spending review

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Mariastella Gelmini – Libero

Le previsioni sull’economia italiana segnalano un autunno di burrasca e le parole del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, devono essere motivo di riflessione per tutti. Non sono che l‘ultimo campanello di allarme. La prospettiva di una manovra autunnale è reale, è particolarmente preoccupante alla luce dell’affaticamento economico del Paese. Dopo il governo Berlusconi, l’ultimo scelto direttamente dagli elettori, i tre successivi hanno fatto manovre per quasi 90 miliardi di imposte. Nello stesso periodo prima l’allora ministro Giarda, poi un manager di valore come Enrico Bondi, quindi Cottarelli, che ha guidato il dipartimento di finanza pubblica del fondo monetario, hanno lavorato al cantiere della «spending review».

Il bilancio dello Stato é una cosa tremendamente complicata, ci vuole una vita di studi per venirne a capo, molto spesso ministri e governi sono spettatori passivi rispetto alle dinamiche di spesa. Per questo, è stato giusto ricorrere all’esperienza di tecnici preparati. Ma il risultato, davvero poco confortante, è che se alcuni tagli, peraltro minimi, alla spesa sono stati individuati, sin ora non e stato tagliato neanche un centesimo. L’Italia ha una spesa pubblica, al netto degli interessi, di poco superiore al 50% del Pil. Ogni volta che sentiamo interessi di parte chiedere più risorse, ogni volta che ascoltiamo autorevoli colleghi parlamentari tuonare contro il pareggio di bilancio e il fiscal compact, ogni volta che qualcuno paventa l’ipotetica «ritirata dello Stato» che avrebbe avuto luogo negli scorsi anni, ricordiamoci di questo dato di fatto. La spesa pubblica supera la metà del prodotto interno lordo: neanche nell’Egitto del faraoni!

La Germania ha una spesa pubblica che nel decennio 2002-2012 si è sempre attestata attorno al 44,7%, misurata. In più, negli ultimi anni, quel Paese è vistosamente cresciuto, cosa che noi non abbiamo fatto. Potrebbe quindi permettersi, per così dire, più spesa pubblica. Il che è invece, oggi, al di là delle nostre possibilità.

Interventi incisivi e fruttuosi sulla spesa pubblica vanno fatti «per cassa», devono cioè produrre benefici immediati in termini di deficit e, nel medio termine, sul debito. Quando ero ministro dell’Istruzione sollevai il problema di uno squilibrio di spesa in quel settore. A parte la scarsità di risorse, posi una questione di fondo rimasta ancora senza risposta: quale tipo di istruzione e di crescita civile può assicurare un Paese se l’80% delle risorse se ne vanno in stipendi e soltanto il 20% in infrastrutture, manutenzione e investimenti? Quella situazione non riguardava e non riguarda soltanto quel dicastero. Si pensi alla Sanità dove, con l’eccezione di alcune Regioni del Nord, la spesa è assorbita per il 75% dagli stipendi (nel Sud si arriva fino all’85-90%).

Renzi pensa alla staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Si è chiesto a carico di chi andranno le maggiori spese? Quali saranno i costi? Per ridurre sensibilmente la spesa pubblica, vanno almeno chiarite due questioni di metodo e di merito, sulle quali purtroppo nessuna rassicurazione ci giunge da questo governo.

In primo luogo, proprio per quanto scrivevo poc’anzi, per ridurre la spesa pubblica serve una buona riforma della Pa. Una buona riforma della Pa è una riforma che ne riduce i costi. L’attuale esecutivo parla di riforma della Pubblica Amministrazione eludendo sapientemente il tema dell’impatto economico. È probabile che la nostra Pa abbia bisogno di assorbire nuove persone e nuove competenze. Ma in assenza di un disegno di razionalizzazione, non si tratta di altro che di un disegno fanfaniano di «occupazione» dello Stato.

In seconda battuta, la spending review non può prescindere da un’altra questione, alla quale il governo Renzi ha messo la sordina: le privatizzazioni. È giusto e opportuno che il presidente del Consiglio ascolti esperti ed economisti, ma la riduzione della spesa è una questione eminentemente politica. La domanda alla quale rispondere è: quanto e quale Stato vogliamo? Che cosa desideriamo che faccia, lo Stato? Che cosa altri possono fare meglio di lui? E sotto questo profilo, è del tutto illogico considerare revisione della spesa e privatizzazioni come questioni del tutto indipendenti l’una dall’altra.

Le riforme istituzionali sono importanti, noi siamo i primi a crederlo, è un merito di Renzi averle messe al centro del dibattito. Ma il silenzio del presidente del Consiglio, altrimenti assai loquace, su questi temi ci lascia sospettare che egli non abbia un pensiero in merito. O perlomeno che non abbia una maggioranza, in grado, quel pensiero, di seguirlo e sostenerlo.

