spesa pubblica

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

In 3 anni 40 miliardi di tasse per pagare sussidi ai disoccupati

Claudio Antonelli – Libero

Il sistema di sussidi a chi è rimasto senza lavoro dal punto di vista finanziario non sta più in piedi. Già nel 2010 a lanciare l’allarme è stato il ministero delle Finanze. Nel frattempo anche le novità avviate sotto la competenza di Elsa Fornero non hanno invertito il trend. Nel periodo 2007-2013 la spesa complessiva per il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia è cresciuta in modo rilevante, passando dai 7,9 miliardi complessivi per cassa integrazione guadagni, mobilità e disoccupazione del 2007 ai 23,6 miliardi del 2013, importo che comprende anche le nuove misure introdotte dalla riforma Fornero come le ASPI e mini-ASPI.

Ad analizzare nel dettaglio i numeri dell’intero comparto dei sostegni è stato il Centro Studi ImpresaLavoro, ideato dall’imprenditore del Nord-est Massimo Blasoni. Ne risulta che «la spesa per ammortizzatori sociali è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi)», si legge nello studio. «Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo». Ovviamente fino al 2007 nessuno si è posto il dubbio. Tanto meno si è messo al lavoro per riformare il sistema. D’altronde le uscite eccedenti vanno a carico della fiscalità generale e nel 2007 erano una cifra pari a zero: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013. E nel triennio precedente la cifra complessiva è arrivata a 38,1 miliardi. La cifra pesa sull’intera comunità, mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori).

E per di più – si evince dallo studio – non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Senza dimenticare che la rigidità dei contributi ha un effetto deleterio sul mondo del lavoro. Basta pensare che l’Aspi non vincola il disoccupato ad accettare altri posti su scala nazionale.

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

ABSTRACT

La spesa per ammortizzatori sociali in Italia è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi). Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento a cui è riservata la copertura. Di questi 9 miliardi annui, una quota appena inferiore ai 4 costituisce formalmente la contribuzione a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 600 milioni circa sono le entrate (a carico delle imprese) a copertura dell’indennità di mobilità, mentre la restante parte è destinata all’indennità di disoccupazione e alle neonate ASPI e mini-ASPI. Le uscite eccedenti (nulle nel 2007) vanno a carico della fiscalità generale: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013 (38,1 miliardi la spesa del triennio 2011-2013).
Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo. Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono ad un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso; inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Il paper analizza nel dettaglio i costi complessivi del sistema, le modalità con cui essi vengono finanziati, separando il contributo a carico delle imprese da quello a carico della fiscalità generale, ed inoltre analizza la struttura degli strumenti attivati ed alcuni principi e ipotesi di una loro riforma.
Scarica il Paper di ImpresaLavoro: Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia
Rassegna stampa
Libero
Il Fatto Quotidiano
Dragare i conti

Dragare i conti

Davide Giacalone – Libero

È in atto una doppia perversione: lo scontro politico più interessante e serio si svolge fra le mura della Banca centrale europea, che non ha, né deve o potrebbe avere, legittimità democratica; come se non bastasse, e in modo grottesco, a rendere più difficile la politica espansiva della Bce sono proprio i paesi che ne avrebbero più bisogno. La cancelliera tedesca non ostacola la Bce, ma neanche muove un dito per fermare la Bundesbank, che ha organizzato un drappello di governatori centrali (Lussemburgo, Olanda, Estonia e Lettonia) in modo da gestire la guerriglia contro Mario Draghi. I capi dei governi francese e italiano, che per primi dovrebbero sostenere i programmi della Bce, s’industriano, invece, per trovare buoni argomenti da fornire alla Bundesbank. Questa è la doppia perversione. Ieri affrontata al meglio, ma che non smette di proiettarsi nel futuro.

L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), nel suo Economic Outlook (previsioni economiche), preparato per il G-20 del prossimo 15 novembre, porta acqua al mulino di Draghi e di quanti ritengono necessaria una politica monetaria espansionistica: senza quella e senza riforme la crescita europea si fermerà, creando un problema globale. Il board della Bce, dal canto suo, come illustrato dal presidente in una conferenza stampa, è stato unanime nel vedere nero.

