stefano folli

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Operazione attenta al consenso ma non manovra elettorale vecchio stile

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Intorno alle cifre imponenti della manovra di Renzi si discuterà a lungo: dal rapporto fra tagli di spesa e risorse in deficit alla verosimiglianza dell’intero pacchetto, fino alle effettive coperture. Che sia un progetto ambizioso, è chiaro a tutti. Che sia anche realistico, lo si vedrà presto.

Appare chiaro che il presidente del Consiglio gioca su due fronti. Quello europeo è evidente a tutti. Ma l’ambizione che traspare dai numeri va molto al di là del rigido rispetto dei parametri. Sulla carta il famoso tetto del 3 per cento di deficit è rispettato, ma si sono anche poste le premesse dello sfondamento, nel caso in cui i vari tasselli del mosaico non si collocassero tutti al loro posto: cioè se le maggiori spese non fossero compensate da tagli efficaci e soprattutto autentici. Quindi si coglie un rischio calcolato e persino temerario nelle cifre di Palazzo Chigi, anche se non proprio una sfida all’Unione. Ora spetterà alla Commissione di Bruxelles studiare la manovra nel merito, voce per voce, e giudicare la sua serietà. Non sarà, come tutti prevedono, un esame facile e il pericolo della bocciatura s’intravede sullo sfondo.

Tuttavia c’è anche il secondo fronte, a cui Renzi è particolarmente attento. Un secondo fronte che riguarda il rapporto fra il premier e l’opinione pubblica interna. Sotto questo aspetto la legge di stabilità del centrosinistra è una miscela ben congegnata per piacere al maggior numero possibile di italiani. I miliardi destinati ad abbassare le tasse delle imprese servono, almeno nelle intenzoni, a conquistare il mondo produttivo. Al tempo stesso, gli 80 euro confermati nelle buste paga vogliono rendere più solido il patto politico con i bassi redditi.

È chiaro che l’operazione è tutt’altro che banale. Non è una mera ricerca di consenso; al contrario è soprattutto il tentativo di imprimere una spinta significativa a un’economia che non esce dalla recessione: con un Pil tornato ai livelli di quattordici anni fa, cioè al 2000. Ma in ogni caso è anche una legge molto “politica”, nel senso che Renzi l’ha modellata sull’Italia che ha in mente: da un lato, il paese di chi produce e compete sui mercati eppure si sente soffocato; dall’altro, la platea di chi – singoli o famiglie – ha pagato fin qui il prezzo più salato alla crisi. Tale profilo politico della manovra è stato tratteggiato pensando al possibile «blocco sociale» che il premier ha in mente. Quindi è un errore limitarsi a dire che si tratta di una legge scritta pensando alle elezioni anticipate. Anche perché al momento il voto non è vicino, come non è vicina la riforma elettorale maggioritaria che Renzi considera l’indispensabile lasciapassare per le urne.

Detto questo, è certo che si tratti di un passaggio verso il consolidamento del consenso “renziano” nel paese. Consenso che ha bisogno di mettere radici nell’Italia profonda. Poi, una volta rafforzate le radici, il premier potrà giocare con maggiore sicurezza le sue carte. E magari immaginare quel ricorso alle urne che oggi è prematuro. Del resto, è chiaro che una manovra del genere “lacrime e sangue” oggi non sarebbe praticabile in una nazione stremata. Mentre una legge di stabilità come l’attuale permette di tenere in tasca, fin quando non sarà utile, la carta dello scioglimento del Parlamento. E c’è da credere che al momento opportuno, non sappiamo quando, Renzi vorrà giocarla.

Con un occhio al quadro interno

Con un occhio al quadro interno

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Può esistere oggi un’alleanza in funzione anti-austerità fra le cancellerie europee che soffrono il rigore tedesco? Fino a ieri era un’ipotesi di scuola e anche ora, nonostante le apparenze, non sembra che una tale svolta sia a portata di mano. Ma la mossa di Parigi che decide di non rispettare il parametro del deficit ha una portata politica e Renzi l’ha colta al volo. Con una sottolineatura che però fa tutta la differenza: a differenza della Francia, dice il presidente del Consiglio, l’Italia intende rispettare il vincolo del 3 per cento. Questo significa che non c’è una vera alleanza strategica fra due capitali che hanno problemi molto diversi: se ci fosse, le conseguenze sui mercati sarebbero poco piacevoli per entrambe (lo ha spiegato bene Carlo Bastasin su queste colonne).