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Stop all’austerità, sì alla crescita: è il motto dei referendum per abrogare parti della legge che attua il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Iniziativa per più versi singolare: non è impresa da poco raccogliere le firme; è controverso che sia “referendabile” una legge approvata con speciali modalità; il pareggio di bilancio è da sempre una bandiera della destra e tra i proponenti ci sono persone che della destra sono stati esponenti di rilievo. E soprattutto si vogliono togliere obbiettivi di bilancio più gravosi di quelli europei: ma non era l’Ue a strangolarci?
Non è austerità il pareggio di bilancio: anche la nuova formulazione, dopo che quella del vecchio art. 81 aveva consentito il formarsi di uno dei maggiori debiti al mondo, consente elasticità per tener conto del ciclo. Il trattato di Maastricht ne fissa il limite nel 3% del Pil, oltre scatta la procedura di infrazione: rispettare quel limite di elasticità viene chiamato austerità. Quanto al debito, doveva essere il 60% del Pil, siamo a più del doppio, abbiamo firmato un trattato che ci impegna a rientrare in 20 anni: rispettare quell’impegno è chiamato austerità. Certo è diverso ripagare i debiti quando l’inflazione è al 2% e la crescita al 3% reale, o quando inflazione e crescita sono entrambi prossimi a zero. Quindi all’inflazione ci pensi la Bce, alla crescita i governi dell’Europa, rendendosi conto che questa è una crisi da domanda, da cui è possibile uscire con interventi che la stimolino: non riconoscere questa soluzione è “austerità”. Ma siccome fare debiti nuovi per meglio pagare quelli vecchi è un’idea che i creditori potrebbero trovare stravagante, si cerca di trovare come, e a spese di chi, sforare sui vincoli senza far sorgere dubbi. Così Paolo Savona sul Sole 24 Ore, considerando che per noi sarebbe un suicidio obbligarsi a decenni di avanzi primari, propone che l’Italia abbatta il debito vendendo cartelle di una maxiprivatizzazione da 400 mld. Jean Claude Juncker, per avere i voti socialdemocratici, promette di spendere 300 mld in infrastrutture. Ma le privatizzazioni dànno soldi veri solo se chi compera può liberamente disporre dei beni acquistati; per le infrastrutture bisogna che i soldi spesi ritornino come profitti.

È un problema di domanda? In Europa, può darsi; da noi, fuor di dubbio che c’è (soprattutto) un problema di offerta. È da prima dell’euro che abbiamo incominciato a perdere competitività: ci stupiremmo se i soldi dello stimolo venissero spesi a comperare Bmw anziché Thesis? Il divario di produttività verso l’estero varia da settore a settore, con picchi di eccellenza e diffusi ritardi, ma quella totale dei fattori grava su tutta la nostra economia, e dipende molto dalla qualità dei servizi pubblici, nazionali e locali. Misure anticicliche potranno esserci utili, riforme strutturali sono essenziali. Non possiamo confondere. Invece c’è chi ha interesse a farlo: perché così i lamenti per i sacrifici che inevitabilmente le riforme comportano vengono a fare tutt’uno con quelli per l’austerità; e perché gli stimoli per contrastare l’austerità possono essere dirottati a evitare riforme.
Un anno fa, l’Istituto Bruno Leoni aveva pubblicato un’idea per uno stimolo, firmata da Natale D’Amico e Alberto Mingardi. Uno schema preciso: un taglio per tre anni di fila delle imposte sui redditi, finanziato con privatizzazioni di pari entità, 30 miliardi l’anno per 3 anni. Nessuna modifica all’elevato grado di progressività del sistema tributario. Dopo tre anni, l’entità da rifinanziare non sarebbe più di 30 mld l’anno: i soldi, ancor più se non intermediati dallo stato, ma messi direttamente nelle mani dei cittadini, avrebbero prodotto benefici per l’economia e per l’erario, come sostengono i promotori degli stimoli. Nel frattempo ai proventi da dismissioni dovrebbero essersi aggiunti anche i risparmi da spending review. Tanto privatizzazioni da 30 mld per tre anni? Il doppio dell’1% previsto dal governo, ma meno di un quarto dei 400 di Savona. Ci saranno da modificare assetti societari, contratti di lavoro, disposizioni di legge. Garantire la contemporaneità tra ricavi e spese sarà impossibile: ma un programma serio e dettagliato troverebbe orecchie attente. Il vero problema è politico: è sostenibile, è credibile un impegno che si estende su un arco di tre anni? Appare evidente come le riforme istituzionali che riducano le tortuosità del processo legislativo e rafforzino l’esecutivo sono condizione indispensabile per le riforme di struttura. E per superare l’austerità.

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Niente di personale: almeno di questo siamo certi, nel caso in cui Carlo Cottarelli non dovesse fare marcia indietro rinunciando al proposito maturato negli ultimi tempi. E che avrebbe già anticipato al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Ovvero, quello di lasciare l’incarico dopo l’estate. Ottobre, è la data prevista.

Che Renzi non avesse con il commissario alla spending review la medesima sintonia di Enrico Letta, il quale lo aveva nominato, non era affatto un mistero. Del resto, a dispetto delle voci circolate contestualmente all’arrivo dell’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, che indicavano Cottarelli come candidato a prendere le redini del Dipartimento economico della presidenza del Consiglio, per lui i mesi trascorsi dall’insediamento del nuovo governo indiscutibilmente non sono stati i più facili. E certo non per la responsabilità del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, con il quale il commissario ha condiviso una lunga militanza negli organismi internazionali, a rappresentare il nostro Paese.

