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Blasoni: Una medicina sbagliata

Blasoni: Una medicina sbagliata

Massimo Blasoni – Panorama

Nel 1992 il governo Amato passò alla storia della nostra Repubblica per aver messo le mani sui risparmi delle famiglie italiane con un gesto eclatante come quello del prelievo forzoso sui conti correnti. Se qualcuno provasse oggi a ripetere quell’operazione porterebbe nelle casse dello Stato poco più di 3 miliardi di euro. Una cifra certamente importante ma che impallidisce davanti alla stretta fiscale che i governi che si sono succeduti dal 2011 in poi hanno imposto ai nostri risparmi, introducendo nuove tasse per ben 8,2 miliardi.

Si tratta di manovre che valgono due volte e mezza il prelievo forzoso del 1992. Il clima di emergenza finanziaria e le modalità più soft hanno reso la medicina meno amara ma la cura continua ad essere quella sbagliata. In un Paese frenato da una pressione fiscale già molto elevata si è scelto di aggredire uno dei pilastri della nostra società, la capacità di risparmio delle famiglie. Un eccesso di imposizione che aggiunge altre mille gabelle ad un prelievo sui fattori produttivi (redditi di impresa e da lavoro) già tra i più alti in Europa.

Federcontribuenti: “Fisco, un sistema da ripensare”

Federcontribuenti: “Fisco, un sistema da ripensare”

Federcontribuenti*

Siamo sempre più emarginati ed isolati dal resto di Europa, un quadro fiscale che deve mettere paura non solo ai cittadini italiani ma allo stesso governo. Dialoghiamo costantemente con i Paesi presi in esame, ed è sentito da tutti il bisogno di rivedere il sistema fiscale di ogni Paese membro della Ue.

L’Euro necessita di un eguale sistema fiscale, un eguale costo della manodopera e un eguale costo delle materie prime per diventare forte e unita. Del resto i numeri parlano chiaro, l’Italia continua a pagare un prezzo troppo alto in vite umane e imprese chiuse con gravi ripercussioni sull’occupazione e sulle stesse entrate erariali. Non si capisce come mai un discorso tanto semplice appaia incomprensibile alla classe politica.

*Da Blasting News

Noi Consumatori: “Italiani schiavi del macigno fiscale”

Noi Consumatori: “Italiani schiavi del macigno fiscale”

Angelo Pisani* – Noi Consumatori

Non ci si deve domandare perché le aziende delocalizzano all’estero tagliando i posti di lavoro in Italia. È evidente che una pressione fiscale così asfissiante non può che frenare la crescita e l’economia di un Paese, che solo grazie agli alti livelli produttivi e di elevate capacità dei suoi imprenditori e lavoratori riesce ancora a “reggere” nel contesto europeo».

*Presidente di NoiConsumatori.it

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

Tutti i numeri sulla tassazione del risparmio in Italia

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie dovrebbe aver raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in ulteriore crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Lo rivela un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale si conferma comunque l’escalation registrata a partire dal 2011, anno che ha dato il via a una serie di repentini aumenti su tutti i fronti delle imposte applicabili agli investimenti finanziari.

C’è di più: il lieve calo del gettito 2015 rispetto alle attese potrebbe accompagnarsi a un’ulteriore riduzione per il 2016 (e sarebbe la prima volta in tutto l’arco temporale abbracciato dello studio), tanto da far pensare a possibili contromosse del governo destinate a sfociare in nuove strette fiscali. È certo infatti che il calo di gettito non risulterebbe da un allentamento della morsa fiscale, ma esclusivamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi presso il pubblico dei piccoli risparmiatori: lo scorso anno i tassi sui depsiti bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04%  e i titoli di stato all’1,19%. In base ai diversi scenari di “stress” la perdita di gettito complessiva dalle rendite finanziarie potrebbe anche superare il miliardo.

