spesa pubblica

In Rai non vale il contratto di lavoro

In Rai non vale il contratto di lavoro

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

La Rai è una repubblica a parte. Il dg Gubitosi, che è un gran manager (e lo ha ampiamente dimostrato in aziende che si lasciavano gestire) fa quel che può. Ma è più legato di Laocoonte. I lacci che deve sopportare, non se li è certo inventati lui. È la politica che glieli ha imposti e che adesso deve toglierglieli. A lui o a chicchessia dovesse succedergli. Riuscire a gestire un azienda con quegli impedimenti sarebbe infatti un miracolo. E i miracoli, si sa, non sono degli uomini. La Rai, del resto, è diventata un falansterio che non obbedisce più nemmeno alla logica. Adesso, per esempio, mentre tutti possono constatare che l’ente è oberato di personale in eccesso, la Rai sta bandendo un concorso per assumere un centinaio di nuovi giornalisti, nonostante che il Tg1 abbia in servizio 160 giornalisti, il Tg2 150, il Tg3 130, Rai news 190, i Tg regionali 700 e così via.

In un’azienda normale, oberata di personale a tal punto, si farebbe cassa integrazione (come succede anche ad Alitalia, per non parlare di decine di migliaia di altre aziende di cui non si conosce nemmeno il nome perché non ne parla nessuno). In un’azienda generosa, si terrebbero, con i denti, i posti di lavoro esistenti. Ma in nessuna azienda al mondo, di fronte a un eccesso di personale di questo tipo, si provvederebbe ad assumerne dell’altro. Questo succede in Rai senza che nessuno alzi il ciglio di un’obiezione.

Ma c’è un altro aspetto che dimostra l’extraterritorialità della Rai. Il contratto nazionale di lavoro giornalistico viene disapplicato. Esso prevede (al pari di ciò che succede per i tutti i dirigenti degli altri settori economici) la licenziabilità senza giusta causa (ma con lauto indennizzo, predeterminato) del direttore e del vicedirettore di qualsiasi testata. Questa norma viene applicata da tutti i media italiani. Ma non in Rai, dove il direttore (o vice) esonerato, resta a disposizione, conservando però retribuzione e benefit e dedicandosi, al massimo, a piccole attività paravento. In tal modo il parco dei generali si arricchisce per stratificazione. Il sindacato dice che la non applicazione del contratto si giustifica perché i direttori vengono cambiati quando cambia il governo. Se ciò fosse vero vorrebbe dire che sono i partiti che comandano direttamente la Rai, che è ciò che i sindacati della Rai negano con convinzione.

Degli sprechi il catalogo è questo

Degli sprechi il catalogo è questo

Milena Gabanelli – Corriere della Sera

Non si crescerà mai senza riforme, che vuol dire taglio agli sprechi e investimenti. Il tempo è poco e servono soldi subito. La strada più rapida sarebbe quella del rientro dei 300 miliardi depositati su conti esteri, con versamento delle relative somme evase. Però ci vuole la legge che sanziona pesantemente i grandi evasori, e che esiste in tutti i Paesi civili. Quella legge è pronta sul tavolo da due anni, ma ancora non vede la luce, per non aggredire troppo coloro che hanno impoverito il Paese e le loro aziende trasferendo gli utili su conti cifrati. E allora, oltre ai tagli giustissimi ai superstipendi, agli 80 euro in più per chi ha meno di 1.500 euro al mese, quali sono le idee concrete per evitare la chiusura di migliaia di aziende private, e quali le idee di rilancio delle aziende pubbliche sane?

Fra le tante dichiarazioni di Renzi su come uscire dalla depressione generale c’è anche quella di pensare a una Rai che contribuisca alla rinascita del Paese. Certamente avrà un piano, ma per ora si vuol prendere 150 milioni dal canone. La Rai ha 11.600 dipendenti, circa 4.000 collaboratori, un incalcolabile indotto, è il quinto gruppo culturale d’Europa, il tesoro è l’azionista. Dal canone incassa 1,7 miliardi (il 30% evade), 600 milioni dalla pubblicità, 20 milioni da altri servizi. I conti stanno così così. Tecnologicamente arretrata, mantiene un’infinità di strutture e canali, e nonostante i 1.700 giornalisti Rai News è fra gli ultimi siti web che vengono cliccati per informarsi. Il Direttore generale sta tentando di riorganizzare l’offerta, e intanto taglia su prodotto e stipendi: la falce si sta abbattendo con la stessa neutralità su meritevoli e fannulloni, incluse le partite Iva (cruciali in molti programmi) che si mettono in tasca poco più di 1.000 euro al mese. Tuttavia non basterà. Il premier ha suggerito di vendere qualcosa. L’unica «cosa»che si può collocare sul mercato senza tanto clamore è la società che possiede le torri di trasmissione, RaiWay, ma RaiWay è la Rai, ed ha un solo cliente, la Rai. Questo significa che il Direttore generale non può in autonomia decidere di quotare un pezzo di un’azienda pubblica (ovvero privatizzare) perché occorre seguire un iter parlamentare, e arrivare alla delibera del Consiglio dei ministri. Senza questo passaggio cosa si dovrà inventare sul prospetto informativo per avere l’ok della Consob?

Per tornare efficiente e competitiva, la Rai andrebbe «snellita», ma modifiche radicali saranno possibili solo se si interviene sulla riforma del 1975, meglio nota come lottizzazione. Ogni partito si è preso un canale, e poi ci ha infilato i suoi uomini scegliendo come unico criterio la «fedeltà», non all’azienda ma al partito. Risultato: proliferazione di strutture e incarichi dirigenziali che negli anni si sono stratificati. Non esiste nessuna tv pubblica al mondo dentro la quale convivono 3 telegiornali che hanno come referenti 3 diverse aree politiche; ognuno ha una sua struttura autonoma, i suoi direttori, i suoi inviati, il suo apparato tecnico, i suoi studi, il suo budget. Poi c’è Rai news 24, che non si può dire sia seguitissima, e le 26 sedi per l’informazione regionale. Bisogna «ottimizzare» si dice, ma da dove cominci se non metti mano al contratto di servizio con lo Stato? Le sedi regionali sono nate in funzione dei rapporti con le istituzioni locali. Un modello in crisi poiché le Regioni non rappresentano più il territorio, quindi bisognerà cambiare completamente la prospettiva in funzione delle macroaree. Si prende spesso a modello il miglior servizio pubblico al mondo, ovvero la Bbc, dove però i canali generalisti nazionali sono sostenuti solo dal canone: 174 euro, contro i nostri 113. Se tuttavia il modello a cui ispirarsi è Bbc, confrontiamoci. Le stazioni televisive locali inglesi sono 15, che interagiscono con quelle radiofoniche. I dipendenti sono circa 1.500 contro i nostri quasi 2.000. Le sedi occupano mediamente 2 piani (con una postazione fissa per il giornalista che si connette), la maggior parte sono in affitto. Noi occupiamo edifici giganteschi, quasi tutti di proprietà, con insostenibile spreco di spazi e costi. La loro sede più piccola è quella delle Channel Island: 2 dipendenti; da noi a Campobasso sono in 70. Nella sede di Cosenza lavorano 95 persone, ma il palazzo sembra quello di Viale Mazzini. Tutti i servizi finiscono dentro a Bbc One (la nostra Rai 1), con 4 brevi collegamenti al giorno. Inutile ribadire che la produzione locale del nostro servizio pubblico è perlopiù asservita ad assessori e governatori, che in caso di smantellamento di qualche sede si incateneranno pur di non vedere sottratta una telecamera a loro uso e consumo.