Gli ostacoli che ha dovuto affrontare sono stati fino in fondo politici. Probabilmente non del tutto imprevisti. Ma non nelle proporzioni e nelle forme che aspettava di trovarsi davanti quando è rientrato da Washington, dopo 25 anni passati al Fondo monetario internazionale, per occuparsi delle rogne italiane. Intanto un approccio tutto diverso da parte di Renzi rispetto a Letta, nei confronti del capitolo «tagli alla spesa pubblica» e dei compiti di Cottarelli. Un approccio che ha avuto l’effetto di ridimensionare oggettivamente il ruolo del commissario: declassato da una specie di autorità indipendente incaricata di individuare non soltanto gli sprechi e le diseconomie interne alla Pubblica amministrazione ma di proporre anche i tagli alle voci di spesa più ingombranti, a un semplice consulente esterno. Per quanto, ovviamente, autorevole: ma comunque un corpo estraneo alla stanza dei bottoni. Condizione diventata sempre più palpabile man mano che il tempo passava. Ed evidentemente sempre meno sopportabile.

Poi alcuni fatti che parlano da soli. Ieri su questo giornale Francesco Giavazzi si è opportunamente chiesto dove sia finito il lavoro di Cottarelli. Aggiungendo che il commissario alla spending review dovrebbe rendere coraggiosamente noto dove, come e quanto si dovrebbe tagliare, mettendo il governo di fronte alla responsabilità di non farlo. Sappiamo, perché l’ha scritto prima ancora sul «Corriere» Riccardo Puglisi, uno dei partecipanti al gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon a cui Cottarelli aveva chiesto un rapporto sui costi della politica, che da marzo sono pronte 25 relazioni su altrettanti segmenti della spesa pubblica preparate da team di esperti. Tutti dossier, immaginiamo ustionanti, che il commissario avrebbe già voluto pubblicare ma che invece restano nei cassetti. E la ragione è semplice: Cottarelli non ha ancora avuto il permesso del governo per renderli noti. Perché dopo tanti mesi non sia arrivato il via libera di Palazzo Chigi si può soltanto ipotizzare. Forse le conclusioni contenute in quei rapporti non sono del tutto condivise? Forse. Il che ci starebbe pure, ma è improbabile che il commissario, e lo stesso governo, non l’avessero calcolato.

Di sicuro la mancata pubblicazione dei 25 dossier ha reso ancora più evidenti, se ce ne fosse stato il bisogno, le difficoltà con cui Cottarelli si deve confrontare. A cominciare con quella forse più importante. Va benissimo intervenire sulle ottomila aziende pubbliche: è un buco nero gigantesco come dimostra l’esistenza di 2.761 società con più amministratori che dipendenti. Ma come si fa a individuare tagli per 17 miliardi di euro, almeno di tanto la spesa pubblica dovrebbe essere ridotta nel 2015, se non si possono nemmeno sfiorare i due capitoli più grossi? La sanità è uscita di fatto dalla spending review con il patto della Salute: un accordo fra il governo e le Regioni. Mentre le pensioni, per esplicita volontà dell’esecutivo, non ci sono mai entrate. L’agenzia «Adn Kronos» ieri ha fatto sapere che Cottarelli «continua a lavorare, come sempre, a stretto contatto con i suoi interlocutori naturali». E che «potrebbe presto affidare al suo blog, fermo all’ultimo intervento del 7 luglio, un post per tornare a evidenziare la necessità di tagli selettivi e non lineari, con riferimento anche al caso del pensionamento dei quota 96, appena affrontato nel decreto P.a.». Proprio le pensioni, guarda un po’… Poche ore dopo, sul blog c’era l’intervento annunciato dall’agenzia di stampa che ha subito suscitato reazioni politiche. Forse la sua ultima testimonianza (nemmeno questa autorizzata?) da commissario, magari prima dell’annuncio ufficiale del divorzio. Con il risultato che il prossimo taglio alla spesa pubblica frutto del lavoro di Cottarelli sarà il suo stipendio.

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Federico Fubini – La Repubblica

La scure era arrivata in un passaggio del decreto Irpef del 24 aprile scorso, all’articolo 9, comma 5. Senza sconti per nessuno: «Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35». In altri termini, bisognava chiudere una volta per tutte con la vecchia abitudine delle 34mila piccole centrali d’acquisto distribuite per Province e Comuni d’Italia e capaci di distribuire a pioggia appalti, contratti pubblici di fornitura, incarichi di consulenza per conto delle amministrazioni pubbliche. Questa riforma era, e resta, un architrave della spending review e dunque della legge di Stabilità da presentare dopo l’estate: niente più piccole commesse pulviscolari dai costi spesso superiori al necessario, ma solo operazioni uniche per gli uffici pubblici condotte attraverso grandi centri d’acquisto specializzati. Più scrivanie, computer, stampanti e benzina per le giunte comunali si comprano allo stesso tempo, tramite un unico acquirente, meno le si paga.