Intendiamoci: siamo i soli, nell’Unione europea, a essere ancora in recessione e in deflazione, talché le previsioni Ocse sulla nostra crescita sono ferme all’asfissia: +0,2 nel 2015, contro il +0,6 su cui si reggono (si fa per dire) i conti del governo. Ma Germania, Francia e Italia sono la parte largamente preponderante della ricchezza e della produzione europee, e, sommate, non corrono proprio per niente. A fronte di ciò Draghi ha detto e ridetto che non basta la politica monetaria, per sentire nuovamente il rombo dei motori, ma è necessario che quella sia accompagnata da riforme interne, che aumentino la competitività, la produttività e l’elasticità economica di ciascuno. Tradotto in modo brutale: meno garanzie e più opportunità; meno pensioni sicure e più rispetto per il risparmio; meno spesa pubblica corrente e più investimenti; meno pressione fiscale, senza nessun “più” ad accompagnarla.

Francia e Italia, inchiodate dall’incapacità delle loro classi dirigenti, rese tremule dal crescere di movimenti politici di rifiuto e di protesta (alimentati dall’incapacità di cui sopra), indebolite da una crisi che si allunga anche per i ritardi nel contrastarla, altro non hanno saputo fare che il contrario del necessario, reclamando maggiore deficit e maggiore debito pubblico. Come un dogato che reclami più droga, supponendo sia la migliore ricetta per disintossicarsi. Nell’anno in cui si sarebbe dovuto porre come ineludibile il tema del debito federale, restiamo appiccicati all’incapacità di gestire quello nazionale.

Accanto a questi grandi paesi, che la paura rende miniature, ci sono quelli cui la crisi è stata fatta pagare con il sangue (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) e che ora, magari dimenticando che la loro crescita è frutto dei soldi ricevuti (e che noi italiani abbiamo dato), sono alfieri del rigore perché non vogliono che ad altri sia evitato quel che a loro è stato imposto. Oltre la Manica c’è un Regno che ha seriamente rischiato d’essere disunito e la cui guida politica non solo non sa spiegare i danni dell’allontanamento dall’Ue, ma neanche sa presentare i conti dell’immigrazione interna europea: dalla quale guadagnano supponendo di perderci. In questo caos la Germania ancora approfitta d’essersi trovata nella posizione di chi trae vantaggio dalla difesa letterale dei trattati, accrescendo un ruolo egemonico che non ha mai portato fortuna a lei e men che meno all’Europa.

Il solo contrappeso comparso sulla scena è la Bce. Chi sa come e perché il mercato economico comune figliò la moneta unica sa anche il perché: possono esserci paesi forti, non possono esserci paesi che esercitano guida politica. La tragedia è che s’è trasferito dentro la Bce uno scontro politico che doveva trovarsi al Consiglio dei capi di Stato e di governo. Ieri l’esposizione della linea che si seguirà, positiva, ma per tutti impegnativa. La riassumo in cinque punti: 1. restano fermi, al minimo possibile, i tassi d’interesse; 2. il bilancio della Bce crescerà fino ai limiti della sua massima espansione, raggiunti nel 2012, il che significa che circa mille miliardi saranno pompati nel mercato; 3. sono allo studio tutte le possibili misure non convenzionali, compreso l’acquisto di titoli dal mercato (ai riluttanti è stato concesso il concetto di “studio” e l’uso del modo futuro nel coniugare i verbi); 4. i paesi membri devono curare il risanamento dei loro conti pubblici; 5. il patto di stabilità resta la credenziale di credibilità. Inutile sperare nei primi tre punti facendo i furbi sugli ultimi due. Ciò comporta che la legge di stabilità o la riscriviamo subito, o la riscriviamo, in emergenza e debolezza, fra sei mesi.

Vicolo cieco

Vicolo cieco

Davide Giacalone – Libero

Ci siamo infilati in un vicolo cieco. Lo percorriamo con baldanza, ma sempre budello ostruito è. Per rendersene conto si leggano, con attenzione e senza inutili polemiche, le cose dette dal ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, in Parlamento: la pressione fiscale diminuirà nel 2015, ma tornerà a crescere dal 2016. La diminuzione, come si legge nella legge di stabilità, è prevista in appena lo 0,1%. Non solo ci vorrà il microscopio, per vederla, ma sarà annullata dalla crescita delle addizionali locali. Se anche così non fosse, comunque è previsto che cresca dello 0,4 nel 2016. E il cielo non voglia che scattino le clausole di salvaguardia, altrimenti sarà uno schizzo poderoso. Posto che la disoccupazione non è prevista mai in discesa sotto il 12% e il prodotto interno lordo non è previsto mai in crescita più dell’1% (considerato già meta da sogno, comunque insufficiente), se ne trae la conclusione che siamo in un vicolo cieco.

