tasse

Abbiamo le tasse più alte del mondo

Abbiamo le tasse più alte del mondo

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un record mondiale imbarazzante per l’Italia e del quale la maggior parte della classe politica (soprattutto di governo) non prova nessuna vergogna. È quello della pressione fiscale effettiva che vede il nostro Paese in cima alla classifica Ocse con il 53,2% del prodotto interno lordo. È quanto emerge da un’elaborazione dell’Ufficio studi di Confcommercio sui dati del 2013.

Come si giunga a questa performance da guinness è presto detto. Se si considera la pressione fiscale apparente, cioè il gettito in relazione al reddito prodotto, l’Italia si trova al quarto posto tra i Paesi più industrializzati con il 44,1%, superata da Danimarca (50,1%), Belgio (48,7%), Francia (47,8%) e Svezia (45%) che, effettivamente, tassano a più non posso ma, in generale, restituiscono servizi pubblici di buona qualità. L’Italia, però, detiene un altro record ed è quello dell’economia sommersa che produce il 17,3% del reddito nazionale. Il combinato disposto delle due realtà è che in Italia su ogni euro dichiarato si pagano 53,2 centesimi di imposte.
Al danno delle stangate si aggiunge la beffa della depressione. L’Italia, infatti, è uno dei Paesi che maggiormente ha subito gli effetti negativi della recessione: lo sbilancio dei conti pubblici è stato, infatti, curato da quasi tutti i governi con nuove tasse che hanno ucciso la competitività e la produttività della nostra economia. Nel periodo 2000-2013 la pressione fiscale italiana è aumentata del 5% mentre il Pil reale pro capite è diminuito del 7 per cento. Non è questione di «euro sì» contro «euro no»: sia la Germania, regina di Eurolandia, sia la Svezia, che s’è tenuta la corona, sono cresciute nello stesso periodo rispettivamente del 15 e del 21% solo perché hanno ridotto la pressione fiscale (del 6% Berlino e del 14% Stoccolma). La situazione è talmente triste che, propone Confcommercio, con l’inclusione di traffico di droga, prostituzione e contrabbando nei metodi internazionali di calcolo del Pil si possono sbloccare 1,68 miliardi di risorse con cui si potrebbero destinare 250-300 euro a testa per ciascuno dei sei milioni di italiani poveri assoluti.
Il peggio deve ancora venire. L’Ufficio studi di Confcommercio ha, infatti, tagliato le stime di crescita per il 2014 dallo 0,5 allo 0,3% a causa del crollo degli investimenti (-0,9%). Ecco perché il presidente della confederazione, Carlo Sangalli, ha ribadito la sua ricetta anti-declino: «Per far ripartire l’economia bisogna realizzare subito una poderosa operazione: meno tasse e meno spesa pubblica, più riforme e più lavoro». La propensione al consumo è in calo e il «mix esplosivo Tasi-Imu-Tari» sta complicando la vita di famiglie e imprese. «Tenere i conti in ordine non può ostacolare la crescita» perché, altrimenti, i problemi si acuiscono e «non si può escludere a ottobre una manovra correttiva», ha concluso. «Serve un’operazione-verità», ha chiosato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, intervenuto al convegno, aggiungendo che «gli ultimi due trimestri 2014 di crescita piatta o negativa trascineranno i loro effetti anche nel 2015», rischiando di compromettere anche la mini-ripresa. Di qui la mano tesa a Renzi. «Il governo faccia una vera riforma fiscale sfruttando la delega e abbassando le tasse e, allo stesso tempo, riformi seriamente il mercato del lavoro», ha detto Brunetta promettendo collaborazione. Il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, però, ha replicato che «non c’è bisogno di una manovra correttiva». Se, però, non si attuerà una vera spending review, Renzi rischia di perdere la faccia.