Il prelievo complessivo, comunque oggi più che raddoppiato rispetto al 2011 (quando era quantificabile in “soli” 6,9 miliardi), si compone di vari elementi, il più rilevante dei quali è determinato dall’imposta sostitutiva sui guadagni di natura finanziaria: da sola essa preme per oltre 10 miliardi di euro all’anno, in particolar modo da quando l’ultimo giro di vite (datato giugno 2014) ha portato l’aliquota standard al 26% con la sola eccezione dei titoli di Stato, la cui tassazione rimane agevolata al 12,5%. Da tale componente proviene il gettito fiscale che risulterebbe dunque maggiormente incerto per il futuro, essendo legato all’andamento dei mercati finanziari, oltre che delle politiche accomodanti della Banca centrale europea a livello di tassi d’interesse e di immissione straordinaria di liquidità nel sistema.

Un secondo elemento di tassazione per grado d’importanza nell’attuale sistema è quello dell’imposta di bollo su depositi e investimenti finanziari. Nata come balzello fisso sugli estratti conto del deposito titoli (34 euro e 20 centesimi all’anno), ha resistito come tale solo fino alla metà del 2011, quando la crisi dello spread ha portato i nostri governi a trasformarla rapidamente in una patrimoniale che colpisce in misura ora proporzionale sostanzialmente ogni strumento finanziario (ad eccezione di conti correnti, fondi pensione e alcuni tipi di polizze vita). Dopo l’ultima revisione dell’imposta (passata allo 0,2% nel 2014), il bollo sugli investimenti garantisce allo stato ben 4,1 miliardi annui: una misura decuplicata rispetto al 2011 (quando pesava solo 400 milioni) raggiungendo misure paragonabili ad altre imposte nel frattempo scomparse come la vecchia IMU sulla prima casa.

L’imposta di bollo sugli investimenti non va confusa con quella sui conti correnti, che resiste nella sua attuale configurazione sin dal 2012, quando venne introdotta l’esenzione per i conti intestati a persone fisiche che non superano i 5.000 euro di giacenza media: da questa voce lo Stato si attende ogni anno circa 600 milioni di euro.

Tra le tasse sugli strumenti finanziari va aggiunta la Tobin Tax, che colpisce in particolare le transazioni di taluni titoli sui mercati italiani, indipendentemente dal fatto che esse si concludano in guadagno oppure in perdita per l’investitore, e che frutta però soli 300 milioni di euro circa alle casse dello Stato, tanto che a più riprese ci si è chiesti se nel complesso determini complessivamente più costi per il sistema che benefici per l’erario.

Considerato dunque tutto il mix di imposte su depositi e investimenti finanziari, in uno scenario di rendimenti decrescenti tenderà a prevalere sempre di più la componente patrimoniale rispetto a quella commisurata al reale reddito ricavato dai piccoli investitori. L’incidenza reale di queste imposte è stata calcolata da ImpresaLavoro per il 2015 al 33,5%, in aumento di ben due punti e mezzo rispetto all’anno precedente, quando era pari al 31%. Con risultati paradossali per chi, per esempio, continua a investire in titoli di Stato a breve termine: oltre a offrire un rendimento negativo (con interessi a carico del sottoscrittore), i Bot rimangono comunque soggetti all’imposta di bollo.

Il tax rate è ben oltre il 26% anche in tutti i casi in cui gioca a sfavore del contribuente il meccanismo spesso contorto (e ignoto ai più) che determina la compensabilità delle minusvalenze pregresse nel regime più comune del risparmio amministrato, limitandola a specifiche categorie di titoli e a particolari tipologie di redditi finanziari.

Nonostante tutto, il calo dei rendimenti sui mercati del debito pubblico dovrebbe produrre a livello di bilancio soprattutto un calo della spesa per interessi sul debito (dagli 84 miliardi del 2012 ai 67 previsti per il 2016): beneficio notevolmente più grande rispetto alla flessione delle entrate sulle rendite finanziarie, ma che lo Stato potrebbe voler comunque compensare attingendo da altre fonti.

