spesa pubblica

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Marco Girardo – Avvenire

La spesa pubblica oggi è pari al 51% del Pil. Senza una sua riduzione, sarà impossibile raggiungere i parametri europei in materia di debito. E anche se il Patto di Stabilità venisse modificato, sarebbero comunque prima o poi i mercati a punirci. I tentativi di fare un “tagliando” alla spesa si susseguono oramai da decenni. Con il medesimo – e mai centrato – obiettivo: mantenere quella di alta utilità e ridurre quella inefficiente e cioè gli sprechi. Al Tesoro la sfida è stata affrontata prima dalla Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, fra il 1986 e il 2005, e poi, per due anni, dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica. Entrambe sono state disciolte e i risultati sono stati inferiori alle aspettative: l’irresistibile ascesa della spesa pubblica soprattutto di parte corrente è proseguita. È iniziata quindi la stagione dei “commissari”, ma gli esiti- quelli visibili, almeno – non sono stati migliori. È solo colpa dei politici?

Il libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo «La Buona Spesa: Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa» (Centro Studi Impresa Lavoro, 2016) prova a fornire una risposta e suggerire una terapia. In primo luogo, nei Paesi dove la spending review è stata efficace (Usa, Gran Bretagna, Francia), la “revisione” non si presentava come compito ad hoc di breve respiro, ma quale principale attività istituzionale – permanente, quindi – dell’organo dello Stato incaricato della formazione, della valutazione e del monitoraggio del bilancio (in Italia la Ragioneria Generale). In secondo luogo, dove funziona, la revisione si basa su metodologie standardizzate adottate a livello internazionale. Da un lato figlie di una teoria economica forte, dall’altro facilmente comprensibili non solo ai tecnici ma anche all’uomo della strada. In terzo luogo, la revisione deve essere partecipativa: i cittadini, le famiglie, le imprese devono essere in grado di comprendere perché si vuole ridurre una voce di spesa o accentuarne un’altra. Per questo motivo, la Guida è redatta in una prosa accessibile a chi abbia i rudimenti di economia domestica e include un capitolo dedicato al come comunicare le valutazioni sulla spesa pubblica.

«Ora investire in sicurezza»

«Ora investire in sicurezza»

di Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco

Una delle prime reazioni dopo gli attacchi di Parigi e di Bruxelles è stata l’invocazione di una maggiore spesa pubblica nei settori sicurezza e difesa, spesso esposti a tagli da parte dei governi europei perché si tratta di costi facili da aggredire (l’ottusità di chi invoca la pace a tutti i costi ha semplificato il lavoro dei governanti). Ma davvero impiegare le nostre tasse per aumentare la nostra percezione di un ambiente sicuro e meno esposto alle insidie del terrorismo islamico può risolvere la questione quando l’Isis ha messo anche Internet tra i suoi obiettivi? La risposta è no e lo spiega bene Edward Marsh, direttore Aerospazio Sicurezza & Difesa della società di consulenza americana Frost & Sullivan.

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La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

di Paolo Ermano

Con il rapporto Benessere Equo e Sostenibile, l’Istat da qualche anno sperimenta un diverso modo di sintetizzare la qualità della vita in Italia. Meno sintetico del PIL, ma per questo più ampio e ricco, il Rapporto BES propone, invece di un unico numero, dodici aree tematiche, dalla salute al paesaggio, dal benessere soggettivo al lavoro, ognuna analizzata tenendo conto di diversi indicatori, per fornire una lettura più articolata della nostra società. Dal punto di vista metodologico, dove possibile questi indicatori sono poi sintetizzati in un indice composito che permette anche di fare una classifica fra le regioni in ciascun settore analizzato.

Nel rapporto 2015, l’indice composito è proposto per le seguenti aree tematiche:

1) Salute
2) Istruzione e Formazione
3) Lavoro e conciliazione tempo libero
4) Benessere economico
5) Relazioni sociali
6) Sicurezza
7) Benessere soggettivo
8) Paesaggio e Patrimonio culturale
9) Ambiente

Sono esclusi, quindi: Politica e istituzioni, Ricerca e Innovazione, Qualità dei Servizi.

Indicativamente, questi nove indici sintetici si prestano a essere valutati alla luce della spesa pubblica sostenuta nelle singole regioni. Si potrebbe supporre che laddove la spesa risulti più alta si possano osservare valori più elevati nelle variabili considerate, cioè una qualità di vita migliore.

Da questo punto di vista i dati proposti dall’Agenzia per la Coesione Territoriale nei Conti Pubblici Territoriali (CPT) rappresentano un valido supporto d’indagine.