Il primo taglio delle accise, sui fiammiferi

Il primo taglio delle accise, sui fiammiferi

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Non basterà certo questo a farci perdere il record mondiale di pressione fiscale. Ma nel Consiglio dei ministri di domani il governo si prepara addirittura a cancellare una tassa. Non tagliare ma cancellare del tutto. Purtroppo si tratta solo dell’accisa sui fiammiferi. Decisione indolore perché da quel bollino sulle scatoline di cartone lo Stato incassa ogni anno appena due milioni e mezzo di euro. Briciole. E perché quella somma sarà più che compensata dall’aumento delle accise sulle sigarette, comprese quelle elettroniche, che porterà in dote una somma ben più alta. Nel Paese in cui il taglio delle tasse viene solo annunciato da anni (con l’eccezione non trascurabile del bonus da 80 euro), la speranza è che la prossima sforbiciata alla pressione fiscale finisca un po’ meno in fumo.

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Federico Fubini – La Repubblica

Umberto Angeloni e Gustavo Ascione non si conoscono, ma da qualche anno le loro vite scorrono in parallelo. All’inizio della crisi entrambi hanno puntato tutto sul made in Italy, hanno esportato e creato (o difeso) dei posti di lavoro. Quando poi credevano di avercela fatta, hanno ricevuto una visita dell’Agenzia delle Entrate e delle contestazioni tali che a entrambi è parso di entrare in una sorta di mondo kafkiano.

È probabile che di casi come i loro si parli oggi, quando il nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi farà il suo debutto in un’audizione parlamentare. Non sono esempi isolati, a giudicare dalle cifre del ministero dell’Economia. Nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con esito favorevole ai contribuenti contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi di euro: una somma lievemente superiore a quella su cui la vittoria è stata invece dello Stato. L’anno scorso gli imprenditori in Italia hanno presentato 250mila ricorsi contro accuse di evasione, affrontando costi e rischi legali, evidentemente perché ritengono di poter vincere. Almeno una parte di loro fa parte del popolo di mezzo, quello dei produttori schiacciati fra un’evasione endemica che supera i 100 miliardi e gli uffici incaricati dal governo di falcidiarla. Il problema sorge quando il diserbante non colpisce solo i parassiti ma anche le piante più sane e produttive.

Angeloni ha rilevato nel 2007 la Caruso Menswear di Parma, un’azienda di 600 addetti che produce moda da uomo per alcuni dei grandi gruppi globali del lusso. In quattro anni l’ha riportata in utile, ha fatto entrare con il 35% Fosun, il più grande fondo privato cinese, e ha sviluppato un marchio proprio. Fino a quando l’Agenzia delle Entrate ha suonato alla porta questa primavera. I controlli in azienda sono durati due mesi e al termine le accuse si sono concentrate su certi incarichi per la comunicazione affidati nel 2009 a consulenti esterni. Le imprese di moda di solito spendono in promozione fra il 5% e il 10% del fatturato, la Caruso appena l’1%. Ma l’Agenzia delle Entrate nel suo verbale giudica il piano di comunicazione della Caruso «non determinante per la strategia aziendale» e definisce le prestazioni dei consulenti «impersonali e generiche», tale che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Suona come una valutazione di merito sugli spazi commerciali comprati dalla Caruso, ma su questa base è partita una richiesta di versare al fisco circa 100.000 euro in più. Per l’Agenzia delle Entrate, in altri termini, quell’investimento in comunicazione era «non determinante» e quindi fittizio. «Mettere in discussione la strategia dell’azienda per poi rigettarne le spese viola lo spirito della legge, lascia l’impresa vulnerabile all’abuso e distrugge la fiducia fra l’autorità fiscale e il contribuente» ribatte Angeloni, che ne frattempo ha speso già 50mila euro per difendersi.

Ancora più del collega, Gustavo Ascione è rimasto colpito dalla sordità dei funzionari dell’Agenzia quando ha avuto un accertamento nel 2012. Ascione ha fondato nel 2007 la Silk&Beyond, un’azienda casertana di 9 addetti che esporta tessuti da arredamento in Russia e Medio Oriente. Sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto, gli hanno contestato una produzione in nero e chiesto di pagare oltre 60mila euro. La multa poteva far chiudere l’azienda. «Ho cercato di spiegare che i tessuti hanno pesi e orditi diversi secondo le tipologie e che del filo avanza sempre in fondo ai rocchetti. Ma non mi hanno ascoltato» dice.