Quella che appare una convergenza anti-tedesca è più che altro una congiuntura vissuta da ogni paese a suo modo e in base a specifiche convenienze. Il governo socialista di Parigi deve puntellare se stesso e tenere a bada l’estrema destra di Marin Le Pen. E il nostro Renzi, cui invece il consenso interno non manca, si gioca una partita fatta di rapide incursioni e di frasi memorabili. La sentenza di ieri («Non siamo scolari a cui si deve impartire una lezione») è ovviamente indirizzata ad Angela Merkel ed è resa possibile dal varco aperto da Hollande. Quindi, nel momento in cui fa capire che la questione del deficit divide Parigi da Roma e che l’Italia intende attenersi nella sostanza all’ortodossia europea, Renzi dimostra di voler sfruttare fino in fondo l’occasione mediatica offerta dalla mossa francese.

Non solo. C’è un terzo soggetto sul palcoscenico ed è l’inglese Cameron che ieri ha incontrato il collega italiano. Anche il governo di Londra, come è noto, ha bisogno di recuperare terreno nell’opinione pubblica e di tenere a bada i laburisti. Senza cedere troppo terreno ai nazionalisti di Farage, ossia – grosso modo – all’equivalente britannico di quel partito anti-euro che in Germania sta creando non pochi pensieri alla Merkel. Vale la pena ricordare che poco tempo fa la stampa inglese espresse grande delusione verso il premier italiano che aveva rinunciato a sostenere la campagna di Cameron contro la nomina di Juncker a presidente della Commissione. Il che significa che anche in questo caso, al di là delle dichiarazioni di facciata, non esiste un’ipotesi di asse strategico con la Gran Bretagna, paese che fra l’altro non aderisce all’euro.

In parole povere, Renzi si è affrettato a cavalcare anche a Londra l’onda provocata dal colpo di coda francese. La Merkel registrerà il sussulto, ma è dubbio che voglia o possa cambiare qualcosa nelle politiche europee. Vedrà quello che vedono tutti: e cioè che la polemica Francia-Italia-Gran Bretagna è la somma di tre diversi risentimenti. Tutti a vario titolo giustificati, ma insufficienti nel loro insieme a imporre una virata a Berlino. Tanto più che l’ascesa degli anti-euro potrebbe indurre la Cancelliera a indurire l’atteggiamento verso i partner, non ad addolcirlo con il rischio che gli elettori tedeschi la prendano male. Come dire che ognuno recita una parte con la mente rivolta alla politica interna. Renzi su questo terreno non è da meno degli altri. Così nel giorno in cui i mercati si mostrano assai delusi dall’intervento di Draghi, il nostro premier si prepara a un’altra pagina della sua personale battaglia combattuta con un occhio e mezzo all’elettorato. È dubbio che egli riesca a cambiare verso all’Europa, ma certo dopo il passo francese il palcoscenico è più animato.

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18. Ora c’è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai “conservatori”.

Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D’Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.

Non perché evocare la “dama di ferro” sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D’Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l’uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l’annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l’art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.

Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un’opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi.

Per sedurre l’elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose. Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano”.

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Più La Malfa che Thatcher nel Piano Renzi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Circa quarant’anni fa, in un’Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati. Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all’evoluzione della sinistra.

Questo per dire che non c’è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro. Nell’Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall’estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest’ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere – e in effetti è – un grave ritardo nell’aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent’anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l’alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un’Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso. Anche perché l’attuale sinistra – che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato – dovrebbe avere tutto l’interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l’impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).

Il dilemma irrisolto di Renzi: tenersi il consenso o trasformare il paese?

Il dilemma irrisolto di Renzi: tenersi il consenso o trasformare il paese?

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

In un colloquio pubblicato dal “Foglio” il sindaco di Firenze, Dario Nardella, coglie un punto centrale del “renzismo” oggi: la necessità di scegliere fra consenso popolare ed efficacia del progetto riformatore. Nardella ricorda il ben noto caso Schroeder, il cancelliere socialdemocratico tedesco che negli anni Novanta trasformò la Germania e venne poi sconfitto alle elezioni. Come dire che un leader deve mettere in conto il rischio dell’impopolarità se davvero vuole lasciare il segno nella storia.

Qui è quasi d’obbligo la citazione di una celebre frase di De Gasperi: «Il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni». E a cosa pensa Matteo Renzi: ai voti da prendere o al paese da salvare? L’impressione è che il presidente del Consiglio abbia privilegiato a lungo gli elettori, ma che adesso sia tentato di imboccare la strada che potrebbe fare di lui uno statista. Tuttavia è incerto. Davanti a lui si divarica il bivio cruciale senza che sia emersa nella sua mente una decisione chiara su quale dei due sentieri imboccare. Lo scenario dei mille giorni evoca un lungo cammino che implica una plausibile perdita di popolarità. Il ricorso ai consueti fuochi artificiali mediatici indica la volontà di non perdere contatto con l’elettorato del 41%.

