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Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Al paese decotto non basta solo la politica monetaria

Antonio Salvi – Il Giornale

Bene ha fatto Draghi a ricordare ai governi europei che la politica monetaria da sola non può rilanciare in maniera strutturale le economie decotte. Ha parlato a nuora perché suocera (il primo ministro italiano, su tutti) intenda.

Draghi ha semplicemente sostenuto che, per sperare di prendere un buon voto a scuola occorre prima fare bene i propri compiti a casa e poi eventualmente sperare nella mano paterna del professore. Il rilancio delle economie in maniera non effimera non è mai, dico mai, stato realizzato attraverso l’attuazione di politiche monetarie ad hoc. Affinché il rilancio dell’economia avvenga in maniera durevole è necessario perseguire un recupero di competitività complessiva del sistema. Come? Facendo le riforme. L’Italia sta facendo i compiti a casa? No. E tutti i bei discorsi di Renzi? Parole al vento. Segnalo che sono già passati 6 mesi (centottanta giorni!), e ancora di riforme concrete non se ne vede l’ombra. Sacrosanto dunque il richiamo da parte di Draghi. L’agenda delle riforme che contano è chiara e il governo ha – temo per poco ancora – il giusto consenso nel paese per poterla attuare, eppure si traccheggia e si procede con tentativi velleitari e di pura facciata. Renzi non era colui che nell’ormai remoto 22 febbraio scorso aveva promesso una riforma al mese nei primi cento giorni del suo governo. Il fanfarone, vista la mala parata, ha pensato bene di aggiungere uno zero ai cento giorni, preferendo adesso cambiare il nostro paese in mille giorni. Approfittando della dabbenaggine degli italiani.

Ad avviso di chi scrive, la prima grande riforma da portare avanti è quella della pubblica amministrazione. Eppure, quella fin qui varata è solo una riformina che non cambia granché. Aspettiamo invece la legge delega, che forse arriverà nel giro di qualche anno. L’abolizione delle provincie? È solo sulla carta. Più in generale, è necessario ridurre la spesa pubblica. Dove? Ovunque. Sono solo io il cittadino italiano che quando entra in qualsiasi ufficio pubblico è investito dalla netta sensazione che dappertutto si batta la fiacca? E allora giù di scure, senza tanti riguardi. Il lavoro è un’altra emergenza del nostro paese. Renzi non ha fatto praticamente nulla a riguardo (salvo il poverissimo ddl Poletti), mentre la vera partita si gioca altrove, dove non c’è traccia di volontà del governo di voler intervenire seriamente. Ad esempio, sull’articolo 18, il quale andrebbe semplicemente cassato in toto. Si tratta di una tutela discriminatoria (distinguendo tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B) e anacronistica. Lo capiscono infatti anche i bambini (ma non le teste d’uovo della sinistra italiana) che inibire la crescita delle aziende oltre i 15 dipendenti vuol dire far partecipare il nostro sistema produttivo a una battaglia globale con i canotti, laddove gli altri paesi hanno le portaerei.

E poi c’è la riforma del fisco, inizialmente prevista per maggio, ma persasi anch’essa chissà dove. Renzi ha promesso la semplificazione fiscale. Chi l’ha vista? Intanto, nel 2015 ci arriverà il 730 precompilato, strumento straordinariamente illiberale, su cui non mi è parso di aver assistito a grandi grida di dolore da parte degli intellettuali liberali. E poi c’è la riforma della giustizia, anch’essa ferma alle buone intenzioni. E poi tanto altro ancora. Renzi ha affermato che è necessario togliere il paese dalle mani dei soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Capitalismo di relazione? E la politica che fa il nostro premier? Cos’altro è se non delle sue relazioni e del suo vicinato, visto che la maggior parte del tempo l’ha finora spesa a piazzare nei posti giusti amici e corregionali, con scelte molto spesso quantomeno di dubbio gusto. #Matteomafacciilpiacere…

I conti non tornano, o si vende o si tassa

I conti non tornano, o si vende o si tassa

Marco Bertoncini – Italia Oggi

C’è stata prima un’offensiva di anticipazioni su prelievi pensionistici, manovra correttiva, patrimoniale. Il clima è subito divenuto pessimo per il governo, specie per il dispensatore di ottimismo Matteo Renzi. Arriva allora la controffensiva, con le volutamente tranquillizzanti frasi del sottosegretario Graziano Delrio (che con l’intervista a la Repubblica riacquista quel ruolo di «Gianni Letta di R.» che pareva aver perduto) e con le solite battute dello stesso presidente del Consiglio.

Tutto bene? No. Senz’altro, specie in agosto, i retroscena dei giornali sono sovente pure bufale. Molte ipotesi sono frutto di riflessioni di personaggi senza ruolo istituzionale.

Peccato però che, partendo dal superministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, vi fossero fonti ufficiali a far testo delle minacce o, se si vuole, delle preoccupazioni. Quando il sottosegretario Pier Paolo Baretta se ne esce dichiarando «Chi guadagna fino a 2 mila euro netti di pensione al mese può stare assolutamente tranquillo», il risultato è semplice: allarmare centinaia di migliaia di pensionati (sia con più di 2 mila euro netti, sia titolari di più pensioni), oltre quelli che percepiscono, poniamo, 1.500 euro e che ben sanno come si parta dall’oro per colpire l’argento e arrivare al bronzo o dai «ricchi» (da far piangere) per spingersi presto ai ceti medio-alti prima, ai medi poi.

