stefania tamburello

Gli italiani si rifugiano nel risparmio

Gli italiani si rifugiano nel risparmio

Stefania Tamburello – Corriere della Sera

Gli italiani hanno ripreso a risparmiare. Per il secondo anno consecutivo, dopo la caduta seguita allo scoppio della crisi, è infatti aumentata, passando dal 29 al 33%, la quota di famiglie che negli ultimi 12 mesi sono riuscite a mettere i soldi da parte. «Il valore del risparmio è nel Dna dei nostri concittadini, anche – e forse soprattutto – in momenti difficili come questo», ha osservato Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, l’Associazione tra le Casse di risparmio e le fondazioni di origine bancaria, che oggi celebra la 90esima giornata del risparmio, presentando la ricerca elaborata da Ipsos. Gli italiani «formiche», dunque, che di fronte ad una crisi più grave e lunga del previsto – l’87% degli intervistati dall’Ipsos ritiene che durerà ancora 5 anni – hanno preso nuove misure rimodulando le strategie di spesa.

A spingere questa rinnovata voglia di risparmiare sarebbe quindi l’incertezza, unita al timore dell’aggravarsi della situazione economica che non consiglia di impegnarsi in grosse spese – e la contemporanea caduta degli acquisti di immobili lo dimostra – ma di approvvigionarsi di fronte all’imprevisto. È però possibile anche che alcuni si siano adattati alla crisi meglio di altri con quella dualità che caratterizza per esempio l’andamento delle industria, un terzo delle quali esporta e non soffre. Il dato che segna la differenza è quello che rivela come circa un terzo delle famiglie italiane – il 26% del campione – non sarebbe in grado di far fronte con sue risorse a una spesa imprevista di mille euro e quello che invece fa salire al 74% la quota impreparata a una di 10 mila euro. Tra queste percentuali si inseriscono le famiglie colpite direttamente dalla crisi pari al 27% in diminuzione dal 30% del 2013 e quella, il 23% (erano il 26% nel 2013), dei nuclei che segnalano un serio peggioramento del proprio tenore di vita negli ultimi due anni.

Di contro aumenta, e raggiunge il 50%, cioè un italiano su due, la quota di chi si dichiara soddisfatto della propria situazione economica: negli ultimi tre anni la percentuale degli insoddisfatti era sempre stata superiore. Significativo anche il balzo fatto dagli ottimisti rispetto ai pessimisti: rappresentano il 24% e il 21%, nel 2013 erano rispettivamente il 21% e il 28%. I più fiduciosi sono i giovani e gli over 45 mentre restano scettici gli individui dai 31 ai 44 anni: i più colpiti dalla crisi. Gli investimenti infine: l’incertezza ha accentuato la preferenza per la liquidità – svettano i depositi in conto corrente – mentre continua la contrazione dell’ appeal del «mattone» anche a causa delle tasse.

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Stefania Tamburello – Corriere della Sera

Ancora un record per il debito pubblico, che è un primatista eccezionale. Recede raramente e va sempre avanti: in maggio, secondo i dati della Banca d’Italia, è cresciuto di 20 miliardi arrivando a toccare i 2.166,3 miliardi. Una cifra altissima. Toccò la cifra di un miliardo di lire nel 1948 e dieci anni fa, a maggio del 2004, era a 1.471,804 miliardi di euro.

Fatte le riflessioni sulla pesantezza dei numeri, si deve osservare che i record, mese dopo mese, non devono sorprendere perché nella sostanza il debito si accresce perché le entrate dello Stato continuano ad essere inferiori alle sue spese facendo emergere un fabbisogno da finanziare. I titoli che lo Stato emette per raccogliere le risorse di cui ha bisogno rappresentano circa l’83% del debito e producono a loro volta interessi da pagare a chi li ha comprati che incidono sul bilancio e quindi finiscono per produrre altro debito.