Lo spettro che aleggia spesso nella mente degli italiani è quello del prelievo forzoso sui conti correnti, alla stregua di quanto avvenuto nell’estate del 1992 per decisione del governo Amato. Ma se lo stesso 6 per mille di prelievo sui conti fosse applicato oggi, non frutterebbe che 3,3 miliardi una tantum.

Ecco dunque che potrebbe manifestarsi ben presto un nuovo giro di vite fiscale, inatteso, sul tema successioni e donazioni. Proprio di recente infatti sono emerse delle proposte d’intervento: le prime a distanza di dieci anni dalla riforma che ha reintrodotto l’imposta. In particolare si prevederebbe di raddoppiare le aliquote (triplicarle al di sopra di una certa soglia) e nel contempo abbassare le franchigie di esenzione, che rimarrebbero distinte per grado di parentela. L’imposta, che oggi frutta circa 600-700 milioni di euro l’anno, potrebbe dunque essere la prima candidata ad un ritocco. L’unica speranza, a quel punto, è che l’incremento sia soltanto un lontano parente di quelli visti sinora.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati
** ricercatrice Centro studi ImpresaLavoro

 

Siamo solo noi i campioni delle tasse!

Siamo solo noi i campioni delle tasse!

Massimo Blasoni – Metro

Tra poche settimane iniziano in Francia i campionati europei di calcio e tutti i tifosi vorrebbero vedere la nostra Nazionale bissare finalmente il titolo conquistato nel lontano 1968. Come contribuenti dobbiamo invece rassegnarci alla sconfitta più dolorosa: anche quest’anno i campionati europei delle tasse li perdiamo, e di brutto. Basta infatti scorrere l’edizione 2016 dell’Indice della Libertà fiscale redatto dal nostro Centro studi, che analizza ben 29 economie del nostro Continente (quindi anche quelle che stanno fuori dal’UE o che non hanno adottato l’euro).

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Meloni (Pd): “Ridurre le tasse sul lavoro per uscire dalla crisi”

Meloni (Pd): “Ridurre le tasse sul lavoro per uscire dalla crisi”

Marco Meloni*

I dati INPS sono chiari: la logica degli incentivi temporanei non funziona. È necessario aprire una riflessione pubblica fondata sui dati effettivi. C’è una sola via per aumentare produttività e lavoro: ridurre drasticamente le tasse sul lavoro a tempo indeterminato.

A febbraio c’è stato un forte rallentamento di assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato, pur nella versione delle “tutele crescenti” introdotta dal Jobs Act. Siamo tornati ai livelli di inizio 2014 (anzi, leggermente sotto), nonostante una congiuntura decisamente migliore: allora si stava appena uscendo dalla crisi e non c’erano incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato così generosi (al momento intorno a circa 3000 euro ad assunzione, seppur dimezzati rispetto al 2015).

Quello di gennaio, quindi, non sembra essere un rallentamento “tecnico”, dovuto ad assunzioni anticipate a dicembre, ma un possibile effetto “strutturale” del dimezzamento degli incentivi. È necessario essere prudenti, è ovvio, ma pare assodato che i dati positivi del 2015 siano stati dovuti quasi interamente agli incentivi.

A questo punto, credo sia il caso di aprire una riflessione pubblica ampia, trasparente, fondata sui dati effettivi, e aggiustare il tiro. Le misure una tantum – dalle varie mance di 80 o 500 euro agli incentivi temporanei – hanno il respiro corto, e non affrontano il nodo strutturale per rilanciare produttività e occupazione: la riduzione drastica e stabile della tassazione sul lavoro a tempo indeterminato, al momento tra le più alte tra i Paesi industrializzati (e addirittura in crescita, secondo gli ultimi dati OCSE).

