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Zero tasse sulle start up per rilanciare l’occupazione

Zero tasse sulle start up per rilanciare l’occupazione

di Massimo Blasoni – La Verità

C’è poco per le imprese e il rilancio dell’economia nella legge di Stabilità che verrà portata in Parlamento. Certo non si può pretendere molto da una manovra sostanzialmente assorbita dalla sterilizzazione dell’aumento dell’Iva. Tuttavia sono state proposte soltanto una nuova decontribuzione sulle assunzioni dei giovani a tempo indeterminato (aperte soltanto per il primo anno agli under 35) e il mantenimento degli iper ammortamenti per alcuni investimenti aziendali. Misure condivisibili ma non sufficienti, se solo pensiamo che lo scorso anno sono espatriati ben 124.076 italiani (+15,4% rispetto al 2015), di cui quasi la metà sono giovani, e soprattutto se consideriamo che restiamo l’unico grande Paese europeo con un Pil reale inferiore a quello del 2007, ultimo anno pre-crisi.

Poiché vi è poco spazio per nuova spesa pubblica vanno create le condizioni per nuovi investimenti privati. Occorre sburocratizzare per favorire le imprese esistenti ma necessitiamo anche, e forse soprattutto, di nuove imprese: un’occasione per i giovani per creare occupazione e dispiegare la propria creatività senza dover cercare un approdo fuori dai confini nazionali.

Per favorire la costituzione di start-up esistono decine di programmi di contributi pubblici che Stato e regioni hanno fin qui attivato senza ottenere grandi risultati. Si tratta spesso di misure tortuose (rese impervie da innumerevoli domande, bolli e regolamenti) che rimangono in parte inutilizzate o che paradossalmente impiegano la maggior parte delle risorse nelle strutture pubbliche preposte alle istruttorie dei singoli progetti. Passano anni prima che i richiedenti ricevano finanziamenti o garanzie al credito: nel frattempo l’azienda è autonomamente decollata oppure è già morta.

Un’idea liberale per creare nuove imprese? Ridare vita al decreto Tremonti n. 357 del 1994, che stabiliva la completa detassazione delle nuove imprese costituite da under 32. Toglieva Ires e Irap, eliminava le imposte comunali per l’esercizio di imprese e sugli immobili; toglieva anche la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche e soprattutto (e per ogni tributo) i connessi adempimenti. Quel beneficio valeva per un triennio e sino alla rilevante soglia di un miliardo annuo di lire, cioè un milione di euro attuale o giù di lì. Se riproposta, questa misura potrebbe favorire la nascita di un rilevante numero di imprese e connessi posti di lavoro. Funzionerebbe? All’epoca funzionò e personalmente fu decisiva affinché nel 1996 decidessi anch’io di avviare un’attività con ex compagno di classe: oggi è una Spa che occupa quasi 2.500 persone e opera in tutta Italia.

Diseguaglianza economica: un’apologia

Diseguaglianza economica: un’apologia

di Andrea Mancia e Simone Bressan

Qualcuno lo chiama il “Re filosofo della Silicon Valley”. Per qualcun altro è semplicemente l’ennesimo capitalista diventato ricco alle spalle dei meno fortunati. Comunque la si pensi, però, è davvero difficile restare indifferenti nei confronti di Paul Graham, della sua storia e delle sue idee. Lui – nella biografia del proprio sito personale (un classico esempio di Internet 1.0: molta sostanza e grafica iper-vintage) – si definisce programmatore, scrittore e investitore. E in effetti la cronologia della sua vita professionale si sviluppa proprio in quest’ordine. Graham nasce come “coder” esperto in Common Lisp: una derivazione moderna del linguaggio di programmazione inventato alla fine degli Anni Cinquanta da John McCarthy (uno dei padri dell’Intelligenza Artificiale) al Massachusetts Institute of Technology (MIT). E proprio alle tecniche di programmazione sono dedicati i suoi primi libri, scritti nei primi Anni Novanta.

Laureato in “computer science” ad Harvard (prima di studiare pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze), Graham affianca quasi subito, alla passione per i linguaggi di programmazione, l’arte e la scrittura, anche uno spiccato senso imprenditoriale. Nel 1995, insieme a Robert Morris, fonda Viaweb, una delle prime compagnie che prova ad immaginare il software come un servizio, piuttosto che un prodotto da vendere sugli scaffali di un negozio specializzato. Con Viaweb, qualsiasi utente – anche con scarse conoscenze informatiche – può creare e gestire, direttamente sul web, un proprio sito di e-commerce. Nel 1998 Viaweb viene acquistata da Yahoo (dove diventerà Yahoo Store) per la cifra di 50 milioni di dollari. E Graham decide di investire la propria neonata fortuna investendo nelle start-up più promettenti della Silicon Valley. La cosa funziona: nel 2005, insieme a Robert Morris, Jessica Livingston e Trevor Blackwell, fonda “Y Combinator”, un incubatore di start-up che in dieci anni ha già finanziato più di 800 aziende nate da zero, tra cui Dropbox, Airbnb, Stripe e Reddit.