In secondo luogo il dato più significativo per capire quanto il debito limiti l’azione di uno Stato è il suo rapporto con il Prodotto interno lordo che in Italia, vista la stagnazione seguita all’uscita dalla recessione, è molto alto, superiore al 132%. È questa percentuale, non il valore in assoluto, che fa dell’Italia, agli occhi degli investitori, un Paese a rischio, perché il reddito che produce non sarebbe in grado di far fronte ai debiti.
Di positivo c’è il fatto che l’Italia è un ottimo pagatore e che, se si esclude il periodo nero a cavallo tra il 2011 e il 2012, ha sempre goduto della fiducia degli investitori istituzionali e non ha problemi a collocare i suoi titoli sul mercato a costi che negli anni sono comunque diminuiti.
Come dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, «la via maestra per ridurre il debito è solo una crescita sostenuta». Per il resto, a meno di operazioni straordinarie finora solo immaginate, la strada per farlo calare passa necessariamente per avanzi primari di bilancio crescenti e quindi con una riduzione del fabbisogno e delle spese correnti, visto che le entrate – vedi le tasse – sono ai massimi e a loro volta frenano la crescita. Ieri la Banca d’Italia ha diffuso anche il dato sulle entrate tributarie, pari in maggio a 31 miliardi, in aumento del 2,9% rispetto allo stesso mese del 2013. Nei primi cinque mesi dell’anno le entrate sono invece cresciute dell’1,6% (2,2 miliardi).
Ogni italiano, quando nasce, ha già circa 30 mila euro di debiti. Ma chi ne è responsabile? In maggio, spiega il comunicato di Bankitalia, il debito è aumentato di 20 miliardi: l’incremento riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro, pari a 92,3 miliardi contro i 62,4 miliardi di maggio 2013, che sono in pratica il cuscinetto di risorse che il ministero utilizza per le necessità correnti. In particolare, approfittando del buon andamento dei tassi di interesse dei primi mesi dell’anno, il Tesoro, spiegano a Via Venti settembre, ha fatto pre-funding, ha collocato cioè più titoli di quanto avesse bisogno per poter affrontare con tranquillità le più pesanti scadenze della seconda metà dell’anno. Ha messo insomma fieno in cascina per il periodo di maggior bisogno,approfittando delle condizioni favorevoli di approvvigionamento, sintetizzabili in un unico dato. Il costo medio dell’emissione dei titoli nei primi mesi del 2014 è stato pari all’1,58%, il minimo storico per l’Italia. Non per nulla la gestione dei titoli aggiunta agli effetti dell’apprezzamento dell’euro hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.
Questo aumento di 20 miliardi, dice ancora il comunicato dell’Istituto di via Nazionale, è il risultato di un aumento di 20,9 miliardi del debito delle amministrazioni centrali e di una diminuzione di 0,9 miliardi di quello delle amministrazioni locali, con l’invarianza di quello degli enti previdenziali. Ma al di là della distribuzione tra centro e periferia, sul debito incidono – e la cosa è visibile nei dati definitivi del 2013 – anche il programma dei pagamenti dei crediti della Pubblica amministrazione alle imprese e la partecipazione dell’Italia ai piani di sostegno dei Paesi europei in difficoltà.

L’anno scorso, infatti, il fabbisogno pubblico da finanziare è stato pari a 78,8 miliardi a fronte di 74,2 miliardi nel 2012. Su quella cifra, però, hanno inciso le risorse destinate al sostegno finanziario dei Paesi dell’Eurozona in difficoltà, pari a 13 miliardi (erano stati 29,5 nel 2012 e 60 miliardi dal 2010 ad oggi), e i fondi per accelerare il pagamento dei debiti commerciali delle Pubbliche amministrazioni e dei rimborsi fiscali, pari a 21,6 miliardi, ma che dovrebbero arrivare a 40 miliardi entro il 2014. Interventi e cifre, questi, che hanno dunque appesantito il fabbisogno da finanziare e quindi il debito, anche se quest’ultimo, vista la sua ampiezza, sembra poter camminare da solo. Nel Documento d’economia e finanza il governo ha previsto che il rapporto debito-Pil, pari nel 2013 al 132,6% (al 129,1% al netto del sostegno finanziario ai Paesi europei), salga nel 2014 al 134,9% proprio, prevalentemente, per effetto dell’accelerazione del pagamento dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche. Guardando al numero assoluto del debito, l’83% è rappresentato da titoli di Stato che per circa il 30% sono detenuti da soggetti stranieri, o comunque non residenti in Italia. In giugno il 65,73% dei titoli in circolazione, con una vita media residua di 6,33 anni, erano Btp, seguiti lontanissimo, con il 7,85%, dai Bot.