Purtroppo, data la composizione degli indici aggregati, non è sempre facile definire quali voci dei CPT siano da imputare al singolo indicatore. Per esempio, l’indicatore del Benessere Soggettivo è la sintesi di misure che hanno a che vedere con la soddisfazione per la propria vita, soddisfazione per il tempo libero e i giudizi sulle aspettative future: variabili sulle quali è impossibile determinare quale voce di spesa possa incidere e in quale misura.

Pertanto, partendo da queste nove aree tematiche è stato possibile compiere una valutazione appropriata fra l’indice composito e le voci di spesa dei CPT solo per cinque aree:

1) Salute
2) Lavoro
3) Sicurezza
4) Istruzione
5) Ambiente

Nonostante queste limitazioni, i risultati ottenuti propongono una riflessione importante sulla spesa pubblica in Italia. Emerge infatti come solo su alcuni ambiti (sicurezza e lavoro) una maggior spesa pubblica porti effettivamente a risultati migliori. In altri, come il settore istruzione, la spesa pro-capite non spiega i risultati ottenuti nelle singole regioni. Forse è il caso di riflettere in maniera meno ideologica sull’importanza di organizzare bene l’attività del settore pubblico.

Salute

Il tema della salute è alla base del benessere individuale e per questo è il primo dei temi affrontati dal rapporto Istat. Come già indicato, l’indice composito, che in tutti i temi discussi qui è costruito in modo da dare un voto più alto a chi ottiene i risultati migliori, tende a considerare sia dati direttamente influenzati dalla spesa sanitaria volta alla cura delle persone, sia dati relativi all’attività di prevenzione. Da questo punto di vista, la voce dei CPT relativa alle spese del comparto salute copre le stesse aree tematiche: cura e prevenzione. Confrontando la classifica ricavata dall’indice composito con la spesa regionalizzata non emerge chiaramente un legame fra spesa e risultati:

 

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Ad esempio, la Liguria spende circa €200 pro-capite in meno della Lombardia raggiungendo circa gli stessi risultati in termini generali. Si confrontino poi i risultati di Emilia Romagna, Toscana e Friuli Venezia Giulia: con differenze intorno ai €400 pro-capite a testa, queste regioni ottengono sostanzialmente lo stesso risultato. Se la Toscana spendesse quanto l’Emilia Romagna dovrebbe indirizzare quasi €1,5 mld alla sanità in più, una cifra davvero ragguardevole, pari a quasi ¼ dell’attuale spesa. Senza parlare della Sardegna e Piemonte: a parità di spesa pro-capite, raggiungono posizioni molto diverse in classifica.

Da questi pochi indicatori, risulta chiaro che la qualità di un servizio sanitario non è solo una questione di risorse impiegate: in un periodo di restrizione della spesa pubblica, ragionare in maniera più strutturata su come migliorare il servizio diventa una priorità.

Lavoro

Anche il tema del Lavoro viene analizzato dal BES secondo quattordici variabili che vanno a comporre l’indice sintetico. Di queste solo una misura, la soddisfazione sul lavoro, riguarda una variabile sulla quale la spesa pubblica ha una scarso potere di influenza. Per il resto, la spesa pubblica sintetizzata nelle variabili lavoro dei CPT può essere ragionevolmente considerata la leva per migliorare gli indici del BES considerati.

BES2

 

La spesa pro-capite, è bene specificarlo, dipende da due voci dei CPT: quella relativa al lavoro e quella relativa alla previdenza. Per questo è influenzata dalla presenza di strumenti come la cassa integrazione che nel 2013 aveva un peso rilevante: le regioni con un tessuto produttivo più sviluppato sono quelle che più hanno beneficiato dello strumento di tutela dei lavoratori, e quindi sono le regioni con una spesa significativamente più elevata. Tuttavia le performance delle singole regioni dipendono, di nuovo, anche da altri fattori: per esempio, nelle prime dieci regioni troviamo solo regioni del Nord con livelli di spesa molto variegati e con risultati tutto sommato comparabili. Di nuovo, sembra emergere che più che la quantità della spesa, conti la qualità della spesa.

Colpisce il ritardo del centro-sud: Abruzzo e Lazio, con livelli di spesa pro-capite pari a quelli della Provincia di Bolzano e della Valle d’Aosta rispettivamente, ottengono performance di certo meno brillanti.

Sicurezza

Il tema della sicurezza in questi anni è diventato dirimenti in molti dibattiti politici, così come nella percezione della qualità di un territorio da parte dei cittadini. Anche per queste ragioni, l’indicatore Istat prende in considerazioni dati oggettivi, come il tasso di omicidi o di furti nelle abitazioni, e li incrocia con informazioni sulla percezione di sicurezza/insicurezza della popolazione. Entrambi i fattori sono influenzati nel medio lungo periodo dalla capacità d’intervento dello Stato, per quanto fattori culturali possano incidere in maniera sostanziale sul senso di sicurezza che una comunità può garantire ai suoi membri. Come mette in evidenza la tabella, il livello di spesa pro-capite nelle diverse regioni è, nuovamente, abbastanza variegato.