Fin qui la teoria. Nella pratiche invece le migliori intenzioni del governo si sono già arenate sulla resistenza del partito dei sindaci, che è riuscito con un’abile azione di lobby a rinviare la riforma delle centrali d’acquisto. È avvenuto un po’ alla chetichella lo scorso 10 luglio, ma in una sede altamente formale: presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, nella conferenza tra Stato, città e autonomie locali. L’incontro, presieduto per il governo dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, era stato preceduto da una mossa dell’Anci, l’associazione dei Comuni d’Italia guidata da Piero Fassino. L’Anci ha scritto al governo e ha fatto presente che la riforma delle centrali d’acquisto, che doveva entrare in vigore un mese fa, è inapplicabile. La tesi è che i Comuni non capoluogo di provincia non avrebbero avuto tempo di coalizzarsi in grandi centrali appaltanti. In questo caso la legge prevederebbe che si riforniscano di ciò che serve presso la Consip, la società del Tesoro che funge da maxi acquirente unico per lo Stato a prezzi molto competitivi. Purtroppo però per l’associazione dei sindaci neppure questo è possibile: «Consip e le altre principali centrali d’acquisto non coprono tutte le esigenze degli enti locali».

Si può cercare di immaginare quale specifico tipo di fotocopiatrice o sedia di ufficio, che la Consip non può fornire, richieda un certo Comune da 800 abitanti sull’Appennino tosco-emiliano o sulla Sila. Ma la sostanza non cambia: la conferenza Stato-città ha già ottenuto il primo rinvio della riforma appena varata. L’aggregazione dei centri di spesa viene posticipata di sei mesi per gli acquisti di beni e servizi, di un anno intero per gi appalti sui lavori pubblici. I Comuni anche più piccoli potranno continuare a determinare da soli le proprie commesse, ovviamente pagando più del necessario, presumibilmente premiando imprenditori amici e grandi elettori dei sindaci. Le centrali uniche d’acquisto dovevano debellare i sistemi clientelari locali e ridurre gli sprechi di denaro del contribuente, ma per ora non succederà.

La marcia indietro del governo c’è stata. In teoria l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone non avrebbe dovuto concedere i codici per eseguire gli appalti ai Comuni che non si fossero adeguati alle maxi centrali d’acquisto. Ma anche questo divieto è stato congelato. Non è un segnale positivo per la finanza pubblica. Il passaggio da 34mila a sole 35 centrali pubbliche d’acquisto in Italia dovrebbe far risparmiare almeno il 10% dei circa 130 miliardi che lo Stato ogni anno spende in acquisti di beni o servizi e in appalti. Per certe categorie di merci – arredamento, computer, convenzioni telefoniche – comprare tramite Consip può far risparmiare fino all’85% del costo. Ma soprattutto la riforma delle centrali d’acquisto era un esame per misurare la capacità del governo di avanzare sulla spending review contro la resistenza dei vari gruppi d’interesse. La legge di Stabilità del prossimo autunno, quanto a questo, prevede tagli di spesa per circa 14 miliardi. E a giudicare dalle prime mosse, non sarà una passeggiata.

Riforme radicali per la svolta in Europa

Riforme radicali per la svolta in Europa

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell’area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l’inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell’offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell’area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito. Alla fine del 2013, i consumi privati dell’intera area euro erano del 2% sotto i livelli raggiunti a fine 2007; gli investimenti privati erano sotto del 20%; solo le esportazioni sono salite di quasi il 10% negli ultimi sei anni. Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell’area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l’emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell’arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull’espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell’operazione: l’espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l’aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso. E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie. Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un’ipotesi del genere nell’area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l’azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l’intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l’aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana? Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt’altro che scontata, perché l’assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l’anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c’è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.

Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata. In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile. E le politiche dell’offerta per ridare competitività all’economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell’economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive. In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l’area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.

Deregulation, strada obbligata

Deregulation, strada obbligata

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore

La norma sulla deregulation inserita ieri a sorpresa nel decreto competitività può ridare fiato a un tema altalenante della politica italiana, eppure decisivo per riprendere la strada della crescita: le liberalizzazioni. Non bastano, ovviamente, singole norme, per quanto promettenti, come quella approvata ieri al Senato, per produrre effetti concreti sull’economia. Occorre invece una politica costante e determinata che si esplichi, da subito e nel tempo, su entrambi i fronti delle liberalizzazioni: la cancellazione brutale di norme e barriere che permettono oggi alla burocrazia di frenare ogni attività economica; la rottura dei monopoli di società pubbliche che, soprattutto in ambito locale, alimentano sprechi e inefficienze, impediscono lo sviluppo di una imprenditorialità competitiva, mantengono i servizi al pubblico e alle imprese a un livello di mediocre qualità.
La realtà non corrisponde, finora, a questi auspici: sul primo versante, quello delle semplificazioni, si è andati avanti, da anni, sempre con una politica dei piccoli passi che ha allontanato, anziché avvicinare, il “dividendo” di liberazione dalla burocrazia cui avrebbero diritto imprese e cittadini.
Anche i sondaggi recentemente fatti dal dipartimento della Funzione pubblica dicono che su fisco ed edilizia la presenza dello Stato resta soffocante e fortemente dannosa per lo sviluppo. Qui un doppio banco di prova il governo ce l’ha: la delega fiscale, ammesso che si superino le timidezze dimostrate finora, e il decreto “sblocca-Italia” di fine mese. Ma servono spallate, non piccoli passi e altre promesse.