In altri termini la tentazione di tenere insieme i due corni del dilemma (il consenso e le riforme) è ancora molto forte per il premier. Forse la speranza segreta è di riuscirci attraverso qualche gioco di prestigio verbale, in attesa che un po’ di fortuna e qualche circostanza favorevole spinga la carovana italiana fuori dalla stagnazione economica. Al tempo stesso Renzi si rende conto che la sua missione potrebbe essere quella di spezzare le ingessature che imprigionano il paese anche a costo di compromettere un destino personale (e per lui non ci sarebbe nemmeno un contratto d’oro con Gazprom, come fu per il suo omologo tedesco).

L’esperimento politico più innovativo degli ultimi anni vive ormai di questa ambiguità che presto dovrà essere sciolta. Del resto, l’immagine del presidente del Consiglio che tira dritto per la sua strada è compatibile con emtrambe le ipotesi. Il nemico dell'”establishment”, l’uomo che non va nemmeno al convegno di Cernobbio perché preferisce stare a Roma a lavorare, l’avversario degli interessi organizzati è in grado di incarnare le due parti principali della commedia. Può diventare il leader che si affida direttamente al popolo saltando tutte le mediazioni e preparandosi – appena possibile – a raccogliere il plebiscito elettorale. Ovvero può trasformarsi nel premier che sacrifica se stesso guidando il paese verso le più radicali e dolorose riforme. Difficile sapere oggi quale sarà l’esito finale di un tormento che è visibile nei provvedimenti che il governo sta varando.

Si promettono tagli di spesa per 15 miliardi nel 2015, ma si confermano i 10 miliardi per garantire gli 80 euro a una vasta platea elettorale. Si lancia la riforma della scuola in nome del merito, ma il dato concreto riguarda l’assunzione di 150mila precari, mentre al tempo stesso si bloccano gli stipendi degli statali. Insomma, la direzione di marcia non è ancora chiara. Renzi non vuole essere la versione italiana della Thatcher (lo ha già detto più volte), ma potrebbe decidere di rappresentare la replica mediterranea di Schroeder. Vincitore per la storia ma sconfitto sul piano del consenso.

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

I mille giorni: un colpo d’ala mediatico e un sentiero che si restringe

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Vedremo presto quanto sarà efficace la nuova strategia dei mille giorni e lo slogan autunnale del “passo dopo passo”. Il presidente del Consiglio ha illustrato i suoi propositi con la consueta capacità di “marketing”, ma un punto sembra certo: la magia si è interrotta. E per magia s’intende quella speciale atmosfera, fatta di speranza, di fiducia e di ottimismo, nella quale Renzi aveva inaugurato il suo mandato alla fine di febbraio. Allora era la rivoluzione, annunciata con spavalderia: una grande rivoluzione al mese per sei mesi e l’Italia sarebbe cambiata. Oggi è la prudenza dei mille giorni e la richiesta di essere giudicato non prima del maggio 2017.

Non ci sarebbe da sorprendersi per questo cambio di tattica, se la strategia fosse confermata; se cioè il programma riformatore riproposto ieri si rivelasse davvero in grado di trasformare il Paese in poco meno di tre anni. Sarebbe invece drammatico se il volontarismo renziano fosse fine a se stesso: un modo dinamico, anzi frenetico, di restare più o meno immobili. Non c’è che attendere i prossimi mesi per scoprirlo. Fin d’ora però sembra chiaro che Renzi non può fare affidamento solo su se stesso e sul carisma personale, come è stato nel primo semestre. Ora che l’estate è passata, occorre qualcosa di più concreto per rinsaldare il patto con i cittadini.

In fondo il 41 per cento delle europee era stato il prodotto dello slancio iniziale. Adesso la ricerca del consenso diventa una partita più complicata e richiede tempi lunghi. Per meglio dire, è quasi inevitabile, almeno a breve termine, la contraddizione fra interventi riformatori efficaci e gradimento popolare ai massimi livelli. La tentazione di ricorrere all’arma letale, ossia al populismo per aggirare il contrasto è sempre incombente. Ma sarebbe un errore fatale che segnerebbe la degenerazione dell’esperimento renziano. E infatti il premier evita di farvi ricorso in modo massiccio, se non per gli attacchi alle “rendite di posizione” dei “privilegiati”, rendite che ovviamente devono essere smantellate.

In realtà il problema di cui il premier è consapevole consiste nell’attuare le riforme che l’Europa pretende dall’Italia. Riforme fondamentali nel campo del lavoro, della competitività, della giustizia civile. L’agenda ormai la conoscono tutti. Ma tali trasformazioni sono spesso socialmente dolorose. Non solo. Esse colpiscono feudi politici che quasi sempre coincidono con serbatoi elettorali a cui è molto difficile rinunciare. Quanto alle decisioni che non presentano costi ma solo benefici (dalle assunzioni dei precari della scuola ai mille nuovi asili), è ovvio che non si tratta di riforme, bensì di nuove spese in un momento in cui le risorse non ci sono, ovvero – quando ci sono – andrebbero destinate a ridurre il deficit e a contenere il debito.