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Paradossalmente, ad esclusione del Lazio, il cui costo pro-capite è di gran lunga il più elevato per la presenza delle Istituzioni più importanti del nostro Paese a Roma, tendenzialmente le regioni che spendono proporzionalmente di più in sicurezza presentano un valore composito più elevato.

Interessante notare, inoltre, come le regioni più problematiche, quelle in cui i dati sulla sicurezza sono i più modesti, sono collocate tanto al Nord quanto al Sud del Paese, indicando ad opinione di chi scrive come quei fenomeni di criminalità storicamente collocati in aree geografiche ben definite del Paese oramai non rappresentino più l’unica minaccia reale e percepita alla sicurezza delle persone; non è solo una questione economica, quanto demografica: molte delle regioni che ottengono scarsi risultati nell’indice composito non sono necessariamente le più ricche del Paese, ma sono quasi esclusivamente quelle a più alta densità abitativa.

Istruzione

Ecco un settore in cui ci si dovrebbe aspettare che chi spende di più riesce a ottenere risultati migliori, in un ambito che finalmente inizia a essere unanimemente considerato strategico sia per formare cittadini consapevoli, sia per creare le condizioni di sviluppo nella nuova economia della conoscenza.

Purtroppo, o per fortuna, così non è: spesa e risultati sembrano poco correlati:

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Anche in questo caso l’indicatore analizza diversi aspetti: dal livello di alfabetizzazione, alla partecipazione all’alta formazione, alla capacità di dare opportunità a chi finisce il ciclo scolastico. Se impressiona la spesa pro-capite delle Provincie Autonome di Trento e Bolzano, zone i cui dati macroeconomici certificano sia una ripresa più vigorosa che nel resto del Paese, sia un’attenzione alla formazione di persone altamente qualificate più elevata che altrove, nelle altre regioni la spesa pro-capite è sostanzialmente simile, attestandosi poco al di sotto dei €1000 pro-capite. Eppure i risultati conseguiti sono diversi, con la Sicilia, ad esempio, che arriva ultima nella classifica con una spesa identica al Friuli Venezia-Giulia, posizionato in terza posizione, primo tra quelli con un livello di spesa in linea con la media italiana.

Quindi, di nuovo, il problema non è relativo alla risorse che mancano, quanto al modo in cui queste sono spese: e, parlando di educazione, una riflessione più seria rispetto alla semplice quantificazione delle dotazioni è d’obbligo per garantirsi gli investimenti in capitale umano necessaria rilanciare l’economia e la società italiana.

Ambiente

L’ultimo indicatore che abbiamo preso in considerazione è quello ambientale. Sempre più spesso ci troviamo a fare i conti con i danni derivati da un clima sempre più bizzoso e imprevedibile a causa del cambiamento climatico. Per rispondere a questo mutamento delle condizioni ambientali, investire sul territorio in termini preventivi diventa un elemento critico per garantire una gestione normale di eventuali eventi metereologici eccezionali.

In questi termini, l’indice composito riferito all’ambiente permette una prima valutazione della qualità di un territorio e degli investimenti fatti per garantire una sua stabilità ecologica.

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Di nuovo, riemerge la grande varietà negli impegni di spesa: abbiamo regioni dove si spendono meno di €100 a testa e regioni in cui la spesa pro-capite supera di molto questa soglia. Tanta varietà per un territorio così complesso non sembra essere una risposta ottimale al problema della qualità dei territori. E colpiscono i risultati non certo lusinghieri di regioni, come ad esempio la Toscana, dove il territorio rappresenta un asset chiave per lo sviluppo economico del turismo e per la preservazione di un patrimonio artistico-culturale unico al mondo. Lo stesso potrebbe dirsi per la Regione speciale Sicilia.

Forse il regionalismo in ambiti come questi, in cui si deve preservare lo spazio e quindi l’identità di una comunità, dovrebbe essere ripensato in un’ottica di maggior accountability dell’azione di governo. Oramai sembra un obbligo più che una delle possibili proposte.

Dal 2009 al 2014 l’Italia ha tagliato il 34,1% della spesa pubblica per investimenti

Dal 2009 al 2014 l’Italia ha tagliato il 34,1% della spesa pubblica per investimenti

Lunedì scorso Mario Draghi ha sostenuto che la ripresa nell’Eurozona è «moderata» e sostenuta principalmente» dalle politiche di stimolo della Bce. «È sempre più chiaro – ha concluso – che i governi dovrebbero sostenere questa ripresa con investimenti pubblici e una tassazione più bassa». Il suo monito arriva in un contesto storico nel quale, nell’Unione Europea, il calo degli investimenti pubblici è di 47,7 miliardi rispetto ai massimi registrati nel 2009 (454,9 miliardi di euro).  Nell’area euro, invece, il calo è ancora più marcato: dai 337,7 miliardi del 209 si è passati ai 275,3 miliardi del 2014. In termini reali siamo quindi tornati ai valori del 2005, con investimenti pubblici pari 2,9% del Pil nell’Unione Europea a 28 (rispetto al 3,7% del 2009).