E spallate servono anche sul fronte delle società pubbliche. Ci sta lavorando il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, e il suo obiettivo – quando parla di riduzione del 90% delle 10mila aziende municipalizzate – è corretto. Incentivi? Gare per aprire quei mercati dominati dall’in house? Chiusure tout court di aziende decotte? Il mix delle soluzioni può essere ampio e tutte le strade vanno percorse. Certamente, però, queste misure devono uscire dalla sfera degli studi e delle proposte tecniche e diventare atti concreti della politica.
P.S.: Non mancano, ancora una volta, le contraddizioni nel passaggio parlamentare del decreto competitività che oggi dovrebbe avere l’approvazione del Senato. Nello stesso testo che riapre il capitolo deregulation è entrato un emendamento, proposto dai relatori e avallato dal Governo, con cui venivano sottratti 410 milioni al fondo per i pagamenti dei debiti della Pa con le imprese. Una norma francamente incomprensibile, a due giorni dalla firma del protocollo tra ministero dell’Economia e imprese scritto per garantire il pagamento di tutti gli arretrati entro il 21 settembre, come ha ribadito ieri anche il premier.

Quanto è timido Renzi se si parla di economia

Quanto è timido Renzi se si parla di economia

Alessandro De Nicola – l’Espresso

Uno dei filosofi contemporanei più apprezzati dei nostri tempi, Linus, così suggeriva ad un meditabondo Charlie Brown oppresso, come sempre, da mille preoccupazioni: «Il miglior modo per risolvere un problema è evitarlo». Preparatissimo su molteplici aspetti della cultura pop della nostra era, il premier Renzi dà l’impressione di aver eletto tale massima filosofia a faro illuminante della sua azione in politica economica. Egli infatti dimostra risolutezza quando si tratta di vincere primarie, detronizzare Letta, sfidare Grillo, i sepolcri imbiancati del suo partito o la Cgil e financo nel far approvare riforme elettorali e costituzionali di dubbia efficacia. Poi, quando si devono prendere decisioni relative al nodo fondamentale della vita italiana, il prolungato declino economico, è vago o parla d’altro.

Prendiamo la bagarre sulla “flessibilità” inscenata in Europa. È stata una mossa sbagliata sia di principio sia tatticamente. L’Italia non ha alcun bisogno di interpretare in modo “flessibile” trattati e direttive europee. Già lo fa: non rispetta da anni gli obiettivi di deficit di bilancio che comunica alla Commissione; non riduce il debito pubblico e se ne fa un baffo della famosa lettera Trichet-Draghi che elencava minuziosamente le riforme necessarie. In realtà, l’unica regola cui faticosamente aderisce è quella del rapporto deficit-Pil del 3% imposto dal Trattato di Maastricht. Inoltre, le regole esistono per essere rispettate non violate, soprattutto in Europa, ove a una moneta unica non corrisponde un solo governo e quindi è necessario un minimo di convergenza tra le politiche economiche dei vari paesi. Infine, la deroga alla rigidità può forse (molto forse) chiederla l’alunno che ha fatto i compiti a casa e chiede un giorno di vacanza in più, non quello con la pagella ancora insufficiente. Risultato? Un inevitabile cul-de-sac nel quale l’Italia è stata imbrigliata e frenata dall’abilissima Merkel e bersagliata dai commissari più rigoristi del Nord Europa.

Il bello è che l’esecutivo non è a corto di idee e soluzioni. La spending review dell’invisibile (e stoico, verrebbe da dire) Cottarelli, che poteva basarsi anche su quanto elaborato dai precedenti commissari Giarda e Bondi, è pronta. E comunque basterebbe aprire un po’ di libri divulgativi, articoli di giornale e siti web di think-tank per trovare abbondanza di soluzioni.

L’Autorità Antitrust ha preparato una relazione con gli interventi necessari da inserire nella legge sulla concorrenza per liberalizzare e rendere più competitiva l’economia. Persino all’interno del governo c’è chi ha messo nero su bianco una lista di ragionevoli priorità. Lo ha fatto il viceministro Calenda il quale, prendendo spunto dall’immaginifico “Business Plan” lanciato da Renzi, ha elencato una serie di mosse concrete, a partire dal dimezzamento dell’Irap, l’agenda digitale, privatizzazioni e liberalizzazioni, tutte nel segno della crescita.