Sono questioni ben note dalle parti di Palazzo Chigi. D’altra parte, Renzi è un politico che non intende commettere un suicidio politico. Si rende conto che la Germania non rinuncerà alla religione del rigore, tanto meno adesso che il partito anti-euro tedesco ha preso il 10 per cento in Sassonia. Al tempo stesso, la sua stessa retorica gli impone di continuare a nutrire l’immaginario collettivo con lo scenario consolatorio di riforme che non fanno male, tranne che alla “casta” dei privilegiati. La sfida fra realismo e illusione non è dunque risolta: è solo spostata in avanti.

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La riforma del Senato – la riforma Renzi – che supera, sia pure con affanno, il primo passaggio parlamentare. Mario Draghi che indica i ritardi nelle riforme strutturali dell’economia e accenna a “cessioni di sovranità”. I dipendenti Alitalia che si astengono in massa dal lavoro recapitando certificati medici di comodo. L’Italia di oggi è racchiusa drammaticamente in queste tre foto.

Nonostante le apparenze, c’è un filo che lega questi tre momenti diversi fra loro. La riforma del Senato, a cui Renzi ha legato fin troppo la sua immagine, simboleggia lo sforzo generoso di puntare sul riassetto istituzionale (insieme al Titolo V e alla giustizia) come biglietto da visita della nuova Italia giovane e dinamica. Ottimo proposito, magari anche vincente nel lungo periodo, ma dagli esiti pratici per adesso poco significativi. Anche perché il cammino di queste riforme non sarà breve.

Il premier ritiene giustamente che nel progetto innovatore ci sia un dividendo psicologico da incassare subito, trasmettendo agli italiani l’idea di una marcia inarrestabile. È vero, quasi sempre il messaggio efficace è quello che incrocia la psicologia di massa e Renzi nei suoi primi mesi si è rivelato un maestro nel suscitare speranza. Adesso però il quadro si è ribaltato e la stessa riforma del Senato arriva con qualche giorno di ritardo. Si è detto che i dati sulla recessione segnano la rivincita dei realisti sui sognatori. Se è così, Renzi non ha altra strada se non diventare ancora più sognatore e mostrarsi altrettanto determinato a procedere sulla via delle riforme. Ogni altra scelta apparirebbe una resa.

Il problema è che l’immagine del riformatore adesso è scalfita da un senso di impotenza, anche per la debolezza del disegno complessivo. Prendersela con il giovane premier sta diventando uno sport nazionale, secondo un costume molto italiano. Peraltro i fatti dicono che forse era sbagliata la scala delle priorità. E qui si inserisce l’intervento di Draghi, giudicato come uno spietato richiamo alla realtà, cioè alle vere riforme che dovrebbero essere al centro dell’azione di governo. Ieri sera alla “Sette” il premier è stato lesto a dichiararsi d’accordo con il presidente della Bce: è la mia linea, ha detto, anch’io voglio più riforme e più incisive. Reazione politica ovvia, ma dietro la quale s’intravede il secondo livello della crisi. Se l’Italia non riesce a sollevarsi da sola, l’Europa non permetterà che vada alla deriva e gli interventi potrebbero essere molto decisi. Certo, come osserva Renzi, Draghi non ha citato l’Italia quando ha evocato la «cessione di sovranità». Ma tutti quelli che dovevano capire hanno capito.

Infine c’è la terza istantanea: la più inquietante, se non la più tragica. Quei certificati di malattia presentati in massa dai dipendenti dell’Alitalia, grazie alla complicità di medici meritevoli di una rapida inchiesta, sono anch’essi un simbolo, al pari delle valigie abbandonate di chi non riesce a partire o arrivare. È il simbolo di un’Italia ottusa che si è già estraniata dal mondo.

Contro questa Italia chiusa nel suo micro-corporativismo non c’è argomento che tenga. Né il riformismo solitario e magari un po’ velleitario di Renzi, né il richiamo severo di Draghi alla dimensione europea. Non vale la politica-spettacolo che si attira tante critiche, ma almeno prova a comunicare con i cittadini, sia pure attraverso un codice populista. Tanto meno vale l’analisi delle cifre o l’appello alla verità austera dei numeri. Ai sanfedisti dell’Alitalia è inutile proporre la distinzione fra sognatori e realisti. Il loro disprezzo per le regole della vita civile è palese e coincide con il disprezzo verso i viaggiatori. È un segmento d’Italia che crede di essere più forte, come pensavano di esserlo i controllori di volo messi alla porta da Reagan.