Il guaio è in radice. Poiché non si procede con le grandi riforme strutturali (alienazioni del patrimonio pubblico, liberalizzazioni, privatizzazioni, revisione del sistema sanitario nazionale, riscrittura del comparto di regioni, enti locali ed enti pubblici), si finisce col tirar fuori del cappello aumenti tributari o, ancora, soluzioni tampone e insufficienti.

Poveri ricchi

Poveri ricchi

Davide Giacalone – Libero

La notizia più modaiola è che Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’economia ed esponente del Partito democratico, non usa twitter. Le notizie di sostanza sono più succose: a. chi guadagna 3500 euro netti al mese è da considerarsi ricco; b. la pressione fiscale crescerà, se non altro cancellando le detrazioni; c. al governo studiano come prendere soldi ai pensionati e ai lavoratori (considerati) ricchi. Già che ci si trova, Baretta, non solo non segue i cinguettii, ma neanche legge i giornali, dato che annuncia vita difficile per gli evasori, essendogli sfuggito che la nuova direttrice dell’Agenzia delle entrate (nominata dal governo di cui lui non si è accorto di fare parte) ha già detto che molti dei crediti fiscali contabilizzati sono da considerarsi inesigibili. Immaginari. Non varrebbe la pena di occuparsene, se non fosse che le parole di Baretta, rilasciate a La Stampa, sono la più semplice e chiara spiegazione del perché gli 80 euro elargiti dal governo non hanno funzionato: perché non puoi incentivare la fiducia e terrorizzare al tempo stesso. Fra le due cose prevale la seconda. E queste parole sono da terrore fiscale.

Baretta crede di dire una cosa giusta quando afferma: «i redditi più alti dovranno contribuire» all’uscita dalla crisi. È un record di sintesi e di errori. Punto primo, i redditi più alti pagano da lustri tasse da esproprio. Se la coniugazione al futuro del verbo significa che si vuol chiedere ancora di più la sola conseguenza logica di un tale atteggiamento è la fuga all’estero di chi può permetterselo. E molti produttori lo hanno fatto e vieppiù lo faranno, sollecitati da tali sconsideratezze. Punto secondo, se per uscire dalla crisi si pensa di togliere ancora di più ai contribuenti, per dare a una spesa pubblica che non riesce a limitarsi e a un debito pubblico che continua a crescere, vuol dire che non si è capito un accidente non solo di quel che è già successo, ma di ciò che sta succedendo ovunque non abbiano venduto il cervello al satanismo fiscale: si esce dalla crisi restituendo libertà e soldi ai cittadini, non facendo il contrario. Baretta, quindi, ripetendo il luogocomunismo dello statalismo nemico del benessere, crede di dire cose scontate, ma è scontato che sono cose mortali.

A questo si aggiunga il bel pernacchio a Matteo Renzi e ai suoi “#madeche”, dato che lo smentisce e conferma che il governo sta studiando il modo di prendere ancora soldi dalle pensioni. Solo che, badate bene, non lo fa adducendo la motivazione della distanza fra i contributi versati e la rendita che si riscuote, il che ha ancora un senso, ma stabilendo che i ricchi devono pagare. A prescindere. Ed è certamente ricco chi prende 3.500 euro al mese. Quindi si è ricchi anche con di meno. Baretta ha mai mantenuto una famiglia che non sia a sua volta mantenuta dallo politica o dal sindacato? Definire ricco chi ha un reddito netto annuo di 42.000 euro è un insulto. È segno che chi parla non ha idea di quanto valga il denaro e quanto ne serva per campare. Se si definisce ricco quel livello è segno che si anela un’Italia in cui trionfi la miseria.

Non contento ci fa sapere che sul tavolo del governo si studia come aumentare le tasse, tagliando le detrazioni. E qui arriviamo al dunque: ecco perché la regalia propagandistica degli 80 euro (comunque sbagliata) non funziona, perché chi la riceve sa che gli sarà tolta dalla stessa mano che finge di donare. Baretta conferma. E chi è onesto, come la gran parte degli italiani, tende a tenere i soldi e restare pronto per quando andranno a chiederglieli. Con il che ti saluto la ripresa dei consumi.

La ciliegina sulla torta arriva alla fine: Alessandro Barbera (complimenti per la bella intervista) gli domanda se si riuscirà mai a vendere patrimonio pubblico per abbattere il debito, e Baretta il grande (non dico cosa) gli risponde che il ministro della difesa ha già firmato un accordo con tre grandi comuni, per la cessione di aree, il giornalista gli fa osservare che in quel modo si passa dallo Stato ai comuni e non si vende nulla, e Baretta l’immenso asserisce: il patrimonio va valorizzato. Uno così va subito tolto da dove si trova e spedito a Pompei. Non certo perché saprebbe valorizzare alcunché, ma perché non potrebbe fare più danni di quanti già non ne fanno l’incuria e il tempo.