L’Italia ha tagliato del 34,1% la spesa pubblica per investimenti, passando dai 54,1 miliardi del 2009 ai 35,6 miliardi del 2014, con una riduzione di circa 18,5 miliardi di euro. Tradotto su basi relative, l’Italia spende ora solo il 2,2% del Pil per investimenti pubblici, con un calo dell’1,2% rispetto al 2009. Si tratta del valore più basso fatto registrare dal 2004 ad oggi. Dal 2009 al 2014 la spesa pubblica per investimenti è calata ogni anno.

Si confermano le differenze tra i paesi cosiddetti “virtuosi” e quelli periferici dell’Eurozona. Tra i paesi dell’aerea euro che hanno ridotto in misura più marcata la spesa pubblica per investimenti, insieme all’Italia, compaiono infatti la Spagna (-3,0% in rapporto al Pil), Cipro (-2,2%) e Portogallo (-2,1%), con la Grecia appaiata all’Italia (-1,2%) ma in ripresa rispetto al 2013 (-2,0%). Tendenza positiva, invece, per paesi dell’area Euro come Finlandia (+0,2% sul Pil) e Malta (+1,4%), mentre il calo è più limitato in Germania (-0,2%), Austria (-0,4%) e Francia (-0,6%). Al di fuori dell’Eurozona, si va dal +2,1% dell’Ungheria al -1,8% della Croazia, passando per il +0,8% della Danimarca, il -0,7% del Regno Unito e la sostanziale invarianza della Svezia (0,0%).

«Le parole del governatore Draghi mettono il dito nella piaga della mancata crescita economica del nostro Paese» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Da noi si continua insomma a voler seguire una ricetta tanto logora quanto perdente: ostacolare lo sviluppo delle imprese, tagliare gli investimenti pubblici, rinviare sine die ogni azione politica di spending review (nonostante da tempo siano stati ben individuati i centri di spesa da eliminare) e consentire un aumento costante incontrollato della spesa pubblica corrente».

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Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

L’Italia investe appena l’1,03% del proprio Prodotto interno lordo nella spesa pubblica a favore di “famiglie e bambini”. Meno di Portogallo, Malta e Cipro; meno della metà di Ungheria, Austria e Bulgaria; meno di un terzo di Norvegia e Finlandia; un quinto rispetto alla Danimarca. È questo il risultato di una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro”, su dati Eurostat, che ha preso in esame la categoria “family and children” nella classificazione della spesa pubblica Cofog (Classification Of Function Of Government), lo standard internazionale adottato dal Sec95 (sistema europeo dei conti nazionali e regionali).

In pratica si tratta di quella parte di spesa pubblica destinata a:  protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).

Ordinando il totale della spesa di ogni singolo Paese in percentuale al Pil, l’Italia si piazza – con il suo 1,03% – in 24° posizione (sulle trentuno nazioni prese in considerazione da Eurostat), nettamente al di sotto della media dell’Unione europea (1,71%) e dell’area euro (1,64%). Spendono meno di noi per famiglie e bambini la Svizzera (0,55%), la Spagna (0,61%) e la Grecia (0,67%). Spendono di più, invece, le altre grandi economie del continente: Germania (1,55%), Regno Unito (1,65%) e Francia (2,50%). Molto distanti, infine, i paesi scandinavi: Svezia (2,54%), Norvegia (3,32%), Finlandia (3,34%) e Danimarca (5,00%).

La posizione dell’Italia in questa classifica cambia leggermente se, invece che come percentuale del Pil, la spesa è calcolata pro-capite. In questo caso il nostro Paese sale dal 24° al 17° posto (sempre su 31). A fronte di una spesa media di circa 458 euro all’anno nell’Unione europea (che sale a 481 euro nell’area euro), in Italia ci fermiamo a circa 277 euro. Un dato molto distante da quello delle altre economie avanzate del continente – Francia (807 euro), Germania (533 euro), Regno Unito (528 euro) – con la sola eccezione della Spagna (135 euro). Sempre lontani anni-luce i paesi scandinavi: Svezia (1.157 euro all’anno), Finlandia (1.251 euro), Danimarca (2.278 euro) e Norvegia (2.582 euro).