Supporre di servire il debito pubblico, che intanto cresce, usando solo gli avanzi primari, in un’economia che non cresce, non è neanche un vicolo cieco, ma un nodo scorsoio. Di operazioni straordinarie non se ne vedono all’orizzonte. I dossier Cottarelli restano chiusi nel cassetto. Anzi, se Enrico Letta disse di volere usare il cacciavite, non essendo riuscito a trovare l’impanatura, Matteo Renzi ha promesso il caterpillar, ma fin qui siamo alle pinzette per la depilazione.

Sarebbe sciocco, oltre che inutile, attribuire tutte le responsabilità agli attuali governanti. Ma è non meno sciocco, e ancor più inutile, pretendere di negare la realtà. Nella legge di stabilità non solo mancano i tagli profondi della spesa pubblica, ma si opera in deficit senza che questo favorisca la ripresa. Non solo mancano le vendite di patrimonio per abbattere il debito, ma si consentono porcherie come la quotazione di Rai Way, che dismette patrimonio per foraggiare spesa corrente. Dov’è, allora, il punto di rottura oltre il quale si dovrebbe cambiare andazzo, o verso? Rispondere che consiste nelle riforme in cantiere, posto che su quelle (dal lavoro alla giustizia) c’è gran clangore di spade politiciste, gran vociare di pupi avversi, ma opacità profonda circa le concrete misure e i loro effetti nella realtà, è propagandismo spicciolo. Tanto non ha senso, una risposta di quel tipo, che ora si puntano gli occhi sulle manovre europee, a cominciare dai 300 miliardi di cui parla il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.

Ammesso (e non concesso) che quei soldi esistano, noi e i francesi stiamo facendo di tutto per dare scuse a chi non vuole utilizzarli. Non è tanto la polemica sui burocrati, che di suo è insensata (piuttosto: nelle istituzioni europee c’è certamente troppa burocrazia, spesso ottusa, come tutte le burocrazie, ma noi italiani manchiamo di alti burocrati capaci e influenti, da quelle parti, avendo continuato a spedirci gli altrimenti non collocabili). Quanto l’ostinarsi a non capire che le politiche espansive, che siano monetarie o frutto d’investimenti pubblici, richiedono rigore nell’amministrazione della spesa pubblica, altrimenti ci si indebita per niente. Tecnica che noi conosciamo bene. Se non si stoppa la spesa corrente improduttiva l’espansione monetaria somiglia alle trasfusioni fatte a un signore con la giugulare aperta: più pompi e più svasi. Vedo medici pazzi che corrono dicendo: più sangue, altrimenti muore. Ne serve uno che sappia cucire, in modo da rendere sensato il sangue trasfuso.

I numeri che il governo stesso mette nero su bianco descrivono una cartella clinica da morte celebrale. Il paziente non reagisce. Poi, per carità, facciamo un regalo all’imminente vedova, con 80 euro al mese, e uno alla figlia, con 80 euro per l’allattamento, ma non si riprende un accidente, dato che prendiamo 81 euro allo zio che ha comprato un appartamento e 82 al cugino che ha dei risparmi. Fatti i conti: a quella famiglia freghiamo i soldi. Fa rabbia, perché una tale sorte non è affatto ineluttabile. Gli strumenti per cambiare direzione di marcia ci sono eccome. Ma qui ci si trastulla litigando, sperando che le mazzate nascondano il vuoto retrostante.

Sulla cattiva way

Sulla cattiva way

Davide Giacalone – Libero

La quotazione di Rai Way è depauperazione di patrimonio pubblico e incentivo allo spreco. L’esatto contrario di quel che il governo dovrebbe fare e consentire che si faccia. L’azionista è la Rai, quindi lo Stato, che avrebbe il dovere di fermarla. Invece non solo è prevista per il prossimo 19 novembre, ma i mezzi di comunicazioni pubblicano le veline dei dati finanziari senza capire quel che significa l’operazione. O, dopo averlo capito, tacendolo.