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Walter Passerini – La Stampa

Puntuale come una sagra paesana, ogni fine agosto si celebra il tormentone delle pensioni, fatto apposta per demotivare il ritorno al lavoro e il rientro dalle vacanze. Le sembianze quest’anno vanno sotto il nome di prelievo di solidarietà, su cui si cimentano ministri, politici, contabili, liberisti, sovietologi e alchimisti vari. Alla insostenibile leggerezza degli assegni (l’importo medio annuo è di 11 mila euro lordi) si accompagna l’insopportabile leggerezza di Catoni e Censori che si divertono a gettare alcol sul fuoco, aumentando l’incertezza degli italiani e il loro umor cupo. Sulle pensioni non si scherza, simboleggiano e sostanziano non solo la capacità di avere un reddito, ma anche il patto di coesione sociale su cui si fondano le comunità e il patto di fiducia sui diritti acquisiti e sul futuro. Non può essere unicamente economico e contabile, quindi, il parametro su cui impostare la riapertura del cantiere pensioni, ad alcune condizioni.

La prima è che non si può fare cassa con la previdenza: le pensioni non sono né un bancomat né una slot machine. Gli eventuali risparmi della spesa previdenziale devono restare nel sistema previdenziale stesso. La seconda è che le pensioni non sono un campo di battaglia in cui consumare vendette: le storture ci sono, le ingiustizie pure (vedi i vitalizi di politici e parlamentari), e Robin Hood non è più in attività. Il rischio è illudere le masse che togliendo ai super-ricchi possano goderne i poveri. I Paperoni che guadagnano più di 20 mila euro lordi al mese sono 540, mentre sopra 3 mila al mese lordi ci sono 505 mila pensionati, che valgono 38 miliardi l’anno: poca cosa se li si vuole tassare al 10% con un prelievo di solidarietà. Il paniere si restringerebbe ulteriormente alzando l’asticella a più di 5 mila euro lordi al mese, che riguarda 140 mila individui, il cui sacrificio sarebbe ancora più inconsistente. I rimedi sinora proposti avrebbero un significato più simbolico che concreto. Nessuno ha oggi una ricetta del tutto convincente, anche perché per accontentare i contabili si abbassa l’asticella e l’alta tensione diventa micidiale. Cinque possibili le strade su cui far convergere opinione pubblica ed esperti, se si vuole dettare l’agenda ai politici. La prima è la costituzionalità, più ancora dell’efficacia, dell’eventuale prelievo di solidarietà. Già due recenti sentenze della Corte Costituzionale lo hanno bocciato. Sarebbe necessario un Fondo previdenziale, i cui proventi dovrebbero restare nel sistema pensionistico stesso.

La seconda è il valore delle pensioni. Il sistema contributivo riduce di un terzo il reddito medio percepito e rischia di creare una generazione di poveri. Oggi ci sono 13 milioni di pensioni retributive e solo 360 mila pensioni contributive, a cui vanno aggiunti 1,1 milioni di pensioni miste. Ma nel prossimo futuro il rapporto si rovescerà, creando potenziali bombe sociali nei sistemi di welfare.

La terza strada è il diritto all’informazione. Mentre il sistema retributivo legava con un coefficiente la pensione a stipendi e anni lavorati, oggi e domani la pensione dipenderà dai contributi effettivamente versati. Il cambiamento produrrà effetti depressivi sui redditi più bassi e insostenibili paradossi: chi vorrà lavorare oltre i 69-70 anni avrà una pensione superiore al 100% degli stipendi percepiti; i giovani e le donne, con una vita contributiva discontinua, si vedranno decurtare il reddito del 30%.

Per questo, ed è la quarta strada, si rende necessaria la busta arancione, un sistema di comunicazione che permetta ai cittadini di conoscere l’ammontare dei propri contributi e la simulazione del futuro assegno pensionistico. Cittadino informato, cittadino salvato? Forse nemmeno questo basterebbe, se non venisse affiancato, ed è la quinta strada, da un robusto rafforzamento della previdenza integrativa, più collettiva che individuale, per integrare un assegno pubblico che si preannuncia modesto. La questione previdenziale va legata alla questione del lavoro. Non si risolve trattenendo al lavoro più a lungo le persone, ma aumentando le entrate di nuovi lavoratori e di nuova linfa contributiva. E’ solo la creazione di nuovo lavoro che garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico nel futuro.

Cortesie del fisco obbligate e in ritardo

Cortesie del fisco obbligate e in ritardo

Massimo Fracaro – Corriere della Sera

Uno su due non ce la fa. Il boom dei pagamenti a rate delle cartelle esattorialinon è certo un bel segnale. Un’ulteriore conferma della crisi in cui aziende e imprese si dibattono da ormai sei anni e che sembra non finire mai. Il conto che viene presentato con le cartelle esattoriali in genere è di quelli pesanti, comporta cioè il pagamento di somme rilevanti, ma quando si ha a che fare con il Fisco è sempre meglio chiudere la partita in fretta. E togliersi il pensiero. La rateizzazione comporta, invece, il pagamento di pesanti interessi che vanno ad appesantire, e non di poco, il conto finale. Per non parlare dei casi nei quali i contribuenti, a corto di liquidità, sono anche costretti a chiedere aiuto al sistema bancario per onorare il debito. Interessi che si sommano agli interessi. E senza dimenticare il rischio che si corre se si salta una rata…

