaltro” – dal welfare alla contrattazione aziendale – e su questo incalzare il governo.

Un sindacato fuori dalla realtà

Un sindacato fuori dalla realtà

Gaetano Pedullà – La Notizia

L’Italia non funziona perché buona parte della classe dirigente è completamente dissociata dalla realtà. Abbiamo parlamentari che bloccano le Camere settimane intere per votare due giudici della Corte costituzionale mentre il Paese segna uno dopo l’altro tutti i record negativi di Pil, disoccupazione, disperazione. Non ci mancano i magistrati, che nel disastro della giustizia hanno dedicato anni di lavoro e spaventose risorse pubbliche solo per processare Ruby e gli affari di Berlusconi sotto le lenzuola.

E che dire del sindacato, con la signora della Cgil Camusso che ieri l’ha sparata più grossa del solito, sostenendo che attorno ai sindacati e alla loro battaglia per salvare l’articolo 18 sta crescendo il consenso. Quale consenso signora? E sulla base di quale riscontro afferma quello che dice? Forse domani arriverà il soccorso amico di qualche sondaggista, ma se guardiamo i numeri che contano questi ci dicono che gli iscritti alle confederazioni sono al minimo storico. Numeri veri – come il 40% dei consensi arrivati a Renzi per fare le riforme o il 44% di giovani disoccupati frutto delle politiche imposte dai sindacati – contro numeri sognati. Un sindacato fuori dal mondo.