Gli «intrecci armoniosi» si metteranno di traverso anche in caso di accorpamento della lunga lista di strutture a cui hanno dato vita nel corso degli anni, e che pullulano di direttori e personale. Emblematica la genesi di Rai Vaticano. Nel ‘97 una decina di dipendenti occupavano due stanze per preparare gli eventi di Giubileo 2000. Senza budget, il team si relazionava con la Santa Sede per agevolare le reti nella produzione di programmi da trasmettere e vendere in tutto il mondo, e doveva essere operativo per 2 anni. Il Giubileo è finito da tempo, ma la piccola squadra si è trasformata in una struttura con i suoi funzionari e dirigenti per continuare a fare le stesse cose. Rai Expo è l’ultima creatura: una dirigenza, 45 dipendenti, una sede a Milano e una a Roma. Ma per raccontare il grande evento dell’alimentazione mondiale non bastano le sedi regionali e i programmi delle reti? A Expo finita (ottobre 2015) siamo sicuri che quella struttura non diventerà permanente? Anche Rai Quirinale, da postazione informativa è diventata nel tempo un elefantino, con un direttore e 35 dipendenti. Per fare cosa? Trasmettere il messaggio del presidente della Repubblica di fine anno e la cerimonia del 2 giugno.

Per «rinascere» sarà inevitabile eliminare sedi e strutture che non hanno nessun senso, ma non mandando a casa qualche migliaio di persone che hanno famiglia! L’azienda avrebbe bisogno di tutto il suo personale se venisse organizzata in modo produttivo; è pur sempre la più grande industria culturale del Paese! Ricordiamo inoltre che non ha ammortizzatori sociali, e sarebbe paradossale creare disoccupati per dare 80 euro in più a chi uno stipendio (anche se magro) ce l’ha. Certo occorrerà poi liberarsi dai burocrati e intervenire sui contratti collettivi di lavoro. Questo quadro però, determinato dalla politica e dalle sue scelte in 60 anni, non lo ribalta un Direttore generale da solo, senza il supporto del governo. Ricordiamo che la Bbc, così spesso invocata a chiacchiere, ha come unico criterio nella nomina della governance e della dirigenza la competenza e il merito. Anche in Gran Bretagna «il palazzo» interferisce e orienta, ma quando un dirigente sbaglia, va a casa senza tante storie. Per questo il mondo intero considera la Bbc la più autorevole tv pubblica del mondo.

Quei prelievi da tagliare

Quei prelievi da tagliare

Tito Boeri – La Repubblica

L’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. Ed è illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «Il patto di stabilità non si tocca».

Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso?

Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte.

La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis?

La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale.

Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento.

Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi.

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Dal 1993 al 2012 lo Stato italiano ha speso 330 milioni per sovvenzionare 25 giornali legati ad altrettanti movimenti politici. Altri 90 milioni di contributi, c’è scritto nel rapporto sui costi della politica del commissario alla spending review Carlo Cottarelli e curato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon, li abbiamo versati a partire dal 2003 a sole sei emittenti radiofoniche. Più di 37 a Radio Radicale, 26 a Ecoradio, quasi 17 a Città Futura, 5,2 a Veneto Uno, 3,6 a Galileo e persino 1,3 a Onda Verde. Tutte cifre che si devono sommare ad altre voci che hanno costituito il più imponente sistema di finanziamento pubblico dei partiti del mondo occidentale. Con la differenza che in questo caso ci troviamo di fronte a una zona grigia dove il confine tra l’attività politica vera e propria e un altro genere di interessi può essere veramente labile. Anche grazie a una normativa compiacente. Basta citare l’assurdità per cui, fino a un decreto legge approvato nel 2012 dal governo Monti, il contributo ai giornali veniva erogato sulla base delle tirature e non delle copie effettivamente vendute, raccontano sempre gli esperti del team di Bordignon. Segnalando come le rese dei quotidiani di partito si aggirino «in media intorno al 90%, da confrontarsi con il 22% del Corriere della sera e di Repubblica».

Ma questa zona grigia, insistono gli autori di questa parte del rapporto (Paolo Balduzzi, Marco Gambaro e Riccardo Puglisi), non è l’unica nella quale il limite fra finanziamento dei partiti e costi “indiretti” della politica è alquanto fumoso. Ci sono altre aree «che raggiungono dimensioni rilevanti e generano spesa strutturale» con «ordini di grandezza probabilmente superiori ai finanziamenti diretti ai partiti». Per esempio, i servizi reali di cui i politici godono nelle strutture di governo centrale e locale. Strutture nelle quali spesso «le remunerazioni sono inflazionate rispetto alle prestazioni richieste». E i politici «operano in modo da inserire persone appartenenti alla stessa area, indipendentemente dal merito e dal profilo professionale: si tratta in questo caso di premi o di pagamenti indiretti». Per non parlare di quelle «risorse degli apparati amministrativi che risultano di fatto al servizio dei politici», prefigurando «un uso privato e improprio di risorse pubbliche». Caso tipico, quello dell’impiego dei mezzi di un ministeri o di una Regione per i viaggi elettorali.