Le statistiche rese note lunedì evidenziano che la dilazione dei pagamenti è più diffusa tra le famiglie, un dato che conferma quanto siano oggi in difficoltà. Resta da chiedersi, e sarebbe interessante saperlo, di quali colpe si siano macchiate per essere costrette al pagamento rateale, immaginando che le cifre in ballo siano consistenti. Si tratta di multe stradali lievitate astronomicamente perché non sono state saldate in tempo? Di macroscopici errori, vere e proprie frodi, nelle dichiarazioni dei redditi? E, in questo caso, va forse rivista la mappa dell’evasione? Oppure di infrazioni causate dalla complessità del sistema tributario? La risposta sarebbe utile per capire se si tratta di una dinamica ordinaria nei rapporti tra cittadini e fisco o di un ennesimo episodio di oppressione fiscale. Perché, si sa, il Fisco italiano ha il brutto vizio di essere forte soprattutto con i deboli.

Forse spinta dall’evidenza dei dati, Equitalia ha annunciato sempre ieri un nuovo corso: dal 2015 verranno inviati assieme alla cartella esattoriale piani di rateizzazione precompilati del debito, in modo che il contribuente possa scegliere se saldare il conto tutto e subito oppure in 72 o 120 rate. Una decisione che va apprezzata. Resta da chiedersi perché sia stata presa solo adesso. Finora, infatti, come confessa ingenuamente Equitalia, i contribuenti dovevano recarsi allo sportello e fare la coda o simulare il piano di ammortamento dal sito Internet, per capire se e come saldare il conto a rate. Immaginiamo che, considerati i dati resi noti ieri, gli uffici negli ultimi mesi siano stati presi di assalto dai contribuenti interessati a dilazionare i pagamenti. Non si poteva fare prima questo piccolo gesto di cortesia verso i contribuenti? Chi ha sbagliato, deve pagare. Senza la pena accessoria della burocrazia.

Fisco a rate per 27 miliardi di euro

Fisco a rate per 27 miliardi di euro

Giorgio Costa – Il Sole 24 Ore

Dal prossimo anno le cartelle che Equitalia notificherà ai contribuenti avranno, in allegato, i piani di rateizzazione precompilati del debito che possono essere concessi in base ai parametri previsti dalla legge. Il contribuente, quindi, potrà scegliere di saldare in un’unica soluzione o aderire al piano di pagamento più adatto alle sue esigenze e alle sue disponibilità economiche. Utilizzando il piano precompilato, il contribuente non dovrà più recarsi allo sportello o simulare il piano di ammortamento dal sito Internet, ma avrà già a disposizione tutti gli elementi per decidere come pagare contestualmente alla notifica della cartella.
Ma anche senza attendere i piani precompilati, la rateizzazione si conferma lo strumento più utilizzato dai contribuenti per pagare le cartelle. Nello scorso mese, peraltro, è stato registrato il record di 156mila richieste, con una media settimanale pari a circa il doppio di quella registrata nei primi sei mesi dell’anno; e questo boom è stato anche dovuto al fatto che il 31 luglio scorso scadeva il termine entro cui chi era decaduto dal beneficio a fine giugno poteva rimettersi in termine e utilizzare nuovamente il sistema delle rateazione.

Ad oggi sono attive 2,4 milioni di rateazioni per un controvalore di 26,6 miliardi e di fatto più della metà delle riscossioni di Equitalia avviene oggi tramite il pagamento dilazionato, che può arrivare a 10 anni. Il 76,9% delle rateizzazioni in essere riguarda persone fisiche e il restante 23,1% società e partite Iva. Se invece si guarda agli importi, il 65,9% delle rateazioni è stato concesso alle imprese e solo il 34,1% a persone fisiche. Il 70,8% delle rateizzazioni riguarda debiti fino a 5mila euro, il 26,2% debiti tra 5mila e 50mila euro e il 2,9% somme oltre i 50mila euro. La Lombardia si conferma la regione che guida la “classifica” dei pagamenti dilazionati con oltre 384mila rateizzazioni attive per un importo di 5,5 miliardi, seguita dal Lazio (305mila per un importo di 3,7 miliardi), dalla Campania (265mila per un importo di 3,2 miliardi di euro) e dalla Toscana (231mila per un importo di 1,9 miliardi).
La grande quantità di richieste di rateizzazioni se da un lato dà l’idea delle difficoltà economiche in cui versano contribuenti e imprese, dall’altro può anche essere letta come il forte gradimento verso un sistema di pagamento più diluito e facile da ottenere visto che per importi fino a 50mila euro è sufficiente una semplice richiesta: di fatto un modo per “finanziare” la famiglia o l’impresa non chiedendo denari in prestito, ma spalmando sul medio periodo le somme da pagare al Fisco. Attualmente è possibile ottenere un piano di rateizzazione straordinario fino a 120 rate (10 anni) oppure un piano ordinario a 72 rate (6 anni). L’importo minimo di ogni rata è, salvo eccezioni, pari a 100 euro. I piani sono alternativi per cui, in caso di mancata concessione di una dilazione straordinaria, si può chiedere una rateazione ordinaria. Finché i pagamenti sono regolari il contribuente non è più considerato inadempiente e può ottenere il Durc e il certificato di regolarità fiscale per poter lavorare con le pubbliche amministrazioni. Inoltre il contribuente che paga a rate è al riparo da eventuali azioni cautelari o esecutive (fermi, ipoteche, pignoramenti).