Al finanziamento di una riduzione fiscale così rilevante è necessario destinare tutte le risorse possibili, abolendo altre misure costosissime e dalla utilità quasi nulla, e adottando le troppo attese misure di riduzione della spesa pubblica. Mi auguro che, come Partito democratico e maggioranza parlamentare, con l’impulso decisivo del governo, si sia capaci di affrontare la questione con il necessario pragmatismo. Per creare lavoro stabile e migliorare la competitività del nostro sistema sistema produttivo occorre cambiare decisamente rotta.

*Deputato del Partito democratico, membro della Commissione Affari costituzionali

Sangalli (Confcommercio): “Tagliare le tasse strada obbligata, serve coraggio”

Sangalli (Confcommercio): “Tagliare le tasse strada obbligata, serve coraggio”

Carlo Sangalli*

“Bisogna certamente tagliare le tasse, è la condicio sine qua non: la strada è obbligata ed è quella di ridurre con più coraggio e determinazione la spesa pubblica improduttiva, di recuperare evasione ed elusione per avere così delle risorse importanti per arrivare ad una riduzione generalizzata delle aliquote Irpef”.

“Mettere più soldi in tasca alle famiglie significa rilanciare i consumi e con questo si esce definitamente da questa situazione di incertezza che ancora ci preoccupa”.

* Presidente di Confcommercio

Indice della Libertà Fiscale 2016

Indice della Libertà Fiscale 2016

indicebIntroduzione

Nel 2015 ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro.

Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

Metodologia

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve. Si tratta di una scelta che punta a privilegiare le buone esperienze, anzi: le migliori esperienze, presenti in Europa. Questo perché disegnare a tavolino valori di riferimento e su questi analizzare gli scostamenti da un teorico “sistema fiscale perfetto” portava con sé il rischio di traguardarsi costantemente ad un mondo che non c’è. Si è preferito, invece, partire dai livelli di libertà fiscale già raggiunti e definire quelli come benchmark: se in sette economie europee è possibile contenere la tassazione sulle imprese sotto il 30% degli utili prodotti, allora significa che si può ragionevolmente fare anche negli altri paesi.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100) , più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Gli indicatori

I primi due indicatori, numero di procedure e numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il Fisco del loro paese. Questi indicatori attribuiscono al paese migliore 10 punti.

Il terzo indicatore analizza il Total Tax Rate cui sono sottoposte le imprese dei paesi esaminati. Con questo indicatore si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo stato sotto forma di tasse e contributi sociali. Al paese con il Tax Rate più basso sono attribuiti 20 punti.

Il quarto indicatore, Costo per pagare le tasse, stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il Fisco. Il tempo che le aziende occupano per sbrigare pratiche burocratiche si traduce in un costo diretto, in questo caso di personale, che incide negativamente sulla competitività di un sistema. Si tratta di una sorta di tassa sulle tasse: il peso dello Stato nelle attività imprenditoriali, infatti, va ben oltre il solo valore nominale del prelievo fiscale. Anche il tempo perso è monetizzabile e rende il sistema fiscale di riferimento più o meno libero. Al paese migliore in questo indicatore sono attribuiti 10 punti.

Il quinto indicatore, la Pressione Fiscale in percentuale del Prodotto Interno Lordo, assegna al miglior paese ben 30 punti. Si tratta dell’indicatore più importante, sia in termini di punteggio che sostanziale, perché misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese.

Il sesto indicatore è sempre riferito alla Pressione Fiscale in percentuale al Pil, vista qui in termini dinamici e non statici, e misura quanto il prelievo complessivo è cresciuto dal 2000 ad oggi. E’ un indicatore particolarmente rilevante perché traccia gli sforzi che un paese sta compiendo (o non sta compiendo) per ridurre il peso dell’oppressione tributaria sui propri cittadini. Per capire l’importanza di questo tipo di indicatore basti riflettere sul fatto che un paese come la Svezia, considerato da tutti come la patria di tasse elevate in cambio di migliori servizi, dal 2000 ad oggi ha tagliato la sua pressione fiscale di quasi 6 punti percentuali di Pil. Al miglior paese in questo indicatore vengono attribuiti 10 punti.