Poi ci sono le aziende pubbliche. Dove le nomine, dice il rapporto, sono politiche e dove spesso ai cambi di maggioranza corrispondono cambi di dirigenti apicali e a seguire dei livelli appena inferiori,senza che i precedenti dirigenti siano rimossi. Questi ultimi continuano a mantenere ruolo e salario, «pur essendo di fatto spinti in posizioni organizzative marginali». Non si spiega forse così il numero abnorme e crescente di società ed enti pubblici, che fra centro e periferia ha ormai superato ampiamente quota 8 mila e che Cottarelli ha definito «una situazione anomale nel contesto internazionale»?

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tagliare, razionalizzare, fondere. Ed alla fine anche privatizzare, portando le aziende fuori dal controllo pubblico. È questa la direttrice di marcia del governo per il dossier società partecipate: categoria omnicomprensiva che comprende anche le utilities, quelle che si occupano cioè dei servizi pubblici locali come acqua, elettricità, rifiuti. Il cantiere è aperto ed è anche piuttosto ampio, visto che sono vari i provvedimenti annunciati sul tema: le prime indicazioni concrete dovrebbero arrivare entro questo mese con le proposte elaborate da Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, sul capitolo specifico delle partecipazioni di Regioni e Comuni. Lo sbocco sarebbe poi la legge di stabilità.

L’argomento è stato inserito anche nella versione finale del disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì 11 e tuttora atteso in Parlamento. Per la precisione si tratta di due articoli, nell’ambito del processo di semplificazione normativa, dedicati rispettivamente alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e ai servizi pubblici locali. Sono in entrambi i casi deleghe, per cui al momento vengono fissate le linee guida di provvedimenti che poi dovranno essere specificati nel dettaglio dallo stesso governo.

I criteri indicati per quel che riguarda le società partecipate sono in linea con quelli a cui – seppur in forma discorsiva – ha già accennato lo stesso Cottarelli nei suoi interventi pubblici: distinzione delle società in base all’attività svolta; possibile reinternalizzazione di quelle che si occupano di servizi strumentali o di funzioni amministrative; definizione di strumenti che evitino effetti distorsivi sulla concorrenza nel caso di attività di interesse economico generale; introduzione di obiettivi di efficienze e di economicità; utlizzo per acquisti e personale delle stesse modalità operative (e quindi dei vincoli) delle amministrazioni pubbliche; eliminazione di sovrapposte.

I particolare per i servizi pubblici locali si punta a definire «ambiti territoriali ottimali», a rafforzare la trasparenza delle procedure di affidamento e a disciplinare i regimi di proprietà e di gestione delle reti. Dunque per una parte consistente delle attuali società (sono circa 10mila solo quelle degli enti territoriali) il destino è la chiusura o il ritorno all’interno della pubblica amministrazione propriamente detta. Proprio Cottarelli ha recentemente ricordato che secondo i dati Cerved ne esistono 2.671 in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti: veri e propri poltronifici insomma. Altre aziende saranno accorpate con un programma di fusioni su base territoriale. Ma per le aziende che rimarranno ed in particolare per quelle che erogano servizi pubblici il governo pensa anche ad una soluzione più estrema: la cessione del controllo ai privati. Questa possibilità è menzionata in un recentissimo documento in inglese del ministero dell’Economia: le utilities vengono inserite nel programma di privatizzazioni accanto a Poste, Eni, Enel e Ferrovie ed alle altre società pubbliche; per loro si parla di «apertura del controllo ai privati». Privati che attualmente sono presenti ma come soci di minoranza rispetto agli enti locali.

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Monti, Letta e Renzi ha fatto flop. La spending review è stato un completo fallimento. È quanto certifica il centro studi di Unimpresa analizzando i dati della Banca d’Italia sul fabbisogno dello Stato nei primi cinque mesi del 2014. Se, infatti, ci si limita ai dati del Tesoro, si nota solamente il miglioramento dello sbilancio dei conti negli ultimi 12 mesi (il saldo era migliorato di 8 miliardi a maggio, valore ridottosi a un miliardo a giugno). Se, invece, si analizzano i dati di Bankitalia si nota un andamento alquanto preoccupante delle finanze pubbliche. Soprattutto perché Palazzo Koch analizza le voci “spesa corrente” senza tenere conto delle uscite degli enti territoriali (Comuni, Province, Regioni) né di quelle per gli interessi sul debito pubblico. La spesa dello Stato nel periodo gennaio-maggio 2014 si è pertanto attesta a 206,7 miliardi di euro, circa 25 miliardi in più (+13,6%) rispetto ai 181,9 miliardi dell’analogo periodo dell’anno scorso. A fronte di questo incremento delle uscite non ha fatto seguito un coerente incremento delle entrate, aumentate dello 0,1% a 157,8 miliardi.

Premesso che tra le rilevazioni di Bankitalia e quelle del Tesoro vi sono sempre delle discrepanze legate sia al ritardo fisiologico nel disporre di alcuni dati sia alle differenti metodologie utilizzate, non si può non restare sorpresi dall’andamento fuori controllo della spesa statale. Nel 2014, infatti, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione non sembra aver fatto particolari passi in avanti. Il monitoraggio di via XX Settembre si è fermato alla fine dello scorso marzo, quindi è difficile pensare che i 22 miliardi stanziati per il 2014 siano stati già erogati (maggiori prelievi dai conti di tesoreria sono stati effettuati a giugno e, quindi, non computati in questa analisi). Analogamente, il bonus da 80 euro il cui costo è di circa 900 milioni al mese è partito alla fine di maggio, quindi la sua incidenza è minima. Tenuto conto che gli sgravi fiscali previsti dalla legge di Stabilità si iscrivono come minori entrate, ne consegue che quei 25 miliardi in più sono per la maggior parte spesa corrente.

Tra il 2012 e il 2013, prosegue Unimpresa, era già stata registrata una analoga situazione. L’anno scorso le uscite complessive dalle casse dello Stato sono state pari a 548,6 miliardi di euro, ben 38,5 miliardi in più (+7,56%) rispetto ai 510,09 miliardi totali del 2012. Nel 2013 le entrate tributarie sono state pari a 464,8 miliardi, in salita di 11,8 miliardi (+2,64%) rispetto ai 452,9 miliardi dell’anno precedente. L’aumento delle tasse, come si vede, non ha prodotto gli effetti sperati perché, con un’economia in contrazione, l’aumento della pressione fiscale non produce maggior gettito. Al contrario, lo Stato ha continuato a spendere e spandere.