Fra i tanti taglietti di spesa pubblica, che non sono una strategia di riduzione ma solo il tentativo (inadeguato) di far quadrare i conti, ci sono anche 150 milioni in meno di trasferimenti dallo Stato alla Rai. In un Paese in cui si volesse far scendere la spesa pubblica la conseguenza di quel taglio dovrebbe essere un taglio, almeno pari, delle spese della televisione pubblica. Invece no, perché i vertici Rai rimediano andando a prendere circa 300 milioni, il doppio, dal mercato, vendendo poco più del 30% della società che ha in pancia gli impianti di trasmissione. Non a caso il presidente di Rai Way altri non è che il Cfo, il responsabile della finanza, di Rai.

Al mercato raccontano che l’operazione sarà coronata dal successo, perché gli investitori affronteranno un rischio molto basso. Come mai? Perché Rai Way ha una redditività pari al 50% del fatturato e un fatturato che discende per l’83% dalla Rai. A questo si aggiunga che non è escluso, anzi esplicitamente considerato, che ai futuri azionisti sarà distribuito il 100% dell’utile. In altre parole: gli azionisti avranno una redditività dell’investimento che dipende dai soldi che la Rai (dello Stato) continuerà a spendere, senza che nulla resti alla società stessa. Ciò vuol dire che si quota un pezzo di una società che è dello Stato, allo scopo di rimediare a un taglio di trasferimenti operato dallo Stato, sistemando così un paio di bilanci (non andranno oltre uno e mezzo, perché i soldi che ci sono si spendono con gran facilità), talché, fra due anni, saranno con lo stesso problema e con meno patrimonio. Non stiamo parlando di una società privata, governata da viziosi, ma di una società dello Stato, di un patrimonio collettivo, affidata a galleggiatori temporanei.

Non è finita, perché inebriati dall’imminente sbarco in Borsa i vertici della società già annunciano che potrebbero comprare gli impianti di Wind. Mirabile capolavoro, tenuto presente che lo Stato (s)vendette gli impianti di Telecom Italia, con la peggiore privatizzazione della storia universale, per poi avere un’impresa di Stato, l’Enel, che tornò nel mercato delle telecomunicazioni, da cui lo Stato era appena uscito. Dettaglio: per tornarci, in posizione marginale, spese più di quello che si era incassato vendendo l’operatore dominante. Dopo di che, comunque, l’operazione fu un fallimento, quindi ri(s)venduta a privati. E ora l’idea è quella di ricomprare gli impianti che furono comprati e (s)venduti. Possibile che nessuno salti sulla sedia e si metta a urlare?

Non è escluso, dicono, che in futuro si comprino anche gli impianti di Ei Towers, vale a dire quelli che servono le reti Mediaset. Operazione da macchina del tempo, perché aveva un senso farla trenta anni addietro. Ma non si fece, perché era contraria la Rai. Credo fossero contrari anche quelli di Fininvest (il nome di allora), ma non ebbero neanche bisogno di dirlo. Oggi a cosa serve, la santa alleanza, a fermare i concorrenti? Tranquilli: entrano dalla voragine digitale. Perché certi costumi no, ma il resto del mondo è cambiato.

Infine, sapete da cosa deriva la forte posizione di Rai Way, nel mercato degli impianti di trasmissione? Certamente dagli investimenti Rai e dall’alto valore dei suoi tecnici. Ma anche dal fatto che la Rai ha costantemente violato le regole nazionali ed europee relative all’uso e all’occupazione delle frequenze. Compreso il fatto che interi settori, come la radio digitale (Dab), non sono mai decollati dato che continuava ad occupare spazi che il piano di ripartizione destinava ad altri usi e ad altre imprese.

È largamente probabile che alcuni degli attuali governanti neanche conoscano la metà di queste storie. Come è probabile che qualcuno, nel 2017, dirà che la quotazione fu una scemenza distruttiva di valore, capace solo di rendere meno interessante l’operazione che andrebbe, invece, fatta: la vendita della Rai. Mi limito ad avvertire che sarà un filino tardi.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

Anni di tagli alla spesa pubblica non compensano il calo del Pil. È la rozza sintesi della lunga crisi italiana, che si avvita su se stessa nel titanico sforzo di rientrare nei fatidici “parametri europei”. Solo la risalita del Pil potrebbe invertire le tendenza. Ma se il Pil non risale? Noi inesperti di economia ci permettiamo di domandarsi dove sta scritto che la produzione di beni e di ricchezza sia soggetta sempre e comunque a riprendere la sua corsa verso “le magnifiche sorti e progressive”. Nella Ginestra Leopardi usò quella fortunata espressione come amaro dileggio del cieco ottimismo umano. Liquidarlo come gufo – specie oggi che Leopardi è diventato ‘quasi pop’ anche grazie al bel film di Martone – non è un’operazione agevole.