L’Agenzia delle Entrate non commenta su questi casi e, di certo, il suo ruolo è stato determinante nell’evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi del debito. Gli incassi da «attività di controllo» in un Paese piagato dall’evasione sono saliti da 2,1 miliardi nel 2004 a 13,1 nel 2013. Alcuni però pensano che offrire bonus ai funzionari dell’Agenzia in base alle somme che riscuotono sia un errore. «Non dovrebbero avere incentivi per fare quello che è il loro dovere e per cui sono pagati comunque» osserva Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze del centrosinistra, è anche più critico: «Spero che Orlandi, il nuovo direttore, cambi linea rispetto al passato: pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi. Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe, ndr) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente».

Anche su questo l’Agenzia non commenta e sicuramente è difficile attrarre professionalità di alto livello nella lotta all’evasione senza paghe adeguate. Ma solo per il 2011, ultimo anno reso noto, per i dirigenti di seconda fascia dell’Agenzia la spesa nella parte fissa è stata di 30 milioni di euro e quella dei bonus variabili di 25. I premi sono legati alle somme passate in giudicato e con Ascione non ha funzionato: ha speso 7mila euro in avvocati e moltissimo tempo sottratto alla cura del prodotto e dei mercati, ma una commissione tributaria ha prima sospeso e poi annullato la contestazione contro di lui. Angeloni invece è a un bivio: si ritiene innocente e sa che, se ricorre, dovrà comunque pagare un terzo dell’ammenda in via preliminare, poi scatteranno le stesse multe anche sugli anni dal 2010 al 2013. C’è però una buona notizia. Nel 2010 ha vinto un ricorso per 50mila euro di tasse non dovute. Quattro anni dopo aspetta ancora con fiducia il rimborso.

Sull’evasione il fisco dà i numeri

Sull’evasione il fisco dà i numeri

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana, per una volta, lo stanco rito delle interrogazioni parlamentari ci ha regalato un po’ di ciccia. Un onorevole parlamentare ha fatto la seguente domanda: sentiamo parlare molto di lotta all’evasione, ci volete far sapere quanta roba è stata ufficialmente scovata dai vostri uffici? O, meglio, ci dite l’ammontare dei crediti fiscali che il governo vanta nei confronti dei suoi 60 milioni di cittadini? La risposta secca è stata: una montagna. La bellezza di 475 miliardi di euro. Se, per magia, questo debito fiscale fosse pagato dai contribuenti in questo istante, avremo risolto i nostri problemi finanziari con l’Europa, il debito pubblico scenderebbe infatti sotto il 100 per cento del Pil. Può mai essere? Ma certo che no. Il Fisco con noi bara. Il che non sarebbe una novità. Ma quel grande e gigantesco numero ci dice per quale motivo le statistiche sull’evasione (o presunta tale) si debbono prendere con la medesima attenzione con cui si cucinano i polli di Trilussa.

Intanto una prima considerazione sulla follia italiana. Quando si tratta di fare le leggi siamo dei duri e prevediamo sanzioni pazzesche. Tanto sulla carta il gioco è semplice. Poi quando ci si scontra con la realtà arrivano i guai. Su 475 miliardi che dovremmo al fisco, la bellezza di 250 miliardi (cioè più della metà dell’intero importo) è fatto da sanzioni e interessi. Bravi legislatori, fate i duri, tanto poi non vi paga nessuno. Ma andiamo avanti. Un euro di credito fiscale vantato dallo Stato ogni quattro è riferito a società o imprese che sono fallite. Dunque si tratta di carta straccia. Insomma, la montagna ha partorito il topolino.