Lecito, perciò, domandarsi che fine abbia fatto la spending review. Premesso che il lavoro di Carlo Cottarelli, iniziato a ottobre, sta giungendo solo ora a maturazione (primo step: sfoltire la giungle delle municipalizzate che costa 26 miliardi), c’è da registrare l’inefficacia dei governi Monti e Letta e la scarsa attenzione da parte del loro successore Matteo Renzi. Il presidente di Unimpresa Dario Longobardi però si scaglia contro Mister spending: «Il suo mandato è un bluff perché non ha portato a nessun risultato, mentre la politica del rigore è insufficiente: occorre abbassare la pressione fiscale sulle Pmi».

Perché Berlino non fa i compiti?

Perché Berlino non fa i compiti?

Giorgio Ponziano – Italia Oggi

Non bisogna nascondere i propri problemi sotto il tappeto degli altri. Ma guardare a fondo l’economia tedesca e il sistema pubblico che la sorregge non significa cercare di autoassolversi, poiché il debito italiano rimane un moloch soffocante, può però servire per non restare silenziosi dietro la lavagna. Insomma al tavolo europeo i più bravi vanno lodati ma non debbono barare al gioco. I tasselli del mosaico che fotografa l’altra faccia della Germania provengono da analisi e studi di economisti, giornalisti, ricercatori, tra i quali Patricia Szarvas, Francesco Cancellato, un’èquipe dell’università di Linz, Lucrezia Reichlin, Mario Baldassarri, eccetera. Eccolo, il mosaico.

1. Franco Bassanini, presidente della Cdp, cassa depositi e prestiti, controllata per l’80 % dal ministero dell’Economia, ogni anno emette 320 milioni di euro di obbligazioni e il ministro Pier Carlo Padoan quei soldi li deve contabilizzare nel debito pubblico italiano. In Germania vi è un istituto fotocopia, che si chiama Kfw, Kreditanstalt für Wiederaufbau, anch’esso per l’80% appartenente al governo federale. Emette obbligazioni per finanziare i suoi interventi, l’ultimo anno ne ha emesse per 500 miliardi di euro. Ebbene, di quei 500 miliardi non c’è traccia nel deficit pubblico tedesco perché in Germania vi è una legge che esclude dal conteggio (e quindi dalle tante statistiche sul rapporto debito/pil) le società pubbliche che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato. Avviene quindi che nonostante le due strutture finanziarie siano pubbliche e si tratti di risorse reperite sul mercato con obbligazioni, in un caso è considerato debito pubblico e nell’altro no. Trattandosi di centinaia di miliardi non è cosa da poco.

2. In Italia, non essendoci federalismo amministrativo, tutto finisce nel calderone della finanza pubblica. I deficit di regioni, comuni e province (finché ci saranno) vengono contabilizzati dallo Stato e formano la massa del debito, tanto che si è dovuti ricorrere alla camicia di forza della spending review per bloccare le spese dei comuni e il presidente del consiglio, giustamente, ha annunciato un maggiore controllo anche sulle spese delle regioni, che in genere continuano a sgarrare rispetto al patto di stabilità. In Germania invece c’è federalismo e quindi i 600 miliardi di debito dei länder rimangono nei loro bilanci locali. Anche in questo caso si tratta di una disparità, rispetto ai conti pubblici italiani, difficile da comprendere. È vero che Angela Merkel, comunque preoccupata per il progressivo aumento del deficit dei länder, ha imposto il dietrofront, con l’obiettivo del pareggio dei loro bilanci, ma dovranno tagliare il traguardo nel 2020 e non nel 2015 come invece viene chiesto (e imposto) all’Italia.

3. Nelle classifiche sull’occupazione, la Germania svetta col suo (solo) 5% di disoccupati ma dietro questo dato vi è quello delle persone a rischio povertà, addirittura il 24%. Perché? Perché il 25% dell’offerta di lavoro è costituita dai mini job, lavori part time a basso costo: le statistiche tedesche considerano occupati coloro che hanno un contratto di mini job, in realtà essi hanno contratti di tre mesi, senza alcuna garanzia e la media del salario è 400 euro netti al mese. In molti casi si tratta quindi di una disoccupazione nascosta. Ovvero lo scarto tra il 12,7% della disoccupazione in Italia e il 5% di quella in Germania non è veritiero, la forbice è molto più stretta.

4. L’economia sommersa è una vergogna non solo italiana. In Germania il nero è calcolato dagli economisti tedeschi nel 13% della produzione tedesca, con 8 milioni di lavoratori e 350 miliardi di euro sottratti alle casse dello Stato. Soprattutto nella capitale Berlino, trainata dal poderoso settore dell’edilizia, la diffusione del lavoro nero sembra la regola più che l’eccezione. Né il rigore né i controlli degli appositi uffici tedeschi sono riusciti a rendere meno abnorme il fenomeno. L’aggiramento della legge è uno sport non solo italico.

5. Dopo varie peripezie, in Italia il sistema bancario è oggi privato e con la svolta del Montepaschi è caduta l’ultima roccaforte dell’incesto tra pubblico e privato. Al contrario, in Germania la svolta non c’è stata, il 45 % del sistema bancario tedesco è saldamente in mani pubbliche, comprese le banche regionali, poiché ogni länd ha il proprio istituto di credito. È scontato il fatto che il sistema pubblico tedesco funziona meglio di quello italiano e che la politica è meno invasiva ma rimane da rilevare che i 637 miliardi di crediti quasi inesigibili delle Landesbanken, appunto gli istituti dei länder, sono in ultima analisi sul groppone dello Stato, così come più o meno una cifra analoga pesa sui bilanci delle banche nazionali controllate dallo Stato. Quindi il passivo del sistema bancario pubblico tedesco non compare nel bilancio generale e non concorre al deficit e al rapporto tra debito e pil, eppure si tratta a tutti gli effetti di una passività pubblica. Non solo. Questo controllo del governo sulle banche può in teoria (o in pratica) essere usato per indirizzare politiche finanziarie a favore o contro altri Paesi. Un esempio. Silvio Berlusconi, da presidente del consiglio, rivolge parole volgari alla Merkel? Le banche pubbliche tedesche vendono titoli di Stato italiani, mettono Piazza Affari sotto pressione, lanciano allarmi finanziari: lo spread sale e il paese sotto tiro va in crisi. Si tratta di un uso politico della finanza che non ci sarebbe se l’Ue imponesse la privatizzazione delle banche, com’è avvenuto per altri settori. Ma la Germania non vuole e nulla si muove, mentre l’Italia deve fare i compiti a casa.