Si vorrebbe tutti essere speranzosi e di buon umore, ma il sospetto che l’uscita dalla crisi si fondi su una sorta di ‘pensiero magico’, secondo il quale se oggi piove domani è automatico che ci sia il sole, è piuttosto forte. Nel frattempo, sempre da inesperti che si inchinano all’alto magistero di chi sa bene come funzionano le cose, qualcuno a Strasburgo o nelle varie capitali europee si sta chiedendo che fare se perfino in Germania il buon vecchio Pil si rifiuta, come un somaro recalcitrante, di rimettersi in moto. Esiste un piano B?

Per crescere tagliare più spese

Per crescere tagliare più spese

Stefano Lepri – La Stampa

No, la manovra di bilancio del governo Renzi non è «espansiva». Avrebbe potuto essere nettamene restrittiva se si fosse dato ascolto in pieno alle richieste della Commissione europea uscente, a José Barroso e a Jyrki Katainen. E quando, a ragione, giudichiamo esagerati i loro timori, ricordiamoci che del tutto infondati purtroppo non sono. La capacità dei governi italiani di contrastare la recessione con interventi di bilancio (meno tasse, o investimenti utili) è pesantemente limitata dal fardello di debito pubblico che ci portiamo addosso. Pesa l’eredità di scelte sbagliate dei governi passati; soprattutto negli anni dal 1981 al 1991 e dal 2000 al 2004.

Nel momento attuale, con tassi di interesse bassissimi in tutto il mondo, è lontano il pericolo che il debito italiano diventi instabile; più remoto, appunto, di quanto si ostinino a credere alcuni a Bruxelles e molti a Berlino. Inoltre è poco probabile che si ripeta una crisi interna all’area euro come quella del 2011-2012. Tuttavia, l’Italia deve esercitare prudenza. Sarebbe eccessiva l’austerità impostaci dal «Fiscal Compact» europeo; la Banca d’Italia conferma che ritiene giustificato non rispettarla. Ma, come Ignazio Visco avvertiva venerdì scorso, una manovra apertamente espansiva adottata dalla sola Italia potrebbe «dar luogo a reazioni negative da parte dei mercati».

Così com’è all’esame del Parlamento, la legge di stabilità 2015 è espansiva solo nel senso improprio di accrescere il deficit rispetto alle leggi vigenti (riduce le tasse più di quanto riduca le spese, se si considerano gli 80 euro come sgravio). In senso proprio, si limita a «rallentare il processo di aggiustamento dei conti pubblici»; in assoluto il deficit continua a ridursi, su questo si fonda anche il giudizio dell’Istat. All’interno dei vincoli dati, è possibile aiutare la crescita se si tagliano spese poco produttive sostituendole o con sgravi fiscali efficaci o con investimenti pubblici di qualità. Su questo è legittimo chiedersi se il governo abbia fatto abbastanza; specie dopo che ha accantonato proposte significative sulla spesa, quelle sulle partecipate locali e sulle stazioni appaltanti.

Dalla politica peraltro non vengono alternative valide. La destra, a cui il presidente del Consiglio ha sottratto uno dei cavalli di battaglia, il calo dell’Irap, si mobilita contro le tasse sulla casa: ma a parità di risorse è molto più efficace sulla crescita pagare meno Irap o altri tributi sul reddito. Movimento 5 stelle e Lega Nord vorrebbero uscire dall’euro: però oggi se fossimo fuori il costo del debito sarebbe quasi certamente più alto, non più basso. L’opposizione di sinistra, ossia la Cgil, vorrebbe un piano massiccio di investimenti pubblici finanziato da una patrimoniale. A parte le ben note (anche a tecnici di sinistra) difficoltà di tassare patrimoni diversi dagli immobili, occorre riflettere su un recente sondaggio: in grande maggioranza gli italiani ritengono che per ridurre gli squilibri sociali sia meglio calare le tasse ai poveri che aumentarle ai ricchi.