Ricapitolando, gran parte del debito è fatto da sanzioni e non da imposta evasa e poi un quarto dello stesso è riferito a società fallite che, con ogni probabilità, non solo non pagheranno il fisco ma non hanno pagato manco i loro fornitori e dipendenti. La montagna dovrebbe così scendere a circa 180 miliardi di imposte potenzialmente evase e i cui mancati pagamenti si sono accumulati negli ultimi anni. Anche questa cifra è una balla. Succede, infatti, che dalle nostre parti si paghi prima del processo o meglio prima della sentenza definitiva. Quando vi pizzicano con qualche problema fiscale o conciliate subito, come direbbe il vigile alla Sordi, o sono comunque dolori. Ricorrendo in commissione tributaria viene comunque iscritto a ruolo un terzo del presunto debito fiscale ed entra così in questa mostruosa contabilità. Se si dovesse poi perdere in primo grado (c’è sempre la non remota possibilità che si vinca in appello) l’iscrizione a ruolo sale a due terzi.

Sì lo so è estate, i siete persi, vorreste stare in vacanza. Ma il punto è fondamentale poiché la comunicazione ha la sua importanza. Si dice che gli italiani hanno evaso centinaia di miliardi di euro. Poi si scopre che circa il 50 per cento di queste mirabolanti cifre sono sanzioni. Ci si scorda infine l’attitudine prevaricatrice del Fisco che tende a incassare e presumervi evasori fiscali anche prima di un giusto processo. Et voilà, il gioco è fatto. La morale di questa storia è la solita. Quando il Fisco parla, dà i numeri.

Un’estate di tasse per 20 milioni di contribuenti

Un’estate di tasse per 20 milioni di contribuenti

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

L’ingorgo in coda all’estate. Qualche giorno fa il calendario delle scadenze fiscali è stato messo per l’ennesima volta alla prova: è arrivato l’annuncio del rinvio dal 31 luglio al 19 settembre della scadenza della presentazione dei modelli 770. Si tratta dei moduli che contengono l’elenco della forza lavoro retribuita e la loro presentazione è obbligatoria da parte dei datori di lavoro. Ora è attesa la firma del ministro dell’Economia sul decreto che successivamente arriverà a Palazzo Chigi per il via libera definitivo, ma già tra oggi e domani è atteso l’annuncio ufficiale da parte dell’Amministrazione finanziaria. Sollievo? Poco. Problemi? Quasi invariati. La sostanza della questione non cambia: in gioco ci sono più di 400 adempimenti in poco più di un mese. Rimane quasi intatto l’ingorgo fiscale dell’estate: l’erario chiede ai contribuenti uno sforzo titanico dal 20 agosto al 19 settembre. A dare l’allarme erano stati i consulenti del lavoro e i commercialisti che, rielaborando i dati dell’Agenzia delle Entrate, avevano segnalato il periodo critico per le imprese e i professionisti. In ballo c’è una paradossale emergenza estiva con i contribuenti non solo chiamati a soddisfare le richieste di un Fisco tra i più esosi d’Europa, ma anche a dover fare i conti con tanta burocrazia e una marea di adempimenti concentrati nel periodo in cui mezza Italia si ferma.
Quanto sia pesante questo stato di cose lo ha ricordato il premier ieri pomeriggio a Genova per l’arrivo della Concordia. «Se noi semplifichiamo la burocrazia, diamo efficienza al Fisco, diamo semplicità alle regole sul lavoro possiamo uscire dalla crisi che è europea e non solo italiana. Poi il tempo ci dirà se abbiamo ragione noi o i gufi», ha chiosato Matteo Renzi.

Il rinvio

E allora perché non si riesce a evitare questa concentrazione in una fase in cui l’Italia pensa più alle ferie che ad altro? In realtà il calendario fiscale prevedeva una prima scadenza al 16 giugno ma l’Amministrazione finanziaria è arrivata col fiatone e il ritardo nel rilasciare circolari e aggiornamenti ha prodotto proroghe che hanno portato le scadenze fino al 20 agosto. Tutte tranne quella più «pesante» che riguarda il modello 770 che solo a seguito di proteste e reiterate richieste sarà spostata al 19 settembre. E così l’ingorgo è stato semplicemente traslocato di un mese.