6. Si sono svolte anche recentemente aste dei titoli di Stato tedeschi e, come a volte succede, una parte non è stata assorbiti dal mercato primario. Invece di ricorrere al mercato secondario (con tassi più alti e perdita di valore dei titoli) è intervenuta direttamente, per acquistarli, la Bunbdesbank, anche se ciò è espressamente vietato dal trattato di Maastrich. Ma chi ha il coraggio di sgridare la banca centrale tedesca? In questo modo però essa evita la crescita del debito pubblico, una sorte a cui invece vanno incontro gli altri Paesi, che rispettano il trattato.

7. L’Italia si sta svenando per rispettare il six pack, cioè le sei direttive concordate nel 2011 che prevedono che un Paese non debba registrare un passivo superiore al 3% del pil e un surplus (export meno import) di oltre il 6%. La Germania è negli ultimi 5 anni largamente al di fuori di quest’ultima percentuale e se ne infischia. Il suo avanzo è attorno al 7% del pil e secondo il six pack avrebbe dovuto essere sanzionata, invece niente, mentre per noi il 3% è sacro e i tedeschi ce lo ripetono ogni giorno. Due pesi e due misure, che fanno crescere le ingiustizie e le differenze tra i sistemi economici degli Stati.

8. Infine l’Ocse. Avverte la Germania: oggi il vento soffia a favore (anche se da marzo si registra un rallentamento) ma attenzione al futuro. Dormire sugli allori può essere pericoloso. L’invecchiamento demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività, la scarsa concorrenza interna nel settore dei servizi, la burocrazia efficiente ma tentacolare sono nodi che la Repubblica Federale deve affrontare e risolvere per il suo bene ma anche per quello dell’Europa.

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La Rai, per esempio. «A ogni cambio di governo, maggioranza e ad ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono 3-4 tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che ad esempio nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». La mazzata alla tivù di Stato è tutta qui. Ma tremenda. E non tanto per la stoccata alla nave ammiraglia. Già un anno fa il deputato del Pd Michele Anzaldi denunciava che dei 113 giornalisti del Tg1 appena 32 erano redattori ordinari, mentre i soli capiredattori risultavano ben 34. Rapporto fra soldati semplici e graduati? Uno a 2,5.

La botta è micidiale perché nel rapporto sui costi della politica commissionato dal direttore d’orchestra della spending review Carlo Cottarelli a un pool di esperti coordinato da Massimo Bordignon, la Rai è assunta a simbolo poco edificante. L’emblema di quell’enorme indotto costituito dalle imprese pubbliche sulle quali la stessa politica scarica un peso economico non indifferente. Tanto da indurre gli autori del documento – che il governo ha deciso di rendere pubblico – a formulare una raccomandazione: quella che «le posizioni apicali nelle imprese pubbliche soggette a nomine politiche devono avere carattere temporaneo, con la previsione che la retribuzione segua la funzione effettivamente svolta». Vale per la Rai, come per tutte le altre migliaia di aziende controllate dal pubblico. Dove per pubblico si intende Stato, Regioni, Province e Comuni. E non è un caso che questo passaggio si trovi nell’ultimo capitolo, quello intitolato «Il sistema del finanziamento dei partiti», che comincia a pagina 86 del rapporto fino a ieri svanito e oggi finalmente ritrovato. Perché, come abbiamo tante volte ricordato, i canali attraverso cui la politica drena risorse pubbliche sono così numerosi da sfuggire a un calcolo preciso. Ragion per cui le raccomandazioni degli esperti di Cottarelli si sprecano. Come quella di «introdurre la massima trasparenza sui finanziamenti ai gruppi parlamentari», che nel solo 2012 hanno incassato 73 milioni: somma andata ovviamente ad aggiungersi ai rimborsi elettorali. O quella di alzare almeno al 10 per cento l’Iva sulle spese elettorali, che una legge d’altri tempi aveva fissato al 4 per cento appena: stesso livello vigente per i beni di prima necessità. Oppure quella di portare ad almeno 10 centesimi il francobollo per le lettere di propaganda politica, contro i 4 attuali. O ancora, quella di tagliare ancora del 20 per cento i sussidi alla stampa di partito. Anche se i risparmi non sarebbero certo dell’ordine di quelli che si potrebbero ottenere intervenendo sugli apparati istituzionali.

E qui viene il bello. Come abbiamo anticipato ieri, la relazione di 106 pagine consegnata nello scorso mese di marzo a Cottarelli contiene una radiografia approfondita dei costi della politica nei Comuni e nelle Regioni. Arrivando alla conclusione che su questo fronte si potrebbero realizzare economie per 630 milioni di euro l’anno oltre a quelle già portate a casa con le riforme fatte a partire dal governo di Mario Monti. Quasi metà, pari a 300 milioni e 698 mila euro l’anno, deriverebbe da interventi sulle amministrazioni comunali. Il rapporto suggerisce l’accorpamento dei piccoli Comuni (quelli sotto i 5 mila abitanti), la riduzione del 20 per cento del numero di consiglieri e assessori (oggi quasi 139 mila), l’eliminazione del trattamento di fine rapporto per i sindaci e il taglio compreso fra il 10 e il 20 per cento delle remunerazioni per il personale politico nei municipi al di sotto dei 15 mila abitanti. Tutte misure, si aggiunge nel documento, che andrebbero necessariamente estese anche alle Regioni a statuto speciale alle quali viene riconosciuta autonomia finanziaria nella gestione della finanza locale, quali Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Altri 330 milioni sarebbero i risparmi attesi dall’applicazione dei «costi standard» agli apparati politici regionali. Alcuni dei quali, va detto, si sono mostrati decisamente riluttanti di fronte ai tagli già imposti sull’onda degli scandali di Batman&co. alla Regione Lazio. Innanzitutto sulla trasparenza. Nonostante in seguito al decreto Monti sia stata fissata una retribuzione lorda onnicomprensiva uguale per tutti i consiglieri (11 mila euro mensili), i dati pubblicati per legge sui vari siti «non dicono», sostiene il rapporto, «quanti consiglieri cumulano all’indennità di carica le varie indennità di funzione previste, ed è dunque impossibile calcolare la retribuzione effettiva». Poi c’è il caso della Sardegna, che ha fatto ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto Monti e non l’ha applicato, dov’è fissata «un’indennità di carica molto più alta (14 mila euro) della soglia su cui possono cumularsi le altre indennità».