Per debiti fino a 50mila euro si può ottenere un piano ordinario di rateizzazione (72 mesi), compilando un modulo disponibile sul sito Internet www.gruppoequitalia.it e negli sportelli di Equitalia, e riconsegnarlo a mano oppure spedirlo con raccomandata con ricevuta di ritorno. Per importi oltre 50mila euro serve, invece, allegare documenti che dimostrino lo stato di difficoltà economica. È possibile richiedere rate variabili e crescenti, anziché rate costanti, in modo da poter pagare meno all’inizio nella prospettiva di un miglioramento della condizioni economiche. Si può, invece, arrivare a 120 mesi in caso di grave e comprovata situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica ed estranea alla propria responsabilità e quando l’importo della singola rata è superiore al 20% del reddito mensile del nucleo familiare. Questo parametro è valido anche per le ditte individuali. Per le altre imprese, invece, la rata deve essere superiore al 10% del valore della produzione mensile. I piani di rateizzazione, ordinari e straordinari, possono essere prorogati una sola volta. In entrambi i casi si può chiedere una proroga ordinaria (in ulteriori 72 rate) oppure, in presenza dei requisiti previsti, una straordinaria (massimo 120 rate).  

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

Renato Brunetta – Il Giornale

Meno tasse; più consumi; più investimenti; più crescita; più lavoro; più gettito; più welfare; più benessere per tutti. È questa l’equazione del benessere: la ricetta liberale che l’agenda Berlusconi intende realizzare nel nostro paese. Agenda Berlusconi che, guarda caso, coincide con l’agenda Draghi, con le raccomandazioni della Commissione europea al governo Renzi e con quello che, da quando il debito pubblico italiano, cui fa da sfondo la lunga recessione, ha raggiunto livelli non più sostenibili, commentatori, economisti e opinion leader, da Alesina-Giavazzi a Guido Tabellini a Eugenio Scalfari, consigliano al governo: riforma del lavoro, da cui derivererebbe recupero di competitività per il sistema-paese; e riforma fiscale, per ridurre il peso della tassazione su famiglie e imprese, che blocca lo sviluppo e la conseguente ripresa dell’occupazione.

C’è, poi, un terzo grande tema: l’Europa e la Banca centrale europea. La politica monetaria espansiva della Bce deve essere accompagnata da riforme strutturali in tutti gli Stati dell’area euro. In particolare, riforme fiscali sincroniche che, via riduzione del carico tributario, portino all’auspicato indebolimento della moneta unica. E per fare questo, deve essere proprio la locomotiva d’Europa, se ancora vuole essere tale, a cominciare. La Germania deve mettere più soldi nelle tasche dei tedeschi e far crescere la propria domanda interna, con il giusto e buon livello di inflazione che ne deriverà. Per dirla con termini tecnici: la Germania deve reflazionare. E l’impatto sarebbe immediato sulle economie di tutti i paesi dell’eurozona. Lo dice anche la rigorosissima Bundesbank, nonché il presidente del consiglio economico della Cdu tedesca, Kurt Lauk. Entrambi evidentemente inascoltati da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaüble.

Il compito di Matteo Renzi, se vuole riempire di significato questo semestre di presidenza italiana dell’Unione europea, così ricco di aspettative, ma ad oggi deludente nei risultati, è proprio quello di spiegare alla cancelliera Merkel l’importanza del ruolo della Germania e della reflazione tedesca in Europa. Ma non è solo di questo che si tratta: la Germania deve reflazionare anche per non incorrere nella procedura di infrazione per avanzo eccessivo della sua bilancia dei pagamenti, che tanti problemi ha creato a tutta l’eurozona. Squilibrio derivante da un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fondamentali dell’economia tedesca, che ha reso le esportazioni di quel paese più competitive rispetto a quelle degli altri Stati dell’eurozona, senza alcun meccanismo redistributivo. La Germania colmi, quindi, questo gap di solidarietà rispetto agli altri partner europei, che significa anche rispetto dei Trattati, e tornerà a crescere a ritmi elevati e a trainare l’economia dell’intera area euro. Se davvero vuole che la moneta unica continui ad esistere.

Su questo tema, è stato il Fondo Monetario Internazionale il primo a lanciare la sfida alla Germania: lì il rapporto deficit/Pil oggi è pari a 0,1%. Se il governo tedesco aumentasse la spesa di mezzo punto di Pil, sarebbero 14 miliardi di euro all’anno in più in circolazione. E gli effetti si vedrebbero a cascata sull’intera area dell’euro. Ma si potrebbe andare anche ben oltre lo 0,5%. Prima che in Germania il deficit raggiunga il limite massimo del 3% ci sarebbe un margine fino a 75 miliardi. È questa la vera flessibilità di cui parlare. Piuttosto che chiedere sconti per l’Italia, Matteo Renzi, come abbiamo già detto, deve convincere la cancelliera Merkel a reflazionare l’economia tedesca, non solo a proprio vantaggio, ma anche, e soprattutto, per le ricadute positive su tutti i paesi dell’area euro.