Costruttive invece sono le obiezioni venute ieri dalla Banca d’Italia, sul limitato valore di alcune misure, sui possibili inconvenienti di altre. Indicano una urgenza di riforme più profonde, piena responsabilità tributaria degli enti locali, maggiori ambizioni di rinnovamento della scuola. Più oltre, nel 2016 e 2017, i conti tornano solo grazie ad una «clausola di salvaguardia» che impone gravosi aumenti di tasse (Iva al 25% e oltre) qualora non si riesca a ridurre le spese. Quella distanza di tempo è il luogo dove si incrociano le grandi variabili del nostro futuro: se cambierà l’Italia, se si romperà la gabbia di sfiducia tra Stati che soffoca l’Europa.

Uno stato che non vuole dimagrire

Uno stato che non vuole dimagrire

Gaetano Pedullà – La Notizia

Resistere, resistere, resistere. Più si rischia di finire asfaltati dalla storia – prima ancora che dalle riforme – e più l’imperativo è alzare le barricate per non sparire. E conservare i privilegi di sempre. Guardiamo all’ultimo allarme della Banca d’Italia. Il Governo prova a mettere il Tfr in busta paga per sostenere i consumi e Palazzo Koch cosa fa? Boccia tutto, gettando nel panico chi potrebbe essere presto chiamato a scegliere, avvisando che le pensioni saranno più povere. Beh, è evidente anche al più sprovveduto che le risorse utilizzate oggi non ci saranno domani. Quello che appare meno chiaro è cosa ci stia a fare oggi la Banca d’Italia, priva di competenze sulla moneta e sulla vigilanza bancaria. Buon senso vorrebbe che si sciogliesse, anche per risparmiare i molti milioni che brucia strapagando dal governatore all’ultimo dei suoi privilegiatissimi impiegati. Un rischio concreto, che bisogna scongiurare, magari prima che a qualcuno venga voglia di cambiare verso pure su via Nazionale. Una musica identica a quella che si sente dalle parti dei sindacati, delle Regioni, di una burocrazia che sa di aver fatto il suo tempo. Ma che di mollare non ci pensa proprio.

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

Federico Fubini e Roberto Mania – La Repubblica

Prestiti dal Tesoro non regolarmente iscritti fra debiti, in Piemonte. Cessioni di immobili della Liguria che risultano partite di giro in grado di arricchire, grazie alle commissioni, solo la Cassa di Risparmio di Genova. “Discrasie” che impediscono alla Corte dei conti di “parificare” (cioè dichiarare credibile) il bilancio della Campania. POI le spese non coperte della Sardegna, i controlli inesistenti della Calabria, le leggi senza relazione tecnica della Sicilia, gli aumenti di capitale delle società termali della Toscana, le spese non giustificate dei presidenti in Trentino-Alto Adige, i 1.600 dipendenti fuori bilancio del Friuli. Non c’è quasi Regione che ne esca indenne. Da quest’anno la Corte dei Conti ha il potere di controllare e certificare i conti dei governatori, grazie a una norma dell’ottobre 2012. E da qualche mese nelle relazioni della Corte stanno venendo alla luce centinaia di trucchi e imbellettature che a volte sconfinano nella falsificazione dei bilanci.

L’esercizio della magistratura contabile è di quelli condotti al di sotto dei radar, senza clamori. È un’operazione fra le più ardue perché – miracolo del federalismo all’italiana – ogni Regione d’Italia scrive il bilancio in base a regole che si è scelta da sola. Nell’ultimo decennio quasi nessuna si era mai dovuta assoggettare a un controllo esterno. Ora però sta succedendo mentre si avvicina una legge di Stabilità che taglia 4 miliardi alle Regioni stesse. E da un esame delle carte della Corte emerge che in molti casi i tagli e la pulizia di bilancio saranno durissimi.

Fra i casi più controversi c’è il Piemonte, dove la magistratura contabile ha negato la “parifica”, cioè la certificazione, di parte del bilancio. Una relazione della Corte dell’11 luglio parla di “dubbi sulla corretta iscrizione a bilancio della anticipazioni”, cioè di oltre due miliardi di euro prestati dal Tesoro nel 2013 per pagare gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità. La Corte nota che il Piemonte nel 2012 “ha finanziato con le risorse ricevute dei debiti diversi”, e “passività pregresse extra bilancio”. L’accusa sarebbe dunque duplice: la giunta ha preso un prestito dal Tesoro per saldare le imprese creditrici, ma ha usato quei soldi per altre spese; in più, ha cancellato dal bilancio i debiti verso i fornitori già pagati, ma non ha iscritto i prestiti del Tesoro come nuovo debito. Se lo facesse uno Stato europeo, sarebbe un caso politico dirompente a Bruxelles e a Francoforte.