Del resto le differenze nei costi delle assemblee, fra Regione e Regione, restano rilevantissime anche dopo la quasi generale equiparazione delle indennità. La media nazionale per consigliere «è superiore ai 900 mila euro ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di un milione e mezzo mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila euro», rivelano gli autori. Affermando la necessità di ridurre anche qui, ulteriormente, di 266 unità il numero di assessori ed eletti, con un risparmio possibile di 35 milioni: più altri 25 se si allineasse lo stipendio del consigliere a quello del sindaco del capoluogo. In tutto, dunque, sessanta milioni. Che salirebbero a 107 se, come propone il rapporto, si eliminasse anche il rimborso forfettario mensile. «In fondo», scrivono gli esperti di Cottarelli, «ai percettori di redditi di lavoro dipendente non è in genere riconosciuto un rimborso per le spese attinenti alla loro attività». Non si capisce quindi per quale ragione i consiglieri regionali debbano averne diritto. Altri 50 milioni di minore spesa potrebbero derivare dalla revisione dei vitalizi pagati agli ex consiglieri in base ai cosiddetti diritti acquisiti: semplicemente ricapitalizzando i contributi effettivamente versati sulla base del sistema contributivo e ricalcolando così gli assegni mensili. I vecchi vitalizi rappresentano una fetta gigantesca del costo della politica regionale: 173,4 milioni nel 2012. Che continua a lievitare. Basti pensare che nella sola Regione Lazio l’esborso è salito di oltre il 30 per cento in due anni, da 15,9 milioni nel 2012 a più di 20 quest’anno.

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Marco Cobianchi – Panorama

Secondo gli esperti un eccesso di informazioni può provocare ipertensione, vertigini, ansia, inappetenza. Le stesse sindromi dalle quali è affetto Carlo Cottarelli, commissario straordinario alla spending review, l’uomo chiamato a contribuire con un taglio alla spesa di almeno 14 miliardi di euro nella prossima imminente stesura della legge di stabilità 2015. Ebbene Cottarelli, si diceva, passa diverse ore al giorno sul sito del Siope, un software inventato e gestito dalla Banca d’Italia che raccoglie tutte le spese di tutti gli enti pubblici giorno per giorno. Bum! Il sogno di ogni italiano si è avverato: controllare quotidianamente come le amministrazioni pubbliche spendono i soldi delle sue tasse. L’ipertensione è garantita, ma la soddisfazione raggiunge il climax. Basta cliccare a caso e il web scodella tutte le uscite di quel giorno. Proviamo.

Il 12 marzo 2014 il premier annuncia la vendita su eBay delle auto blu, peraltro un flop con poco più di 20 vetture passate ai privati. Il giorno dopo lo Stato ha speso 5.170 euro in carburanti saliti a 6.200 il giorno dopo. Poco? A marzo in benzina se ne sono andati 4,2 milioni di euro. Sempre il 14 marzo lavanderia e pulizia sono costati 536mila euro, le armi leggere 65mila euro, i mobili per ufficio 180mila, la cancelleria 163mila e (tenersi forte) il vestiario addirittura 12,2 milioni.

Continuiamo, anche se l’ipertensione sale. Uno dei pezzi forti della spesa pubblica sono le consulenze. Secondo la Uil i professionisti dei quali si avvale lo Stato sono 545mila. Lo ha detto il 16 dicembre 2013 e, proprio quel giorno, se ne vanno 9.700 euro in consulenze giuridiche, 125mila per consulenze tecnico-scientifiche, 1,1 milioni in consulenze informatiche e 767mila in «altre consulenze». Il giorno dopo per consulenze giuridiche sono stati pagati 130mila euro, 228mila per quelle tecniche, 4 milioni per quelle informatiche e 1,1 milioni per «altre consulenze». Sempre quel 16 marzo 2013 Matteo Renzi dà del «buffone» a Beppe Grillo perché il leader del Movimento 5 Stelle non vuole votare le riforme istituzionali e intanto dalle casse dello Stato escono 9,2 miliardi tra cui: 40,8 milioni per aerei da guerra, 22 milioni per navi da guerra, 1,6 milioni per mezzi terrestri da guerra, 562mila per armi pesanti e 877mila per armi leggere. Sembrerebbe che l’Italia si stesse preparando a un’invasione e invece tutti i giorni lo Stato spende queste cifre in armi. Per esempio: il 2 maggio 2013, mentre Berlusconi e Renzi litigano sull’Imu, lo Stato paga 5,1 milioni per la manutenzione delle caserme oltre a 3 milioni per contenziosi verso i fornitori e perfino 103 euro per «Iscrizione ordine professionale», che dovrebbe pagare chi si iscrive, non lo Stato.

Ma il bello deve ancora venire. Vogliamo parlare dei sussidi alle imprese? Il 16 agosto 2013 debutta il redditometro che permette di incrociare le spese di ogni italiano e scovare gli evasori, ed esattamente quel giorno lo Stato versa alle imprese 5 milioni in sussidi, altri 2,4 due giorni dopo, 1,8 arrivano il 22 agosto e così via per tutti i giorni dell’anno, di tutti gli anni. Il totale è impressionante: nel 2013 i sussidi andati alle imprese sono stati 15,7 miliardi, e per fortuna che non c’erano i 25 milioni versati l’anno prima alla società Grandi stazioni che è controllata al 60 per cento dalle Fs ma il 40 è di soci privati (Benetton, Pirelli e Caltagirone).

Basta aggirarsi per qualche minuto per scoprire spese incredibili. Il 23 agosto l’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che non ci sono i soldi per abolire l’Imu e proprio quel giorno lo Stato non solo spende 1 milione per i fabbricati militari ma soprattutto 128mila euro per «animali» che ci sono costati più di 1 milione in tutto il 2013 e sempre l’anno scorso un altro milione se n’è andato in «strumenti musicali»; 104 milioni in «vestiario»; 1,6 in assistenza «psicologica, sociale e religiosa»; 197 milioni in affitti; 51 milioni in bollette dei cellulari; 409 in pulizia e lavanderia; 127 milioni in traslochi e, soprattutto, 418 milioni sono serviti a pagare i premi del gioco del Lotto. Poi ci sono le bollette: uno si aspetta che la più alta sia quella per la fornitura di elettricità e invece è quella per l’acqua: 3,4 miliardi di euro nel 2013.