In questa sfida, il presidente del Consiglio italiano avrebbe con sé non solo il Fondo Monetario Internazionale, che ha fatto i conti, ma anche la Commissione europea, e la fortissima sponda del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America.

L’euro tedesco, di fatto, contro ogni volontà e sogno, ha distrutto l’Europa, creando squilibri crescenti, appunto, nelle bilance dei pagamenti; e tassi di rendimento sui debiti sovrani divergenti, senza alcun meccanismo di redistribuzione e di riequilibrio. È questa la malattia mortale che ci affligge. Perché gli squilibri nei rapporti tra esportazioni e importazioni e nei flussi di capitali si riflettono sul deficit e sul debito pubblico degli Stati.

La soluzione, dunque, al di là di tutto quanto fatto (inutilmente) finora è una sola: i paesi che registrano un surplus nella bilancia dei pagamenti (che include sia i movimenti delle merci sia i flussi di capitali) hanno il dovere economico e morale non di prestare i soldi, non di “salvare” gli altri paesi, ma di reflazionare. Cioè aumentare la loro domanda interna.

A questo punto serve a poco il meccanismo di multe, elaborato ad hoc dalla Commissione europea e che fino ad oggi non ha funzionato, per i paesi che superano la soglia, troppo alta, quindi inefficiente, del 6% nel rapporto tra esportazioni e importazioni (alla Germania, che ha un surplus superiore al 7%, è stato fatto solo un semplice richiamo). La via da seguire è un’altra e più efficiente.

Le altre sfide del governo Renzi in campo economico sono, abbiamo detto, il mercato del lavoro (e se ne parliamo ancora vuol dire che il decreto Poletti, come avevamo previsto, è risultato insufficiente) e il fisco. Sul primo il dibattito è più che aperto e sembra andare nella direzione giusta se l’intenzione del governo è quella, auspicata tanto da Forza Italia quanto dal Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, di una sospensione per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A cui aggiungere un maggiore spazio alla contrattazione aziendale rispetto alla contrattazione collettiva. Come chiesto all’Italia, tra l’altro, dalla Banca centrale europea nella famosa lettera del 5 agosto 2011, ove, tuttavia, si riconosceva l’importanza dell’accordo del 28 giugno 2011 tra l’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e le principali sigle sindacali e le associazioni industriali in tema di riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva.

Per quanto riguarda la riforma del fisco, infine, il governo ha la strada segnata: basta solo procedere con i decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, approvata in via definitiva dal Parlamento già a febbraio, che non possono più aspettare. Meno tasse dunque in Italia, finanziate dalla riduzione della spesa corrente, ma anche in Europa. In totale e piena sincronia, per avere un New deal e più consumi, più investimenti produttivi e infrastrutturali, più competitività e più crescita.

Sono queste le cose da fare: tre (mercato del lavoro, fisco, Europa), semplici e definite, onde evitare quell’affanno operativo e quella caotica inconcludenza temuti dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e che Commissione europea e mercati finanziari non ci perdonerebbero. Tre scelte che sono da sempre nell’agenda Berlusconi oggi, come già erano anche nel programma della coalizione di centrodestra con cui sono state quasi vinte le elezioni di febbraio 2013, grazie ai voti di dieci milioni di italiani. E come erano nell’agenda liberale del 1994. È questo il programma da realizzare per porre rimedio ai troppi errori che negli anni della crisi sono stati fatti dall’Europa a trazione tedesca. E su questo il governo sarà chiamato a confrontarsi, dopo la pausa estiva, con il Parlamento e con il paese. Non servono all’Italia redistribuzioni furbesche del reddito per comprare consenso, come è avvenuto nel caso degli 80 euro, che tanti guasti e squilibri hanno creato nei conti pubblici italiani (se n’è accorto perfino il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio), ma di una limpida visione. Meno tasse, più lavoro, più crescita, più Europa.

Lasciate in pace il ceto medio

Lasciate in pace il ceto medio

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La parola chiave della politica sociale di metà agosto è «asticella». L’ha usata ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, intervistato sul Corriere da Enrico Marro. Si discuteva di un (non tanto) ipotetico contributo di solidarietà (slittamento lessicale che sostituisce la parola «tassa») a carico delle pensioni alte ed è rispuntato un progetto e un vecchio dilemma dei governi succedutisi in questi tribolati anni. Se il contributo di solidarietà lo si carica sugli assegni mensili veramente d’oro e d’argento le risorse che si rastrellano per questa via alla fine sono poche, assomigliano dal punto di vista del bilancio dello Stato a briciole. Se invece l’asticella ministeriale del prelievo viene collocata più in basso ecco che la platea dei colpiti diventa molto più larga e si raccoglie decisamente di più. Il guaio è che in questo modo non ci si limita a sforbiciare i redditi dei superburocrati che godono di una pensione aurea ma si tassa di nuovo una parte significativa del ceto medio.