Ancora più drastico il giudizio sulla Campania, relativo al bilancio 2012. La Corte nega in blocco la parifica. “La Procura Regionale – si legge nella requisitoria del giudice – condivide le osservazioni attinenti alla mera regolarità contabile formulate dalla Sezione di controllo”. Poche parole burocratiche ma devastanti, a fronte di un bilancio da 16,8 miliardi con un deficit di 1,7 miliardi. La giunta ha fatto ricorso e per ora ha ottenuto il ritiro del giudizio della Corte dei Conti, ma questa resta un’amministrazione “vicina al default”.

Molto duro poi anche il giudizio sulla Liguria, dove la Corte nega il timbro su 91 milioni di “residui attivi” (crediti presunti ma in realtà inesigibili), su 103 milioni di cessioni di immobili e su 17,5 milioni di operazioni in derivati con la banca americana Merrill Lynch. L’amministrazione ligure presenta in realtà anche problemi più piccoli ma quasi grotteschi. Primo fra tutti, un bonus fino al 20% della paga in più dato ai direttori delle Aziende sanitarie. La Corte parla di “stortura”, perché l’obiettivo di produzione del premio di produzione 2013 ai dirigenti Asl viene fissato un mese prima della fine dell’anno stesso a un livello molto vicino: impossibile mancarlo, a quel punto. “Una scelta del tutto irrispettosa dei principi di efficienza”, dice il magistrato. Ancora peggio la presunta “cessione” per 103 milioni di immobili della Regione a Arte, un ente strumentale della Regione e con i soldi sempre della Regione transitati da un conto di Carige: certificazione negata.

Assai seri anche i problemi del Veneto, anch’esso a rischio bocciatura: la requisitoria del magistrato parla di “errori” di contabilizzazione dell’indebitamento e “rappresentazioni contabili scorrette”. Ma pure le giunte che passano l’esame non ne escono bene. Nelle provincie autonome di Trento e di Bolzano spese “di rappresentanza” dei due presidenti per decine di migliaia di euro non hanno giustificativi ritenuti credibili. In Toscana nel 2013 emerge uno scostamento al rialzo addirittura del 75% delle spese fra preventivo e consuntivo, da quota 10,4 miliardi fino a 18,4 miliardi. La giunta, invece di privatizzare, si è addirittura spinta a salire nel capitale della società Terme di Chianciano e in Fidi Toscana, una finanziaria in perdita che ha partecipazioni in tutto: dai caseifici della Maremma agli allevamenti ittici. Quanto al Friuli-Venezia Giulia, la Corte mostra che presenta 2.800 dipendenti, ma altri 1.700 lavorano per la stessa Regione, fuori bilancio, in un “sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società, enti funzionali”.

Insomma, credevamo che il fiscal compact ci avesse cambiato la vita. Fine della finanza pubblica allegra, nessuno sforamento se non in casi eccezionali. Le Regioni italiane, però, senza troppo clamore, vivono in un’altra epoca. Violando le regole dell’Unione, quelle del Parlamento nazionale, quelle del buon senso come quelle, infine, delle “più elementari regole contabili “, come ha scritto la Corte dei Conti nella relazione al bilancio della Sardegna. Già perché da quelle parti, ma non solo da quelle parti, si è davvero esagerato. Come nel 2010 e nel 2011 anche nel 2013 si è ricorso all’esercizio provvisorio. Il bilancio 2013 è stato approvato a maggio. Ma nel frattempo i legislatori sardi hanno approvato leggi senza alcuna copertura finanziaria, rinviando, per le coperture, proprio alla legge di bilancio che sarebbe arrivata dopo.