Tagli? Quali tagli? Risparmi? Quali risparmi? Stando al Siope, il Quirinale è costato esattamente la stessa cifra – 228,2 milioni l’anno – dal 2009 al 2013. E tale rimarrà fino al 2016 perché il presidente Napolitano ha rifiutato un adeguamento all’inflazione da 10 milioni di euro. Come dire, un risparmio percepito.

Meglio scendere dal Colle. Il 14 aprile di quest’anno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio annuncia che quando sarà il momento di nominare i dirigenti delle aziende pubbliche il governo punterà alla parità tra uomini e donne e, proprio quel giorno, lo Stato stacca un assegno da 422mila euro per affitti di immobili. L’8 aprile Matteo Renzi presenta il Def (che prevede una crescita dello 0,8 per cento nel 2014: pura fiction) e quel giorno lo Stato paga 347mila euro in benzina, trasferisce 33 milioni alla presidenza del Consiglio (cioè a Renzi stesso) e compra 3,6 milioni in francobolli. Il 17 febbraio del 2012 l’Istat rivela che in 9 mesi si sono persi 90mila posti di lavoro e quel giorno lo Stato spende 44mila euro in «accessori per uffici». Il primo giugno 2012 il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dice che in Italia le tasse sono troppo alte e mente lo dice lo Stato versa 316 milioni alle imprese pubbliche. Il 29 marzo del 2013 si scopre che le fatture non pagate dallo Stato alle imprese private valgono 90 miliardi e intanto 2,5 milioni se ne vanno in traslochi dei dipendenti statali, 900mila in affitti e 27 milioni alle «unioni di Comuni».

Ma più dei carri armati, del vestiario e delle bollette, ciò che pesa sul bilancio pubblico è l’Europa, i cui versamenti seguono un crescendo rossiniano: 15,4 miliardi nel 2008, 15,8 nel 2009, 15,5 miliardi nel 2010, 16,7 miliardi nel 2011, 16,4 miliardi nel 2012 e (record) 17,6 miliardi nel 2013. Per avere un’idea di cosa si sta parlando basta dire che sempre nel 2013 i trasferimenti alle famiglie sono stati appena 2,5 miliardi. E il 2012? Anno da incorniciare: oltre alle spese (diciamo) normali, abbiamo pagato 5,7 miliardi per garantire la «stabilità finanziaria dell’area euro» e 1,1 miliardi per salvare la Grecia ma abbiamo anche speso 93 milioni a favore dei «soggetti danneggiati da complicanze dovute a vaccinazioni obbligatorie ed emotrasfusioni» e 66 milioni per lo smantellamento di sommergibili nucleari, mentre per altri 82 milioni «non si dispone di sufficienti informazioni». Tradotto: nessuno sa dove siano finiti.

Poi ci sono le spese dei Comuni e qui c’è da perdersi, anzi, da svenire, soprattutto se si pensa che nell’era di Internet il Comune che si autopromuove il più moderno d’Italia, Milano, è riuscito in sei anni a raddoppiare le spese postali, passate da 14 milioni nel 2008 a 31 nel 2013. Certo, le spese per convegni sono passate da 22,2 a 3 milioni ma la spesa pro capite per i consumi intermedi (quelli che servono a far funzionare la macchina pubblica) sono, a Milano, non solo più alti della media delle grandi città italiane, 1.300 euro rispetto a 955, ma anche di Roma (1.089), Napoli (1.088) e Palermo (587). Poi c’è il capitolo tasse. Chi vive nei grandi Comuni paga mediamente 750 euro ma i milanesi versano 785 euro, i torinesi 766, i romani 729, i catanesi 655 e i fiorentini 847. A proposito: tra il 2009 e il 2013 Firenze è stata una delle pochissime città che ha aumentato il proprio budget, passato da 746 a 840 milioni. Il premier che ora vorrebbe tagliare la spesa pubblica è quello che a Firenze ha aumentato le spese correnti da 485 a 593 milioni riuscendo anche nell’impresa di triplicare le uscite per liti giudiziarie, che sono passate 493mila del 2009 a 1,4 milioni nel 2013 mente le sentenze avverse al Comune sono costate 866mila euro dagli 8.600 del 2009: sono centuplicate. Nel 2013 Renzi ha anche speso 3mila euro per animali, 165mila euro per vestiario e oltre 4 milioni in francobolli (oltre 5,5 milioni di lettere ai 350mila fiorentini?). Stando alle fatture pagate, i dipendenti pubblici di Bologna sono i più eleganti d’Italia: 430mila euro, anche se il budget è calato da 641 a 590 milioni. Un bilancio ridicolo di fronte a uscite per l’incredibile cifra di 6,3 miliardi di Roma, che nel 2013 ha speso 98 milioni in consulenze; 11 milioni in convegni, 56 milioni di francobolli (erano 11 nel 2012) e 115 milioni in affitti (107 nel 2012).

Probabilmente Cottarelli sarà iperteso, ansioso e inappetente e soffrirà di vertigini. Perché si è reso che per tagliare la spesa pubblica non bastano le forbici. Ci vuole una motosega.

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Claudio Cerasa – Il Foglio

Tasse e governo Renzi: dov’è la verità? Due giorni fa il presidente del Consiglio, quasi a voler confermare la teoria che i dossier economici costituiscono la prima vera e drammatica preoccupazione del governo, ha lasciato intendere che la prossima, delicata e rischiosissima legge di stabilità verrà presentata circa un mese prima rispetto alla scadenza prevista per il prossimo venti di settembre. Oltre al non scontato tema delle coperture (ci sono 24 miliardi da trovare, e nessuno ha ancora capito dove si troveranno) non c’è dubbio che il cuore anche culturale della politica economica del governo riguarda un tema sul quale Renzi, con la sua squadra di economisti, è stato stuzzicato domenica scorsa dal Corriere della Sera con un duro editoriale del professor Angelo Panebianco. La tesi del Corriere è che il governo non ha la forza e la volontà di mettere in campo una buona politica fiscale capace di rompere i vecchi tabù della sinistra conservatrice. Palazzo Chigi, lo ha scritto domenica su Twitter il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, sostiene che le cose siano diverse e che andrebbe spiegato «al grande politologo che gli ottanta euro sono la più grande riduzione di tasse nella storia della Repubblica». Chi ha ragione? Cosa ha fatto il governo Renzi sul fronte fiscale? Cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi?