Perché è proprio questo lo snodo vitale. Gli 80 euro che hanno contribuito alla vittoria elettorale del Pd sono stati una buona mossa per alleviare il disagio di ampie fasce della popolazione. Tuttavia, potrebbero rivelarsi inutili se la famiglia che li riceve perde il lavoro o non lo trova per i propri figli. In altre parole, la scelta che si impone al governo è questa: evitare di accontentare tutti o di ricercare la popolarità e concentrarsi sulla crescita economica. E per far ciò è necessario compiere scelte drastiche in favore dell’impresa che rischiano di essere impopolari: liberalizzazioni che scontentino corporazioni e potentati economici anche pubblici; taglio sostanzioso dell’Irap a fronte di una reale riduzione della spesa pubblica; flessibilità vera del mercato del lavoro sconfiggendo resistenze sindacali; corposa sburocratizzazione a costo di scontrarsi con ministeri, enti locali, tribunali amministrativi e ordinari.

Quando parla degli investimenti stranieri, Renzi dimostra di avere gli istinti giusti non cedendo alla retorica patriottarda e protezionista di destra e sinistra ed altrettanto si può dire quando sfida i burosauri della Pa. È ora che questi istinti si tramutino in azione di governo e il suo “Business Plan” diventi un Plan a favore del Business.

Degli sprechi il catalogo è questo

Degli sprechi il catalogo è questo

Milena Gabanelli – Corriere della Sera

Non si crescerà mai senza riforme, che vuol dire taglio agli sprechi e investimenti. Il tempo è poco e servono soldi subito. La strada più rapida sarebbe quella del rientro dei 300 miliardi depositati su conti esteri, con versamento delle relative somme evase. Però ci vuole la legge che sanziona pesantemente i grandi evasori, e che esiste in tutti i Paesi civili. Quella legge è pronta sul tavolo da due anni, ma ancora non vede la luce, per non aggredire troppo coloro che hanno impoverito il Paese e le loro aziende trasferendo gli utili su conti cifrati. E allora, oltre ai tagli giustissimi ai superstipendi, agli 80 euro in più per chi ha meno di 1.500 euro al mese, quali sono le idee concrete per evitare la chiusura di migliaia di aziende private, e quali le idee di rilancio delle aziende pubbliche sane?

Fra le tante dichiarazioni di Renzi su come uscire dalla depressione generale c’è anche quella di pensare a una Rai che contribuisca alla rinascita del Paese. Certamente avrà un piano, ma per ora si vuol prendere 150 milioni dal canone. La Rai ha 11.600 dipendenti, circa 4.000 collaboratori, un incalcolabile indotto, è il quinto gruppo culturale d’Europa, il tesoro è l’azionista. Dal canone incassa 1,7 miliardi (il 30% evade), 600 milioni dalla pubblicità, 20 milioni da altri servizi. I conti stanno così così. Tecnologicamente arretrata, mantiene un’infinità di strutture e canali, e nonostante i 1.700 giornalisti Rai News è fra gli ultimi siti web che vengono cliccati per informarsi. Il Direttore generale sta tentando di riorganizzare l’offerta, e intanto taglia su prodotto e stipendi: la falce si sta abbattendo con la stessa neutralità su meritevoli e fannulloni, incluse le partite Iva (cruciali in molti programmi) che si mettono in tasca poco più di 1.000 euro al mese. Tuttavia non basterà. Il premier ha suggerito di vendere qualcosa. L’unica «cosa»che si può collocare sul mercato senza tanto clamore è la società che possiede le torri di trasmissione, RaiWay, ma RaiWay è la Rai, ed ha un solo cliente, la Rai. Questo significa che il Direttore generale non può in autonomia decidere di quotare un pezzo di un’azienda pubblica (ovvero privatizzare) perché occorre seguire un iter parlamentare, e arrivare alla delibera del Consiglio dei ministri. Senza questo passaggio cosa si dovrà inventare sul prospetto informativo per avere l’ok della Consob?

Per tornare efficiente e competitiva, la Rai andrebbe «snellita», ma modifiche radicali saranno possibili solo se si interviene sulla riforma del 1975, meglio nota come lottizzazione. Ogni partito si è preso un canale, e poi ci ha infilato i suoi uomini scegliendo come unico criterio la «fedeltà», non all’azienda ma al partito. Risultato: proliferazione di strutture e incarichi dirigenziali che negli anni si sono stratificati. Non esiste nessuna tv pubblica al mondo dentro la quale convivono 3 telegiornali che hanno come referenti 3 diverse aree politiche; ognuno ha una sua struttura autonoma, i suoi direttori, i suoi inviati, il suo apparato tecnico, i suoi studi, il suo budget. Poi c’è Rai news 24, che non si può dire sia seguitissima, e le 26 sedi per l’informazione regionale. Bisogna «ottimizzare» si dice, ma da dove cominci se non metti mano al contratto di servizio con lo Stato? Le sedi regionali sono nate in funzione dei rapporti con le istituzioni locali. Un modello in crisi poiché le Regioni non rappresentano più il territorio, quindi bisognerà cambiare completamente la prospettiva in funzione delle macroaree. Si prende spesso a modello il miglior servizio pubblico al mondo, ovvero la Bbc, dove però i canali generalisti nazionali sono sostenuti solo dal canone: 174 euro, contro i nostri 113. Se tuttavia il modello a cui ispirarsi è Bbc, confrontiamoci. Le stazioni televisive locali inglesi sono 15, che interagiscono con quelle radiofoniche. I dipendenti sono circa 1.500 contro i nostri quasi 2.000. Le sedi occupano mediamente 2 piani (con una postazione fissa per il giornalista che si connette), la maggior parte sono in affitto. Noi occupiamo edifici giganteschi, quasi tutti di proprietà, con insostenibile spreco di spazi e costi. La loro sede più piccola è quella delle Channel Island: 2 dipendenti; da noi a Campobasso sono in 70. Nella sede di Cosenza lavorano 95 persone, ma il palazzo sembra quello di Viale Mazzini. Tutti i servizi finiscono dentro a Bbc One (la nostra Rai 1), con 4 brevi collegamenti al giorno. Inutile ribadire che la produzione locale del nostro servizio pubblico è perlopiù asservita ad assessori e governatori, che in caso di smantellamento di qualche sede si incateneranno pur di non vedere sottratta una telecamera a loro uso e consumo.