Il governo Renzi ha scelto questa strada? La tesi di un prelievo con asticella bassa nel dibattito di politica economica viene in genere attribuita al deputato Yoram Gutgeld, renziano della seconda ora che in passato aveva immaginato un contributo del 10% sulle pensioni superiori a 3.500 euro per un incasso totale di 3,3 miliardi. Dopo essere stato per un lungo lasso di tempo in ombra, Gutgeld dovrebbe essere il perno della squadra di economisti che Matteo Renzi vuole vicino a sé da settembre a Palazzo Chigi e non è un caso, dunque, che i ministri ricomincino a ventilare l’ipotesi del contributo di solidarietà. Gutgeld è un ex manager di punta della società di consulenza McKinsey ed è naturale quindi che nella sua formazione economico-culturale prevalga un’impostazione di tipo illuministico, sorprende caso mai che Renzi, attentissimo al consenso popolare, la faccia propria. Una nuova tassa che colpisca il ceto medio, seppur la sua porzione relativamente più agiata, riporterebbe indietro le lancette dell’orologio del Pd. I democratici sarebbero risospinti nel solco della tradizione della sinistra italiana poco attenta ai mutamenti di opinione del ceto medio tartassato.

Attenzione, però. Già nei giorni scorsi le cronache hanno registrato un repentino cambio di umore a Nord Est con un sondaggio secondo il quale anche gli artigiani veneti – che pure avevano votato e si erano spellati le mani per Renzi – cominciano a nutrire dubbi sull’efficacia della sua azione. Il segnale, per quanto agostano, non va sottovalutato: vuol dire che i disillusi non albergano solo tra le élite. Ma al di là delle considerazioni che attengono al campo dei sondaggi e degli indici di popolarità, aprire uno scontro con il ceto medio proprio ora, alla ripresa delle attività dopo la breve pausa estiva, sarebbe un errore grossolano. Il Paese ha bisogno di un semestre di mobilitazione per la crescita, di sforzi sinergici tra azione di governo e sentimento della società civile. Gli 80 euro in busta paga devono servire a far riprendere i consumi e rianimare la boccheggiante domanda interna. Se invece alla fine a dominare la comunicazione dovesse essere ancora una volta la parola «tasse» saremmo punto e a capo. Saremmo pronti per organizzare il Festival della Depressione.

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Francesco Forte – Il Giornale

Il dopo ferragosto comincia con una brutta notizia, che riguarda la casa in Italia: i mutui immobiliari non beneficiano abbastanza del basso costo del denaro, dovuto al bassissimo tasso (appena lo 0,25%) della Banca centrale europea.

La differenza salta subito all’occhio facendo il confronto con il resto d’Europa: comprare casa con il mutuo a maggio costava il 3,1% annuo nel nostro Paese, mentre nel resto del Vecchio continente costa il 2,71%. E oltre al costo del mutuo c’è quello delle imposte patrimoniali, che in due anni sono aumentato del 107% secondo le stime diffuse ieri dalla Confartigianato, che sono una media per tutti gli immobili e non comprendono ancora il rincaro dovuto alla Tasi, il cui livello in molte città non è stato ancora determinato.

Non solo. La prima casa, che al tempo di Berlusconi, cioè sino al 2011, era esonerata dalla patrimoniale, prima con Monti, poi con Letta e ora con Renzi invece è tassata. La conseguenza è stata una contrazione dell’industria delle costruzioni. I cui risultati sono evidenti da queste cifre: le imprese del settore sono diminuite del 2,71% e gli occupati si sono ridotti del 4,8%, di circa 70mila unità, oltre lo 0,3 per cento degli occupati. Aggiungendo i posti persi nelle industrie che lavorano per l’edilizia da quelle dei laterizi, a quella delle piastrelle e del vetro e i posti persi nelle industrie e nei servizi che riguardano i nuovi immobili, ne risulta un rilevantissimo contributo alla crescita dei disoccupati e alla stagnazione della nostra economia.

Occorre anche aggiungere che si è creato un circolo vizioso fra la crisi delle industrie dell’edilizia e connesse e il costo dei mutui immobiliari, dovuto al fatto che le banche hanno, ora, parametri patrimoniali che rendono per loro difficile espandere più che tanto il credito. Tali parametri sono intaccati dalle perdite sui crediti concessi negli anni passati. Ciò non tanto per i muti immobiliari, che in Italia, a differenza che in altri Paesi, sono chiesti e concessi con maggior cautela, quanto nei prestiti alle imprese, in particolare dell’edilizia e del mercato immobiliare e delle industrie e dei servizi connessi, andate in difficoltà, con la crisi causata dalla nuova tassazione patrimoniale.

Ecco la sequenza della spirale perversa, che è stata scatenata dagli “apprendisti stregoni” della vetero sinistra italiana, al potere dalla fine del 2011, che credevano che la tassazione patrimoniale degli immobili e soprattutto della prima casa, servisse per l’equità (Monti aveva addirittura denominato «salva Italia» la sua manovra, in cui campeggiava la patrimoniale immobiliare, di cui la tassazione della prima casa era, per lui, uno degli strumenti maggiori del “salvataggio”).

Il mercato immobiliare viene depresso dalla nuova patrimoniale immobiliare e da altri tributi sul risparmio come il rincaro del bollo sui costi correnti. Prima scricchiola, poi crolla l’industria edilizia. Molte imprese edilizie e di settori a monte e a valle di essa vanno in crisi. La loro occupazione si riduce. I mutui a molte di queste imprese si incagliano o diventano insoluti. I parametri patrimoniali delle banche peggiorano perché i loro cespiti immobiliari perdono valore e così le perdite bancarie si accrescono. In questa spirale perversa, il credito diventa più difficile, anche per i mutui immobiliari. Tanto più che le famiglie hanno meno valori immobiliari da offrire in garanzia, perché il prezzo delle case è sceso per effetto della crisi economica. L’industria edilizia subisce nuove contrazioni con un aumento della disoccupazione.

