sovranità

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Davide Giacalone – Libero

Imbrogliare e mentire sulla storia nazionale è un antico vizio italiano. Piuttosto che fare i conti con la realtà dei fatti si è ripetutamente preferito travisarli. Prima che José Luis Rodriguez Zapatero, ex capo del governo spagnolo, venga in Italia a raccontarci quel che ci siamo già detti, quindi, vale la pena rimettere in funzione la bussola della storia. Possibilmente senza usare i magneti delle tifoserie per truccarla. La sorte dei governi italiani è stata determinata da influenze o decisioni prese al di là dei nostri confini? Si può rispondere oscillando da un irragionevole «no», a un ecumenico «sì, ma è normale che sia così», fino a un estremo «sì, fu un colpo di Stato». Esercizio inutile. Il nostro dovere è prima di tutto sapere, poi capire. Anche per leggere meglio quel che accadde dopo.

Nella seconda metà del primo decennio del secolo appena iniziato, l’Italia è finita due volte nel mirino di interessi a noi contrapposti. La prima è la più istruttiva e dice molto della seconda: il gas russo. Un pezzo dei governi europei e quello statunitense non hanno mai digerito il rapporto con i russi per la fornitura di gas. Troppo lungo approfondirne qui i passaggi, sta di fatto che i più esposti eravamo noi e i tedeschi. Con una enorme differenza: quando Gerhard Schroder prende la guida del gasdotto Nord Stream AG, designato dai russi di Gazprom, si accendono polemiche in varie parti del mondo occidentale ma l’argomento non viene utilizzato come arma di polemica politica interna tedesca. Anzi: Angela Merkel inaugurerà l’opera. Da noi accadde l’esatto contrario.

Ci torno, prima però è bene ricordare un dettaglio: coincide con quel periodo la pubblicazione della prima foto di Berlusconi con sulle ginocchia una squinzia, ritratti nella casa di Sardegna. Nel 2011, passaggio cui si riferisce Zapatero, molte cose precipitano. Veniamo trascinati (marzo) in una dissennata guerra di Libia, voluta da francesi e inglesi. Poi si scatena la speculazione contro i debiti sovrani (estate). E qui, scusate, ma Zapatero non ci può rivelare altro che succosi particolari, perché la sostanza noi la scrivemmo durante, non dopo: la polemica degli spread, intesi come indici di inaffidabilità governativa, era da trogloditi o da imbroglioni. Lo documentammo e i fatti confermarono.

Ma mentre si usava quell’artiglieria per colpire il governo, è arrivata la bomba. Tale fu la costituzione del fondo salva Stati (luglio). Cosa giusta, salvo che francesi e tedeschi vollero e ottennero che ciascuno partecipasse in percentuale del proprio Pil, mentre gli italiani chiesero e non ottennero che si partecipasse in ragione dell’esposizione delle proprie banche con il debito greco. Era chiaro che la prima formula ci avrebbe portato a pagare per salvare le banche francesi e tedesche. Era ragionevole, quindi, che altri volessero fiaccare la forza del governo italiano. Ma non sarebbe stato possibile se in Italia non vi fosse stato un berniniano schieramento di quinte colonne.

Così nacque il governo Monti (novembre). Ciò va ricordato per evitare di supporre che la partita fosse d’antipatia personale, o di supposta impresentabilità. Per questo va anche ricordato che il governo in carica (Berlusconi) era già gravemente crepato. Va ricordato che il centro destra ha votato a favore di tutti i passaggi governativi successivi (salvo poi dissociarsi). Producendosi poi la situazione odierna, con una coalizione di governo che nessuno ha mai votato (spaccato il centro destra e destituito Bersani). E va anche ricordato che se le serate gaudenti non furono la causa di quella crisi, ben altrimenti ricca d’interessi, furono comunque lo strumento utilizzabile. Quindi una colpa.

Sovranità senza sovrano

Sovranità senza sovrano

Davide Giacalone – Libero

Mario Draghi continua a ripetere che è impossibile sperare che la ripresa europea si basi solo sulle iniziative della Banca centrale. Che è necessario cedere sovranità per creare qualche cosa che somigli a un governo europeo. E ha ragione, tanto più che i fatti pongono davanti all’alternativa: cedere sovraninà per riforme e istituzioni condivise, o cederla perché travolti dalla propria inettitudine. Le alzate d’ingegno e le presunte fughe non ne restituirebbero neanche un grammo, semmai farebbero salire il conto da pagare.