Settimo e ultimo indicatore è quello relativo alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo (due genitori che lavorano con due figli a carico). Al paese più “family friendly” sono attribuiti 10 punti.

Per realizzare questo indice sono stati utilizzati i database Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale).

classifica

Indice delle Libertà Fiscali 2016. Numero di procedure necessarie per pagare le tasseIndice02

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Le tasse diminuiscono ma solamente a parole

Le tasse diminuiscono ma solamente a parole

«Diminuiremo le tasse», «Anzi, no: le abbiamo già abbassate!» Quante volte avete letto sui giornali queste rassicuranti dichiarazioni del governo? Capita però che studiando i dati Ocse e prendendo come indicatore il cosiddetto “cuneo fiscale” (cioè la differenza tra il lordo e il netto dello stipendio), si scopra che negli ultimi anni questo fardello è invece cresciuto in Italia del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media delle altre 34 economie occidentali analizzate, nelle quali il cuneo fiscale e contributivo è sceso dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. I Paesi che hanno scelto di rendere il lavoro più conveniente sono economie vicine a quella italiana: la Germania (-2,36%), la Francia (-1,29%) e il Regno Unito (-3,29%). Altrove il cuneo è invece aumentato, ma sempre in misura minore rispetto all’Italia: negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%).

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Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Antonio Signorini – Il Giornale

Costo del lavoro sempre più alto e sempre meno soldi in tasca ai lavoratori. Soprattutto per quelli con famiglia. L’anomalia italiana di un cuneo fiscale molto alto non è un ricordo del passato. Nonostante continui proclami dei governi di turno e i tanti richiami da parte degli osservatori internazionali, la differenza tra quanto i datori spendono e l’effettivo stipendio dei dipendenti continua ad aumentare. In totale controtendenza rispetto agli altri paesi occidentali.

Il Centro Studi ImpresaLavoro, presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni, rielaborando dati Ocse, ha calcolato che la somma delle imposte e dei contributi per un lavoratore dipendente single tra il 2007 e il 2015 è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%. Il cuneo, cioè la differenza tra il lordo e il netto dello stipendio è arrivato al 48,96% del costo del lavoro.

Gli altri Paesi Ocse hanno imboccato da tempo un’altra strada. La media dei membri dell’organizzazione di Parigi è infatti in calo dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. I Paesi che hanno scelto di rendere il lavoro più conveniente sono economie vicine a quella italiana: la Germania (-2,36%), la Francia (-1,29%) e il Regno Unito (-3,29%). Il cuneo è aumentato anche in altri paesi, ma sempre in misura minore rispetto all’Italia. Negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%). Tutti sotto il punto percentuale, osserva il centro Studi ImpresaLavoro.

Il dato peggiora se si prende un lavoratore con famiglia. Nelle coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, per esempio, il cuneo fiscale in Italia è cresciuto del 4,14% rispetto al 2007. Ancora una volta la performance peggiore. Dopo di noi, sempre tra i paesi dell’Ocse, seguono a distanza Giappone (+2,99%), Australia (+2,88%), Stati Uniti (+1,47%) e Spagna (+0/92%). Ancora una volta i partner europei più forti, dimostrano di puntare più di noi sulla competitività e sull’equità. La Germania registra un calo del cuneo per i lavoratori con famiglia del 1,49%, la Francia del 2,00% e il Regno Unito del 2,04%. Va un po’ meglio per le famiglie italiane sposate con due figli nelle quali lavorano entrambi i genitori, con un aumento del cuneo complessivo tra il 2007 e il 2015 che si ferma al 1,55%.

Dati che pongono al governo una sfida complessa. Da un lato quella, antica, che vorrebbe fare recuperare competitività al paese proprio agendo sul cuneo. Quindi tagli al peso del fisco sull’impresa. In realtà il governo ha intenzione di rinviare ulteriormente il taglio dell’Ires, imposta che grava sulle aziende, di un altro anno, per concentrarsi su misure immediatamente percepibili per le famiglie.