Se questa è giustizia sociale, anche Bin Laden può aspirare alla beatificazione. La ricetta equa è opposta. Per rilanciare l’economia e l’occupazione serve una industria delle costruzioni che va. In altri Paesi, la ripresa del mercato delle costruzioni e di quello immobiliare ha fatto da volano all’intera economia. Bisogna quindi moderare la tassazione degli immobili, onde i mutui e gli investimenti immobiliari riprendano vigore e le famiglie possano avere più benessere.

Ecco il risultato di più tasse: le entrate crollano del 7%

Ecco il risultato di più tasse: le entrate crollano del 7%

Rodolfo Parietti – Il Giornale

L’Italia detiene il poco invidiabile primato mondiale della pressione fiscale. Lo sanno anche i bambini: siamo spremuti come limoni in un profluvio di tasse da crescendo rossiniano.

Eppure, apparente paradosso, l’ultimo Bollettino di Bankitalia ci racconta che le entrate tributarie si sono sgonfiate, nel giugno scorso, del 7,7% rispetto allo stesso mese del 2013. Appena 42,7 miliardi di euro finiti nelle casse. E poteva anche andar peggio: «Tenendo conto di una disomogeneità nella contabilizzazione di alcuni incassi», avverte via Nazionale, «la riduzione delle entrate tributarie sarebbe stata più pronunciata». Male anche i primi sei mesi, periodo in cui lo Stato ha contabilizzato in bilancio uno 0,7% di entrate in meno. Il piatto, insomma, piange. Con un effetto collaterale inevitabile anche sul debito pubblico tricolore, schizzato a quota 2.168,4 miliardi.

Queste cifre si prestano ad alcune riflessioni. La prima delle quali è che un simile andamento fuori registro della finanza pubblica espone il Paese al rischio, sempre più fondato, di finire tra le grinfie della troika e di dover varare una manovra correttiva da lacrime e sangue. Forse non sarà quest’anno, come assicura il premier Matteo Renzi, ma nel periodo 2015-2017 la manovra potrebbe oscillare tra i 20 e i 60 miliardi, con ricadute ancora più depressive su un Paese incapace di uscire dalla recessione. È vero: ieri il Tesoro ha spiegato che l’ascesa del debito dall’inizio dell’anno (quasi 100 miliardi) è anche legata alla volontà di «fare provvista» sfruttando i bassi tassi di interesse. In ogni caso, se il Tesoro non avesse deciso di approfittare dei rendimenti ai minimi, il debito sarebbe comunque cresciuto di oltre 36 miliardi, tenuto conto dei 4,3 miliardi versati come sostegno finanziario ai Paesi dell’euro zona.

Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato che il debito rappresenta «un gravame di 36.225 euro sulle spalle di ogni italiano». In cinque mesi – sostengono inoltre le associazioni – il governo Renzi ha accresciuto il debito pro capite di 875 euro. L’aumento del debito ci riporta al calo delle entrate fiscali, soprattutto imputabile alla situazione economica generata dalle politiche restrittive fin qui seguite proprio con l’obiettivo di risanare i conti. Un aggiustamento che, appunto, non ha interrotto l’ascesa del nostro debito, ma in compenso ha impoverito il Paese. Più disoccupazione ha significato minor gettito derivante soprattutto dai lavoratori dipendenti; il timore di perdere il posto e le scarse prospettive di un miglioramento della congiuntura si sono tradotte in una progressiva contrazione dei consumi.

Lo stesso innalzamento dell’aliquota Iva ha verosimilmente provocato una riduzione delle entrate e concorso a strozzare ogni segno di ripresa. Sotto questo profilo, il Giappone è un caso da manuale: l’aumento dell’imposta dal 5 all’8% ha contratto il Pil nel secondo trimestre dell’1,7%. Una frenata brusca, certo. Ma ancora sopportabile per un Paese che veniva da un periodo di robusta espansione garantita dalle misure di stimolo economico varate dal premier Abe. Al contrario, la decisione di tassare di più i consumi è stata presa in Italia nonostante un ciclo economico fortemente deteriorato e senza alleggerire, contestualmente, la pressione fiscale.

In un Paese dove le risorse per gli investimenti sono diventate sempre più scarse risulta incomprensibile l’incapacità di utilizzare i fondi messi a disposizione dall’Unione europea a causa di inefficienze burocratiche, oppure per l’incapacità di presentare progetti appropriati. Soldi che rischiamo di perdere? «Che Roma possa perdere l’interno ammontare del programma, pari a 40 miliardi, è teoricamente impossibile – ha detto David Hudson, portavoce della Commissione europea – perchè equivarrebbe a non avere un partnership agreement e questo, appunto, è teoricamente impossibile visto che tutti i Paesi membri ne hanno uno». Ammette comunque Renzi: «I fondi europei l’Italia negli ultimi decenni li ha spesi peggio di come avrebbe potuto. Il nostro governo cercherà di cambiare il modello».