Gli «intrecci armoniosi» si metteranno di traverso anche in caso di accorpamento della lunga lista di strutture a cui hanno dato vita nel corso degli anni, e che pullulano di direttori e personale. Emblematica la genesi di Rai Vaticano. Nel ‘97 una decina di dipendenti occupavano due stanze per preparare gli eventi di Giubileo 2000. Senza budget, il team si relazionava con la Santa Sede per agevolare le reti nella produzione di programmi da trasmettere e vendere in tutto il mondo, e doveva essere operativo per 2 anni. Il Giubileo è finito da tempo, ma la piccola squadra si è trasformata in una struttura con i suoi funzionari e dirigenti per continuare a fare le stesse cose. Rai Expo è l’ultima creatura: una dirigenza, 45 dipendenti, una sede a Milano e una a Roma. Ma per raccontare il grande evento dell’alimentazione mondiale non bastano le sedi regionali e i programmi delle reti? A Expo finita (ottobre 2015) siamo sicuri che quella struttura non diventerà permanente? Anche Rai Quirinale, da postazione informativa è diventata nel tempo un elefantino, con un direttore e 35 dipendenti. Per fare cosa? Trasmettere il messaggio del presidente della Repubblica di fine anno e la cerimonia del 2 giugno.

Per «rinascere» sarà inevitabile eliminare sedi e strutture che non hanno nessun senso, ma non mandando a casa qualche migliaio di persone che hanno famiglia! L’azienda avrebbe bisogno di tutto il suo personale se venisse organizzata in modo produttivo; è pur sempre la più grande industria culturale del Paese! Ricordiamo inoltre che non ha ammortizzatori sociali, e sarebbe paradossale creare disoccupati per dare 80 euro in più a chi uno stipendio (anche se magro) ce l’ha. Certo occorrerà poi liberarsi dai burocrati e intervenire sui contratti collettivi di lavoro. Questo quadro però, determinato dalla politica e dalle sue scelte in 60 anni, non lo ribalta un Direttore generale da solo, senza il supporto del governo. Ricordiamo che la Bbc, così spesso invocata a chiacchiere, ha come unico criterio nella nomina della governance e della dirigenza la competenza e il merito. Anche in Gran Bretagna «il palazzo» interferisce e orienta, ma quando un dirigente sbaglia, va a casa senza tante storie. Per questo il mondo intero considera la Bbc la più autorevole tv pubblica del mondo.

Province quasi abolite

Province quasi abolite

Roberto Petrini – La Repubblica

Sono enti “fantasma” destinati, dopo una lunga battaglia per razionalizzare la macchina dello Stato, a scomparire, ma ancora riscuotono le tasse. Alla fine di quest’anno, nonostante il forte ridimensionamento, le 110 Province italiane incasseranno, secondo un’analisi della Uil servizio politiche territoriali, ancora imposta per 4,5 miliardi. Tre prelievi – sulla Rc auto, sui passaggi di proprietà e sui rifiuti – che andranno direttamente a pescare nelle tasche dei cittadini. Anche se il legislatore, nel corso degli anni, è stato assai abile a nasconderli e a renderli vere e proprie tasse occulte.

L’imposta più pesante che va alle Province è quella sulla Rc auto: fu introdotta nel 1981 da Spadolini con la motivazione bizzarra che chi guida può provocare incidenti e quindi deve contribuire a sostenere il servizio sanitario. L’aliquota va dal 9,5 al massimo del 16 per cento del premio assicurativo e quest’anno darà un gettito di 2,6 miliardi. Le Province, non soddisfatte di riscuotere ancora la tassa, hanno pigiato sul pedale: tutte e 110 la applicano e di queste 76 – tra le quali Roma, Torino, Napoli e Bologna – hanno imposto l’aliquota massima del 16 per cento.

L’altro balzello riguarda sempre l’automobilista: si tratta della Ipt, l’imposta provinciale di trascrizione che si paga quando si cambia macchina o moto. Incasso previsto per quest’anno: 1,3 miliardi. Si deve in tutte le Province ma in 75 – tra le quali figurano Milano, Roma, Firenze, Bologna, Napoli e Torino – viene applicata anche la maggiorazione del 30 per cento. A Roma, tanto per fare un esempio, la Provincia ricava dalla tassa sui passaggi di proprietà 120 milioni, mentre Milano incassa 90 milioni. Della incongruenza di una tassa incassata da enti “fantasma” si è accorto persino il recente decreto sulla pubblica amministrazione che ha previsto, a partire dal prossimo anno, di trasferire l’incasso alle Regioni. Ma per quest’anno pagheremo ancora.