La figura di Graham, finora conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori della Silicon Valley, è improvvisamente diventata di dominio pubblico all’inizio di quest’anno. Tutta “colpa” di un lungo saggio pubblicato su www.paulgraham.com, dal titolo apparentemente innocuo (“Economic Inequality”: diseguaglianza economica), che ha scatenato una vera e propria bufera digitale negli Stati Uniti, con migliaia di tweet e interventi sui social media che si sono rincorsi per giorni. La tesi del fondatore di “Y Combinator”, nonostante la reazione indignata dei social justice warriors di professione, è piuttosto semplice (tanto che, per evitare ulteriori fraintendimenti, Graham ne ha pubblicato anche una versione ridotta all’osso).

La diseguaglianza economica – sostiene Graham – non è un male in sé, perché le sue radici sono multiple: alcune buone e alcune cattive. Può essere causata dall’evasione fiscale o dal razzismo. E questo è male. Ma può anche essere causata dalla moltiplicazione delle start-up di successo. E questo è bene.

La diseguaglianza economica, insomma, non è affatto un sinonimo di problemi reali come la povertà o l’assenza di mobilità sociale, ma casomai una delle conseguenze di questi problemi. Ma se è la diseguaglianza in sé a diventare il nemico da abbattere, nessuno ci assicura che grazie alla sua scomparsa riusciremo a risolvere i problemi reali che ci stanno a cuore. «Proviamo a combattere la povertà – scrive Graham – e se necessario non esitiamo a danneggiare la ricchezza. È molto meno sensato, invece, combattere la ricchezza sperando in qualche modo di risolvere il problema della povertà».

L’errore logico centrale dei fautori della “giustizia sociale ad ogni costo” è rappresentato, secondo Graham, da quella che lui definisce “pie fallacy” (si potrebbe tradurre in qualcosa di simile a “l’errata credenza della torta”). Si tratta della convinzione che l’unico modo per arricchirsi sia quello di sottrarre risorse a chi ne ha di meno, che l’unico modo per mangiare più fette di torta sia quello di sottrarre fette di torta a qualcun altro.

«Il problema – scrive Graham – è che siamo cresciuti in un mondo in cui la pie fallacy è effettivamente reale. In famiglia, da bambini, la ricchezza è davvero una torta dalle dimensioni fisse: quando qualcuno ottiene qualcosa in più è sempre a spese di qualcun altro. Serve uno sforzo mentale non indifferente per ricordare a se stessi che il mondo reale non funziona in queso modo. Nel mondo reale si può creare ricchezza in molti modi, non solo togliendola ad altri. Un falegname crea ricchezza: ci costruisce una sedia e noi gli diamo volontariamente soldi in cambio della sua creazione. Al contrario, un high-frequency trader non crea ricchezza, visto che guadagna un dollaro solo quando qualcuno, dall’altra parte dello scambio, perde un dollaro. Se le persone, in una società, diventano ricche togliendo solo denaro ai poveri, allora abbiamo un caso di diseguaglianza economica degenerata, in cui le cause della povertà sono le stesse cause della ricchezza. Ma se un falegname costruisce cinque sedie e un altro falegname ne costruisce una sola, il secondo sarà meno ricco del primo, ma non certo perché il primo gli abbia sottratto alcunché».

La ricchezza di una società, insomma, non è un gioco a somma zero. E in un mercato libero, molti diventano ricchi senza togliere niente a nessun altro. Anzi, diventano ricchi creando ricchezza. E il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha moltiplicato e accelerato questa dinamica.

«Negli anni Sessanta, quando la diseguaglianza economica era più bassa – spiega Graham – quello che oggi sarebbe un potenziale creatore di una start-up aveva solo due strade davanti a sé: farsi assumere da una grande azienda o insegnare in un’università. Prima di lanciare Facebook, Mark Zuckerberg era convinto che sarebbe finito a lavorare per Microsoft. La vera ragione per cui lui, insieme ad altri fondatori di start-up, è finito per diventare molto più ricco di quanto non sarebbe potuto esserlo verso la metà dello scorso secolo, non è per qualche oscura macchinazione organizzata durante l’Amministrazione Reagan, ma perché il progresso della tecnologia ha reso molto più semplice creare nuove aziende in grado di crescere rapidamente».

O si vieta del tutto la possibilità alle persone di inseguire il sogno della ricchezza, insomma, oppure bisogna rassegnarsi a fare i conti con una diseguaglianza economica crescente,

«Io credo – conclude Graham – che la crescente diseguaglianza economica sia il destino inevitabile di nazioni che hanno scelto di non diventare qualcosa di nettamente peggiore. E quanto ascolto le persone parlare di quanto la disuguaglianza economica sia un fatto negativo e di come si dovrebbe cercare di ridurla, mi sento come un animale selvatico che sta origliando una conversazione tra cacciatori. (…) Ma su questo punto bisogna essere perfettamente chiari. Eliminare le grandi variazioni di ricchezza significa eliminare del tutto la possibilità che nascano nuove start-up. Siete sicuri, cacciatori, di voler davvero sparare a questo strano animale? Tra l’altro, potreste soltanto limitarvi ad eliminare le start-up nel vostro paese. Le persone sono già abituate a spostarsi in giro per il mondo allo scopo di migliorare la propria vita professionale. E qualsiasi start-up può ormai operare in qualsiasi parte del pianeta. Così, anche se riusciste a rendere impossibile la creazione di ricchezza nel vostro paese, l’unico risultato sarebbe quello di costringere le persone ambiziose ad andarsene per inseguire i propri sogni altrove. Il che vi garantirebbe senz’altro un Coefficiente di Gini più basso, ma anche una lezione sulla necessità di essere estremamente cauti quando si desidera qualcosa».