La Bce può fare la sua parte, e la sta facendo, ma non può e non deve sostituirsi ai governi e alle istituzioni dell’Ue. Draghi ripete, giustamente, che la moneta unica chiede più integrazione, cosa che incontra una resistenza soprattutto francese. Taluni credono di sapere che l’euro nacque a freddo e dal nulla, invece ha alle spalle gli anni del Sistema monetario europeo e dei cambi (quello Sme cui si oppose il Pci, con le parole del non europeista Giorgio Napolitano, perché non voleva l’Europa indipendente e sovrana). Draghi, però, continua a non ricevere risposte convincenti. La Bce c’è stata e c’è. Quando lo sostengo c’è chi obietta: e che cosa ha fatto, per l’Italia? Molto: ha messo le banche in condizione d’acquistare titoli del debito pubblico e li ha a sua volta comprati, riducendo efficacemente il divario dei tassi d’interesse e l’affanno delle aste. Ora prova a pompare denaro destinato al credito, verso imprese e famiglie. Ha fatto molto, ma ha agito isolata. Ha invocato il coerente concorso di Ue, governi e parlamenti, ma questi fanno finta di non sentire.

Il governo italiano ha inviato alla Commissione una legge di stabilità fondata su dati irreali. Lo sa chi l’ha spedita e lo sa chi l’ha ricevuta. Allora perché la approvano, come raccontano tutti i giornali, anziché restituircela con sdegno? Intanto perché ne chiesero e ottennero delle correzioni, poi perché non l’hanno approvata, limitandosi a dire che i conti li faremo a marzo, quando non torneranno. Più in generale, però, non ce la tirano dietro perché i nostri numeri sono sì sballati, ma anche quelli degli altri. A cominciare da quelli della Commissione.

Il celebre piano Juncker ha finalmente preso corpo numerico, confermando i peggiori sospetti. 16 miliardi diventano 21 con i 5 della Banca europea degli investimenti; cosi creato, il Fondo europeo per gli investimenti strategici consentirà alla stessa Bei di fornire prestiti per il triplo del capitale, arrivando a una disponibilità di 63 miliardi (e già qui siamo fra gli atti di fede); dai 63 si passa a 315 grazie all’entusiasmo che vedrà moltiplicare tutto del quintuplo, con i capitali privati che vorranno partecipare alla festa (e qui si entra fra i misteri della fede, o negli empirei del raggiro). Se poi andate a leggere in cosa quei soldi dovrebbero essere investiti, trovate roba che o è profittevole in sé, quindi dovrebbe essere lasciata al mercato, o è spesa pubblica classica, che ammesso possa essere generatrice di profitto lo sarà solo dopo anni. La testa di questi politici funziona ancora immaginando spesa pubblica che sostiene i consumi, dimenticando che in questi anni di crisi il debito pubblico europeo è cresciuto in modo impressionante (il nostro, già enorme, meno di quello altrui). Quanto tempo ancora pensano che una zona ricca possa continuare a vivere al di sopra dei propri gia grandi mezzi?

L’azione di accompagnamento che la Bce reclama ha caratteristiche diverse. Servono riforme che sciolgano il blocco muscolare e celebrale di società che hanno preteso di abolire il rischio, così condannandosi alla paura del futuro. E servono tagli alla spesa pubblica corrente, compresi tagli al costo del debito (e gli unici visti vanno a merito della Bce), che consentano di far scendere la pressione fiscale. La Bce lavora per un cambio più favorevole, tassi bassissimi e inflazione più tonica. I governi dovrebbero lavorare per meno fisco e più produttività, non attendere i frutti dell’azione di Francoforte per ciucciarne i risultati e sprecarli come impareggiabilmente sanno fare.

Il perimetro della sovranità

Il perimetro della sovranità

Antonio Polito – Corriere della Sera

Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire. Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?

Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.

Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno. Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.

Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro. Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.