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Tasse, con pressione fiscale spagnola pagheremmo 145 miliardi di euro in meno

Tasse, con pressione fiscale spagnola pagheremmo 145 miliardi di euro in meno

Se nel nostro paese la pressione fiscale fosse agli stessi livelli delle altre economie occidentali avanzate (esclusa la Francia), i contribuenti italiani nel 2016 pagherebbero molte decine di miliardi in meno di tasse. È questo il risultato di uno studio di ImpresaLavoro realizzato utilizzando i dati di Ocse, Def e Legge di Stabilità relativi alle previsioni sull’andamento della pressione fiscale per l’anno appena cominciato.

In Italia, infatti,anche al netto delle clausole di salvaguardia e del bonus 80 euro per il 2016, la pressione fiscale prevista dal documento di programmazione economica e finanziaria del governo è pari al 42,6% del Pil. Una percentuale che, anche se in leggero calo rispetto all’anno appena trascorso, resta decisamente superiore a quella prevista per gran parte delle economie avanzate con l’eccezione appunto della sola Francia, in cui livello di tassazione è leggermente superiore al nostro.

Questa differenza del carico fiscale nel confronto con gli altri paesi, che oscilla tra il 3,2% rispetto alla Germania e il 14,8% rispetto agli Stati Uniti d’America, corrisponde – in valore assoluto – a molte decine di miliardi di euro. Più in dettaglio: se il livello di pressione fiscale in Italia fosse identico a quello tedesco, i contribuenti italiani pagherebbero 54,61 miliardi di tasse in meno. E ancora:se importassimo il livello di pressione fiscale britannico verseremmo invece al Fisco 138,81 miliardi di euro in meno, che diventano 145,23 miliardi se ci allineassimo alla pressione fiscale spagnola. Ancora più elevato il gap rispetto ai paesi extra-europei: 187,62 miliardi rispetto al Giappone; 195,81 miliardi rispetto al Canada; addirittura 248,62 miliardi di euro se si applicasse al Pil italiano lo stesso livello di pressione fiscale degli Stati Uniti.

Considerando l’intera popolazione residente in Italia (inclusi i bambini), se nel nostro paese ci fosse il livello di pressione fiscale della Germania tutti avrebbero 898 euro all’anno in più nel proprio portafoglio. Una somma che crescerebbe fino a raggiungere i 2.283 euro con il livello di pressione fiscale britannico, i 2.389 euro con il livello spagnolo, i 3.086 euro con il livello giapponese, i 3.221 con il livello canadese, toccando infine i 4.089 euro all’anno se in Italia la pressione fiscale fosse uguale a quella statunitense.

«Queste cifre – commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni – testimoniano, se ce ne fosse ancora bisogno, come la pressione fiscale nel nostro paese rimanga il problema centrale. Le previsioni del governo segnalano una timida inversione di tendenza e una pressione fiscale in leggerissima discesa. Tuttavia la comparazione rispetto alle altre grandi economie occidentali dimostra che la strada da fare è ancora lunga. E che non sarà possibile arrivare a livelli di normalità “occidentale” senza affrontare, radicalmente, la questione relativa alla dimensione della nostra spesa pubblica e alla conseguente riduzione del perimetro dello Stato. Senza una spending review coraggiosa e non solo annunciata saremo costretti ad accontentarci di riduzioni fiscali del tutto irrilevanti, ben comprendendo che sui conti degli anni futuri pesano ancora le incognite delle clausole di salvaguardia, e quindi di nuove tasse e nuove imposte».

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La spesa delle regioni continua a correre