I fronti da analizzare sono principalmente due e sono due punti che si trovano entrambi tra i dossier presenti sul tavolo del governo: da un lato le tasse ridotte e dall’altro quelle aumentate. Il presidente del Consiglio sa bene che la rivoluzione degli ottanta euro potrà considerarsi tale, ovvero una rivoluzione, solo a condizione che nella prossima legge di stabilità i dieci miliardi necessari per coprire il bonus previsto per il 2015 non verranno trovati spizzicando qua e là tra una mezza privatizzazione e qualche soldo guadagnato grazie al miglior rendimento ottenuto sui titoli di Stato. Ciò che occorre è, come si dice, una misura strutturale che possa dare continuità al bonus. E l’unica misura possibile e non transitoria è quella che si nasconde all’interno del pacchetto sulla spending review.

Nelle prossime settimane, entro metà agosto, il piano Cottarelli dovrebbe essere presentato nella sua interezza e a quanto risulta al Foglio sono tre i capitoli sui quali il governo ha intenzione di intervenire: le Ferrovie (per le quali solo nel 2014 lo Stato ha stanziato 4 miliardi), le municipalizzate (nel 2012 il Mef ha stimato che le perdite delle partecipate dei Comuni, soprattutto nel settore del trasporto pubblico locale, siano arrivate a raggiungere un miliardo e 200 milioni di euro) e la revisione dei dossier relativi all’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (7 miliardi stimati dal Mef). Il governo ha promesso che entro il 2014 metterà mano ai settori (entro dicembre il trasporto ferroviario e l’acquisto di beni e servizi, entro ottobre il trasporto pubblico locale), il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti ha anticipato che entro luglio (manca poco però) verrà presentato un piano severo per ridisegnare le partecipate locali e non c’è dubbio che non esiste una credibile politica fiscale se questa non viene affiancata da una credibile politica di riduzione delle spese. «Se Renzi – dice una fonte governativa – avrà il coraggio di finanziare gli ottanta euro andando a toccare settori storicamente intoccabili come quelli legati alle municipalizzate la riduzione delle tasse potrà avere una sua consistenza. Viceversa, se così non dovesse andare, gli ottanta euro rischiano di diventare per Renzi quello che l’Imu è stato per Enrico Letta: un pasticcio». E il resto?

Alcune tasse sono state introdotte dal governo Renzi ma dal punto di vista formale (a parte la Tasi, che sostituisce l’Imu, ma che Renzi ha ereditato dal governo Letta, modificandone e peggiorandone alcuni aspetti) quasi tutte le nuove tasse previste sono state ideate per creare un gettito utile a ridurre altre tasse. Il provvedimento più corposo (scattato il primo luglio) è quello relativo all’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (l’aliquota è passata dal 20 al 26 per cento). Per quanto però sia una tassa discutibile da molti punti di vista (tassare le rendite finanziarie, come si sa, rischia di costringere gli investitori a puntare i propri risparmi solo sui titoli di Stato, togliendo quindi molta liquidità dai mercati) la tassazione delle rendite finanziaria è stata messa in campo per ridurre (di quattro miliardi) un’altra tassa, ovvero l’Irap.

Qualcuno, per esempio il professor Pietro Ichino, sostiene che sarà difficile che siano davvero quattro i miliardi che il governo riuscirà a ottenere dal gettito ricavato da questa tassa (Ichino sostiene che arriveranno a malapena 200 milioni di euro). Ma il principio portato avanti da Palazzo Chigi è sempre quello: non introdurre altre tasse se non per ridurre altre tasse. Andrà davvero così? La promessa è ambiziosa ma il Rottamatore, per non diventare un Tassatore, dovrà essere abile a fare i conti con la dura realtà. E se i dati sulla disoccupazione continueranno a essere preoccupanti (siamo al 12,6 per cento, due punti in più della media europea), il pil non la smetterà di scendere (ad agosto arriveranno i dati del secondo trimestre e a Palazzo Chigi sono convinti che il segno più ancora non ci sarà), la flessibilità non sarà così incisiva come Renzi si aspetta (da seguire il lavoro di Roberto Gualtieri, capo della Commissione economica del Parlamento europeo) il pericolo di dover introdurre qualche ulteriore tassa per tappare i buchi è più di un semplice rischio. Riuscirà Renzi a resistere alla grande tentazione? E soprattutto, in vista della delega fiscale che il Mef intende presentare entro la fine dell’estate, Renzi sarà in grado di dare forma in modo compiuto alla sua idea di rivoluzione del fisco?

Sulla delega fiscale il governo non è ottimista perché le rivoluzioni non si possono fare in cento giorni e forse i mille giorni sono un’ipotesi più realistica. Ma nell’attesa di capire quale direzione prederà il governo (che oltre alla tassazione sulle rendite finanziarie qualche altra tassa l’ha messa, vedi l’aumento del costo per il rilascio del passaporto, anche se il governo ha eliminato il bollo, vedi l’aumento di un euro a partire dal primo ottobre sui pacchetti di sigarette, vedi l’aumento delle tasse, su spinta della Siae, fino al 500 per cento, sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale) nelle ultime ore al Mef è maturata un’idea ambiziosa che merita di essere esplicitata. E la nuova sfida del governo riguarda una promessa da 32 miliardi fatta da Renzi al mondo degli industriali. Promessa che suona così: se mi consentiranno di andare avanti, di governare e fare i tagli alla spesa pubblica che intendo fare, tagli che dovrebbero essere equivalenti a 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016, mi impegno a investire due punti di pil per portare il cuneo fiscale al livello dei grandi paesi europei.

Al momento, dunque, è esagerato dire che il governo non ha agito sul fisco (tecnicamente gli 80 euro sono configurati come un credito di imposta, e dunque sono formalmente una spesa, ma di fatto, per le persone che ne hanno beneficiato, rappresenta una riduzione dell’Irpef). Così come è esagerato dire che il governo sta facendo quello che nessuno ha fatto mai nella storia del paese (occorre vedere se le coperture diventeranno strutturali, se il governo riuscirà a mettere in piedi un sistema fiscale capace di attrarre nuovi investitori, e Renzi riuscirà a mettere in campo un sistema di norme fatto non per allontanare ma per attrarre persone fisiche ad alto reddito). Tutto può succedere ma solo una osa Renzi non potrà permettersi: dire che sul fisco non ha potuto fare quello che desiderava perché qualcuno gliel’ha impedito. La maggioranza c’è. La volontà pure. E in fondo, mai come in questo caso, l’unico nemico di Renzi si chiama proprio Matteo.