Terzo pilastro che resta in piedi della fiscalità provinciale è il Tefa: pochi lo conoscono ma tutti lo pagano. Si tratta del Tributo provinciale ambientale che versiamo, per una percentuale tra l’1 e il 5 per cento, insieme alla tassa sui rifiuti. Una tassa sulla tassa che renderà alle Province ancora quest’anno 355 milioni. E non è finita: altre microtasse provinciali danno un gettito di circa 99 milioni. Si tratta della Cosap, tassa sull’occupazione del suolo pubblico, pagata sui passi carrabili sulle strade provinciali o per lo spazio occupato da tralicci o centraline. Oppure del tributo per i rifiuti speciali che le aziende versano alle società di raccolta che poi lo girano all’ente provinciale.

Purtroppo la spending review va a senso unico, taglia le spese e lascia pure in piedi le tasse. Tanto è vero che l’Upi, l’associazione delle Province, si trova a protestare per la violenza dei tagli e lamenta effetti «devastanti» sui servizi. «La riforma ha ancora contorni nebulosi – commenta il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy – e si rischia che diminuiscano i servizi ma non le tasse». Chi pagherà le tasse provinciali lo farà con qualche mugugno in più. Le Province infatti hanno avuto un forte ridimensionamento con la riforma dell’aprile scorso e hanno perso molti compiti: non gestiscono più i centri per l’impiego, le politiche del lavoro, trasporti e sostegno allo studio per i disabili. I costi della politica sono stati tagliati per 400 milioni: gli amministratori non saranno più eletti direttamente dai cittadini ma saranno sindaci e consiglieri comunali che faranno il doppio lavoro senza doppia indennità. Anche il personale, pari oggi a 56mila unità, è destinato dopo la riforma a scendere notevolmente: 6mila andranno in mobilità e altri 8mila potranno essere trasferiti ad altri enti. I tagli alla spesa pubblica non servono per diminuire le tasse?

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tagliare, razionalizzare, fondere. Ed alla fine anche privatizzare, portando le aziende fuori dal controllo pubblico. È questa la direttrice di marcia del governo per il dossier società partecipate: categoria omnicomprensiva che comprende anche le utilities, quelle che si occupano cioè dei servizi pubblici locali come acqua, elettricità, rifiuti. Il cantiere è aperto ed è anche piuttosto ampio, visto che sono vari i provvedimenti annunciati sul tema: le prime indicazioni concrete dovrebbero arrivare entro questo mese con le proposte elaborate da Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, sul capitolo specifico delle partecipazioni di Regioni e Comuni. Lo sbocco sarebbe poi la legge di stabilità.

L’argomento è stato inserito anche nella versione finale del disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì 11 e tuttora atteso in Parlamento. Per la precisione si tratta di due articoli, nell’ambito del processo di semplificazione normativa, dedicati rispettivamente alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e ai servizi pubblici locali. Sono in entrambi i casi deleghe, per cui al momento vengono fissate le linee guida di provvedimenti che poi dovranno essere specificati nel dettaglio dallo stesso governo.

I criteri indicati per quel che riguarda le società partecipate sono in linea con quelli a cui – seppur in forma discorsiva – ha già accennato lo stesso Cottarelli nei suoi interventi pubblici: distinzione delle società in base all’attività svolta; possibile reinternalizzazione di quelle che si occupano di servizi strumentali o di funzioni amministrative; definizione di strumenti che evitino effetti distorsivi sulla concorrenza nel caso di attività di interesse economico generale; introduzione di obiettivi di efficienze e di economicità; utlizzo per acquisti e personale delle stesse modalità operative (e quindi dei vincoli) delle amministrazioni pubbliche; eliminazione di sovrapposte.

I particolare per i servizi pubblici locali si punta a definire «ambiti territoriali ottimali», a rafforzare la trasparenza delle procedure di affidamento e a disciplinare i regimi di proprietà e di gestione delle reti. Dunque per una parte consistente delle attuali società (sono circa 10mila solo quelle degli enti territoriali) il destino è la chiusura o il ritorno all’interno della pubblica amministrazione propriamente detta. Proprio Cottarelli ha recentemente ricordato che secondo i dati Cerved ne esistono 2.671 in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti: veri e propri poltronifici insomma. Altre aziende saranno accorpate con un programma di fusioni su base territoriale. Ma per le aziende che rimarranno ed in particolare per quelle che erogano servizi pubblici il governo pensa anche ad una soluzione più estrema: la cessione del controllo ai privati. Questa possibilità è menzionata in un recentissimo documento in inglese del ministero dell’Economia: le utilities vengono inserite nel programma di privatizzazioni accanto a Poste, Eni, Enel e Ferrovie ed alle altre società pubbliche; per loro si parla di «apertura del controllo ai privati». Privati che attualmente sono presenti ma come soci di minoranza rispetto agli enti locali.