La spesa delle regioni continua a correre

Leonardo Ventura – Il Tempo

Nonostante gli annunci di spending review, la spesa corrente delle Regioni continua a crescere: è quanto emerge dall’analisi effettuata dal Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i dati resi noti recentemente dalla Corte dei Conti, ha notato come la spesa pubblica corrente delle Regioni nel periodo 2011-2014 sia cresciuta di 3,9 miliardi di euro, passando da 141,7 a 145,6 miliardi (+2,76%). Non tutte le Regioni si sono comportate allo stesso modo. Quelle a statuto speciale hanno ridotto le loro uscite per spese correnti del 2,46%, passando da 31,3 a 30,6 miliardi di euro tra il 2011 e il 2014. Questo «tesoretto» di 0,7 miliardi di risparmi è stato interamente vanificato dall’incremento delle uscite delle Regioni a statuto ordinario, dove la spesa passa da 110,4 a 115,0 miliardi di euro (+4,25%). Fanno eccezione alcune regioni più «virtuose» come la Lombardia e l’Abruzzo.
Al netto degli importi riversati allo Stato per il cosiddetto Fondo di Solidarietà, la Lombardia emerge come la Regione che ha effettuato i maggiori tagli alla spesa corrente, scesa dell’11,63%. L’Abruzzo ha ridotto le proprie spese correnti del 6,09%. Il Lazio, al contrario, detiene il record del maggiore incremento della spesa nel periodo considerato (+33,33%) seguito dalla Calabria (+3l,06%). Tra gli enti a statuto speciale buone performance di riduzione della spesa sono state registrate dalla Provincia Autonoma di Bolzano (-6,33%) seguita dalla Sardegna (-5,94%).
Sempre la Lombardia si conferma la Regione più virtuosa in quanto a spesa corrente pro-capite. Per ogni cittadino la Regione spende infatti 1.739 euro a cittadino, meno della metà di quanto esce dalle casse del Lazio, che con i suoi 3.129 euro di spesa corrente pro-capite fa segnare l’esborso più elevato. Tra le autonomie speciali, invece, è la Valle d’Aosta ad avere una spesa corrente pro-capite decisamente superiore alla media delle altre regioni, ordinarie e non. A causa anche della piccola dimensione e dell’impossibilità strutturale di fare alcune economie di scala, ogni cittadino valdostano costa 8.995 euro ogni anno di spesa corrente. Chi spende di meno per spesa corrente pro-capite è la Sicilia con i suoi 2.529 euro, seguita da Sardegna e Friuli Venezia Giulia. La spending review sembra invece funzionare in Lombardia e Abruzzo: le due Regioni con la minor spesa corrente pro-capite sono anche quelle che hanno effettuato i tagli di spesa più consistenti.
Regioni spendaccione: niente tagli, più costi

Regioni spendaccione: niente tagli, più costi

Sergio Governale – Il Mattino

I tagli piovono a ogni manovra, ma la macchina statale costa ogni anno sempre di più. In particolare quella delle Regioni. Dopo la «Relazione sugli andamenti della finanza territoriale per il 2014» della Corte dei Conti, diffusa poco prima di Ferragosto, è ImpresaLavoro a calcolare che la spesa corrente delle Regioni continua a crescere, «nonostante gli annunci di spending review più volte fatti dai vari governi». Rielaborando i dati della magistratura contabile, il Centro Studi di ispirazione liberale nato su iniziativa dell’imprenditore Massimo Blasoni ha notato «come la spesa pubblica corrente delle Regioni nel periodo 2011-2014 sia cresciuta di 3,9 miliardi di euro, passando da 141,7 a 145,6 miliardi». Più virtuose nel periodo le Regioni a statuto speciale, che hanno diminuito le uscite in media del 2,5%, creando un «tesoretto», come lo ha definito ImpresaLavoro, pari a 700 milioni, «interamente vanificato dall’incremento delle uscite delle Regioni a statuto ordinario», dove la spesa è aumentata di quasi 5 miliardi, «passando da 110,4 a 115 miliardi». Tra queste ultime, spiccano il Lazio e la Calabria, dove le uscite sono cresciute nel quadriennio di oltre il 30%: più 33,33% nel primo e più 31,06% nella seconda.
Non va meglio se si guarda soltanto alla variazione dal 2013 al 2014. In un anno, infatti, le spese correnti degli stessi enti hanno registrato un incremento rispettivamente del 31,45% e del 21,95%. «Medaglia di bronzo» all’Umbria: più 11,11% nel quadriennio e più 8,3% nell’ultimo anno. In fondo alla classifica la Lombardia, che ha effettuato i maggiori tagli ai costi correnti, scesi dell’11,63%. Seguita dalla Provincia autonoma di Bolzano (meno 6,33%), da Abruzzo (meno 6,09%), Sardegna (meno 5,94%) e Sicilia (meno 2,18%). Si è comportata bene anche la Campania: meno 1,96% dal 2001 al 2014, che però ha visto salire le spese correnti nell’esercizio 2014 del 3,57%.
Nel complesso, si legge nello studio, «l’incremento della spesa corrente nel quadriennio per il totale delle Regioni è stato contenuto: più 2,76%». Gli enti a statuto ordinario hanno invece aumentato la propria spesa del 4,25% mentre, come detto, quelle a statuto speciale l’hanno ridotta del 2,46%». Guardando alla spesa corrente pro-capite del 2014, la lombardia è rimasta la Regione più virtuosa. L’ente che ha sede a Milano ha speso infatti l’anno scorso 1.739 euro per ogni residente, meno della metà di quanto è uscito dalle casse del Lazio, che con i suoi 3.129 euro ha fatto segnare l’esborso più elevato tra le Regioni a statuto ordinario, seguito ancora una volta dalla Calabria con 2.638 euro. Per Palazzo Santa Lucia l’uscita per abitante è stata pari a quasi 2.160 euro.
Tra le autonomie speciali, invece, è la Valle d’Aosta ad aver avuto una spesa corrente pro-capite decisamente superiore al resto d’Italia. «Ogni cittadino valdostano è costato l’anno scorso quasi 9.000 euro», ha spiegato ImpresaLavoro. Mentre «chi spende di meno» nella stessa tipologia di ente «è comunque la Sicilia con i suoi 2.529 euro». Secondo il Centro Studi, la spesa di larga parte delle autonomie, benché più elevata della media delle Regioni a statuto ordinario, «si è sensibilmente ridotta in questi anni di spending review, mentre appaiono incomprimibili larga parte delle uscite sostenute dalle Regioni a statuto ordinario, che rappresentano quasi l’80% della spesa totale».
Il lavoro dei responsabili della revisione della spesa pubblica Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, che mirano a ottenere risparmi per almeno 10 miliardi per la manovra 2016 da 25-30 miliardi, è comunque arduo. Secondo Unimpresa, la spesa dello Stato nel primo semestre del 2015, in base ai dati di Bankitalia, è aumentata infatti di quasi 18 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con una crescita superiore al 7%. Sono «in dubbio gli effetti della spending review, alla base del piano di tagli alle tasse da 45 miliardi annunciato dal governo Renzi», ha avvertito nei giorni scorsi il Centro Studi dell’associazione presieduta da Paolo Longobardi.
Dipendenti PA: in Italia sono il 14,42% degli occupati, record in Valle d’Aosta (21,78%) e nel Mezzogiorno.