Pensate se un simile schema fosse adottato da un governo nazionale nei confronti di Bruxelles: prima spendo poi troverò le coperture. I giudici contabili parlano di una situazione “particolarmente grave”, di una situazione di “irregolarità complessiva”. E irregolarità per irregolarità, la regione Sardegna ha continuato a trasferire risorse alle partecipate, spesso senza che queste abbiamo un regolare contratto di servizio e spesso nonostante siano in perdita. Trasferimento, in quest’ultimo caso, in violazione della legge. C’è pure il caso della Fluorite di Silius (manutenzione e bonifica delle strutture minerarie) finita in liquidazione dal 2009. Bene, nel 2013 la Fluorite ha aumentato la propria spesa per il personale passando da poco più di tre milioni a 3,7 milioni. Si può? Certo che no. E la legge stabilisce che spetti proprio all’amministrazione regionale controllante il compito di contenere le voci della spesa corrente. Ma questa è una società partecipata da una Regione per di più a statuto speciale. Regione che non controlla nulla, non le partecipate, ma nemmeno i suoi assessorati. Hanno scritto i giudici della Corte dei Conti: “Si è potuto riscontrare che la Regione non esercita alcun controllo, in termini di semplice conoscenza, su aspetti essenziali ai fini dell’esercizio dei propri compiti gestionali e della propria programmazione finanziaria “. Regioni come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo.

In Sicilia solo la metà delle leggi presentate dalla giunta sono accompagnate dalla relazione tecnica. “Ciò – scrivono i giudici contabili – non consente l’emersione di oneri che potrebbero rimanere occulti “. D’altra parte siamo nella regione in cui ci sono ancora pensionati con l’assegno calcolato sull’ultima retribuzione tanto che dal 2009 al 2013 la spesa previdenziale è cresciuta dell’8%. L’89% delle risorse va a spesa corrente il che pone “a serio rischio, per il futuro, il mantenimento dei necessari equilibri di bilancio”, scrive la Corte.

Andiamo in Calabria. Qui i debiti fuori bilancio sono diventati la norma, non l’eccezione. Nell’esercizio del 2013 sono stati riconosciuti oltre 2,3 milioni di debiti senza copertura ai quali aggiungere 24,5 milioni di debiti “da riconoscere ” già pagati a seguito di pignoramenti senza però copertura. In totale quasi 27 milioni di debiti scoperti. “L’esistenza di debiti senza copertura finanziaria condiziona pesantemente gli equilibri finanziari della Regione, in piena continuità ed assonanza con la deleteria prassi di procedere al riconoscimento di debiti fuori bilancio per somme sempre più ingenti”. Ma quando si arriva a pagina 55 del Giudizio sulla Calabria si rischia di rimanere allibiti: “La Regione non solo non è dotata di strumenti e sistemi atti a garantire in termini di cassa il rispetto dei vincoli tra entrate e spese, ma non è oggettivamente nelle condizioni di conoscere le proprie disponibilità di cassa vincolata dell’anno, né quelle per le quali occorrerebbe provvedere alla ricostituzione. Tale situazione costituisce violazione del principio di trasparenza ed è certamente foriera di una grave situazione di squilibrio della gestione vincolata della cassa regionale”. E anche di quelle statali, aggiungiamo noi.

CNEL: la Legge di Stabilità blocca il suo funzionamento ma non gli sprechi

CNEL: la Legge di Stabilità blocca il suo funzionamento ma non gli sprechi

NOTA

Si può essere più o meno d’accordo sulla necessità di tenere in vita il CNEL, che verrebbe ‘soppresso’ nel disegno di legge costituzionale approvato dal Senato e tra breve all’esame della Camera. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 del disegno di Legge di Stabilità contiene misure che ne rendono impossibile il funzionamento poiché prescrive che «l’espletamento di ogni funzione connessa alla carica di Presidente o Consigliere del CNEL così come da qualsiasi attività istruttoria finalizzata alle deliberazioni del Consiglio non può comportare oneri a carico della finanza pubblica ad alcun titolo».
Non solo vengono eliminate le indennità (circa 25.000 euro lordi l’anno per consigliere) ma anche i rimborsi dei viaggi per i consiglieri che risiedono fuori Roma. In questo modo si rende impossibile il raggiungimento del numero legale nelle Commissioni ed in Assemblea. Al limite sarebbe vietato anche accedere la luce. Appare davvero molto dubbia la costituzionalità di una norma che rende impossibile il funzionamento di un organo di rilevanza costituzionale.
Al tempo stesso, però, il Segretariato generale e l’ottantina di dipendenti attualmente in organico resterebbero comunque a Villa Lubin. Non è chiaro a fare cosa. È invece chiarissimo che in questo modo, ‘risparmiando’ solo un milione di euro del bilancio annuale del CNEL, andrebbero sprecati i restanti 12 milioni. Non sarebbe meglio sopprimere questo comma della Legge di Stabilità e procedere invece speditamente con la riforma costituzionale che prevede anche la soppressione del CNEL?