Dipendenti PA: in Italia sono il 14,42% degli occupati, record in Valle d’Aosta (21,78%) e nel Mezzogiorno.

NOTA

Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su dati della Ragioneria Generale dello Stato e dell’ISTAT, evidenzia come le regioni a Statuto speciale siano quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare questa classifica è la Valle d’Aosta con 11.909 dipendenti, pari al 9,26% dei residenti. Significa che un valdostano su dieci (bambini e anziani inclusi) campa di denaro pubblico. A seguire il Trentino Alto Adige (78.868 dipendenti, pari al 7,50% dei residenti) e il Friuli Venezia Giulia (85.610 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Subito dietro si collocano il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (396.865 dipendenti pari al 6,76% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (109.066 dipendenti, pari 6,56% dei residenti). Per converso le regioni più grandi ed economicamente più sviluppate presentano tassi di presenza di dipendenti pubblici nettamente più bassi: 4,11% in Lombardia, 4,55% in Veneto e 4,92% in Piemonte. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, anche la Campania ha un rapporto non altissimo (4,99%) di dipendenti pubblici in rapporto ai suoi residenti e comunque minore di quello che si registra in Emilia Romagna (5,09%), nelle Marche (5,23%), in Umbria (5,49%) e in Toscana (5,51%).

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L’analisi territoriale è particolarmente interessante se effettuata anche con riferimento al totale dei soggetti occupati. Se in Italia i 3,2 milioni di dipendenti pubblici costituiscono il 14,49% dei lavoratori, l’analisi territoriale evidenzia situazioni molto diversificate. Anche in questo caso il record spetta alla Valle d’Aosta, con il 21,78% di dipendenti pubblici in rapporto al numero dei lavoratori occupati (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Calabria, con il 21,58% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. Più in generale, in cima a questa classifica compaiono tutte le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale: Sicilia (21,11%), Sardegna (19,96%), Molise (19,37%), Basilicata (19,36%), Campania (18,54%) e Puglia (17,94%). In coda a questa speciale classifica si collocano invece due regioni del Nord: il Veneto (10,96%) e la Lombardia (9,71%).

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Rassegna Stampa
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Crisi: nel periodo 2008-2014 spesa pubblica è aumentata di 45,5 miliardi (+3,3% del Pil)

Crisi: nel periodo 2008-2014 spesa pubblica è aumentata di 45,5 miliardi (+3,3% del Pil)

NOTA

Durante la crisi la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei paesi dell’Unione Europea (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro. Il nostro Paese non è l’unico ad aver aumentato la spesa pubblica in questo periodo anche se tra le grandi economie continentali solo la Francia fa peggio di noi e vede crescere la sua spesa pubblica del 4,2%. Meglio di noi vanno sia la Spagna (+2,5%) sia la Germania, sostanzialmente stabile con un +0,4%. Chi taglia in maniera abbastanza decisa il peso dello Stato sull’economia è invece il Regno Unito che vede la sua spesa pubblica scendere di 2,2 punti di Pil.

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In valori assoluti questo significa che la nostra spesa pubblica è passata dai 780 miliardi di euro del 2008 agli 826 miliardi del 2014, un balzo in avanti di 45,5 miliardi. Ovviamente questa valutazione rischia di essere fuorviante perché non tiene in debito conto l’andamento dell’inflazione e quello del Pil, risultando quindi un valore meramente indicativo.

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Molto più interessante, invece, è capire quali settori abbiano contributo a questi scostamenti perché, come è facilmente intuibile, negli anni della crisi la spesa pubblica si è sensibilmente modificata: vi sono settori che hanno subito tagli più o meno pesanti ed altri che, al contrario, non sono riusciti a contenere dinamiche di crescita. Questi dati sono stati resi recentemente disponibili per tutti i Paesi europei con un aggiornamento fino al 2013. L’analisi di ImpresaLavoro prende in esame alcune funzioni quali: Difesa (spese militari), Cultura, Istruzione, Protezione Sociale.

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Rispetto al 2008 in proporzione al proprio Pil l’Italia spende lo 0,1% in meno per spese militari, passando dall’1,3% all’1,2% del proprio prodotto interno lordo. Tutta l’Area Euro ha subito in questi anni una riduzione di questa tipologia di spesa: tra i grandi paesi solo Francia e Germania hanno visto aumentare l’incidenza della spesa per la funzione “Difesa” sul Pil dello 0,1%. Il taglio più elevato arriva dal Regno Unito che spendeva comunque per questa funzione una cifra nettamente superiore a quella italiana (2,5% del Pil contro 1,3%).

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La spesa per l’ordine pubblico e la sicurezza passa in Italia dall’1,8% al 2% del Pil, facendo segnare un incremento più elevato dei Paesi dell’area euro e di tutte le grandi economie continentali. Anche per questa funzione il taglio più consistente arriva dal Regno Unito che, nonostante un calo dello 0,3% dell’incidenza sul Pil per questa funzione, continua a spendere comunque il 2,2%, più di Italia, Francia, Germania e Spagna.

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La spesa per la funzione ambiente rimane stabile, pesando sul nostro Pil per lo 0,9%, in linea con quanto avviene nell’Eurozona. Diminuisce la spesa per questa funzione in Regno Unito e Spagna, mentre aumenta in Germania e Francia.

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La spesa per la funzione “Salute” cresce in Italia durante la crisi dello 0,2% del Pil, passando dal 7% al 7,2%. L’impegno degli Stati per questa funzione è in aumento in tutta l’eurozona (+0,5%),con l’eccezione della Spagna che non aumenta l’incidenza sul Prodotto Interno Lordo della sanità pubblica. È interessante notare come il Regno Unito, pur impegnato in questi anni in un taglio della spesa pubblica di pressoché tutte le funzioni, aumenti quanto spende per la sanità statale: l’incidenza sul Pil passa dal 7,2 al 7,6%.

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Durante la crisi l’Italia ha tagliato la sua spesa per la cultura passando dallo 0,8% allo 0,7% del Pil e oggi è tra i grandi paesi europei quella che spende meno per questa funzione così come tracciata da Eurostat. Nonostante i tagli effettuati in questo periodo spendono più di noi sia la Spagna (1,1%) che il Regno Unito (0,8%). Stabile la spesa per questa funzione in Germania (0,8%) mentre cresce dall’1,3% all’1,5% del Pil in Francia.

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Per rendere meglio l’idea spendiamo oggi in valore assoluto 1,8 miliardi in meno di quanto spendevamo nel 2008, mentre la Germania spende 3,2 miliardi in più.

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La crisi ha portato con sé un taglio della spesa per istruzione che passa dal 4,4 al 4,1% del nostro Pil. Nello stesso periodo la Germania operava la scelta inversa, aumentandola dell0 0,4% del Pil e superandoci per incidenza sul Prodotto Interno Lordo del settore relativo all’istruzione. Oggi in Europa spende meno di noi solo la Spagna, mentre fanno meglio sia il Regno Unito (5,5% del Pil nonostante un taglio dello 0,7%) che Francia (5,5%), Germania (4,3%) e la media dei paesi dell’area euro (4,8%).

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Anche qui i valori assoluti spiegano in maniera molto evidente quello che è accaduto: spendiamo per istruzione, oggi, meno di quanto spendevamo nel 2008: 65,5 miliardi contri i 71,2 di allora. Questo significa che mentre noi tagliavamo la spesa per istruzione di 5,7 miliardi, la Germania la aumentava di 20,5.

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Come era prevedibile, la crisi ha portato con sé un aumento sensibile della spesa dedicata alla Protezione Sociale: questa è passata in Italia dal 18,1% al 21% del nostro Pil con una crescita di 2,9 punti percentuali. Un aumento superiore a quanto avvenuto nell’eurozona (+2,2%) anche se in linea con quello della Francia (+2,7%) e inferiore a quello della Spagna (+3,8%). La Germania, la meno colpita dalla crisi tra le grandi economie, ha contenuto la crescita della sua spesa sociale al solo 0,2% del Pil. Tra i grandi paesi europei, oggi, solo la Francia spende più di noi per questa funzione.