Imprese, professionisti e artigiani

Sono circa 20 milioni i contribuenti coinvolti in questa frenetica attività estiva che prevede esattamente 410 adempimenti necessari per potere quantificare il pagamento delle imposte dovute. Oltre al modello 770 c’è di tutto: da Irpef a Irap, Ires, Iva e poi addizionali regionali, Inps, Tobin tax, Imposta sostitutiva sui redditi di capitale e sui capital gain. Senza contare il versamento dei contributi previdenziali per lavoratori dipendenti, ma anche per artigiani, commercianti, collaboratori, lavoratori domestici. E pure i diritti dovuti alle Camere di commercio cadono nel medesimo periodo dell’anno.
Naturalmente la platea di contribuenti costretti ad affrontare quest’onda anomala di provvedimenti fiscali amplifica l’impatto. Si va dai 171 adempimenti per gli imprenditori individuali, seguiti a stretto giro dai professionisti con 167 adempimenti e via via fino a giungere 72 adempimenti per gli enti non commerciali. Ma anche imprenditori, commercianti, artigiani, partite Iva, professionisti, co.co.pro sono coinvolti in questo balletto di date incerte che non aiuta né la pianificazione finanziaria aziendale né la razionalizzazione delle attività.

Un nuovo calendario

Secondo il parere unanime degli addetti ai lavori, per dare una svolta a questo «imbuto estivo» bisogna allargare le vie d’accesso al Fisco e per riuscirci serviranno dosi massicce di semplificazioni a tutto campo. «Una soluzione che continuiamo a proporre ormai da tempo, anche nell’ambito della riforma fiscale che in questo momento è in Parlamento – afferma Marina Calderone, presidente del Coordinamento unitario delle professioni -. Un esempio illuminante in tal senso è rappresentato dall’introduzione della cosiddetta contrapposizione di interessi: consiste nel rendere detraibile tutto quello che il contribuente spende, senza alcun limite. Questo avrebbe una serie di vantaggi: pagamento delle imposte sui redditi effettivi; interesse a richiedere la ricevuta o lo scontrino per qualsiasi pagamento; azzeramento degli adempimenti trattandosi di semplici conteggi di detrazione. Sarebbe un modo efficace anche per favorire l’emersione del nero. È un metodo scelto da molti altri Paesi, Stati Uniti in testa, ma che in Italia non riusciamo a far adottare». Un sistema che avrebbe anche l’effetto di diminuire la montagna di adempimenti.
Al di là di ogni semplificazione rimane comunque la necessità di eliminare l’imbuto e per riuscirci serve un patto concreto tra gli operatori (imprese, professionisti e contribuenti) e l’Amministrazione finanziaria in modo da concordare e mantenere un calendario rispettoso delle esigenze dei contribuenti e dei professionisti che con il loro operato garantiscono allo Stato il regolare incasso di imposte, tasse e contributi. Serve dialogo. Infatti da tempo i professionisti dell’area giuridico-economica ritengono indispensabile l’insediamento di un tavolo in cui si decidano date fisse e inderogabili ma diluite nel tempo. Perché, almeno il Fisco risparmi agli italiani l’ingorgo estivo.

Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Luca Cifoni – Il Messaggero

L’economia italiana non sembra ancora in grado di uscire dalle sabbie mobili della recessione: le difficoltà in cui continua a dibattersi sono legate ad un insieme di nodi difficili da sbrogliare: da una parte i vizi antichi che già a partire dagli anni Novanta hanno messo il freno al nostro prodotto interno lordo, dall’altra le recenti tempeste, in particolare nell’area dell’euro, che hanno imposto un percorso di risanamento faticoso. Nel 2000 il nostro Paese ha sperimentato per l’ultima volta una crescita robusta, con +3,7 per cento, ma poi nel nuovo secolo l’incremento del Pil è tornato solo una volta sopra la soglia del 2 per cento. E subito dopo è iniziata la grande crisi, prima nel segno degli Stati Uniti e delle sue banche, poi dei debiti pubblici europei.

Il governo guidato da Matteo Renzi rivedrà a settembre le proprie stime, dopo aver preso visione del dato preliminare sul prodotto del secondo trimestre, che l’Istat diffonderà il prossimo 6 agosto. Ma lo stesso presidente del Consiglio ha riconosciuto che sarà praticamente impossibile confermare l’obiettivo fissato in primavera, ossia un pur modesto incremento dello 0,8 per cento. L’esecutivo conta sull’effetto favorevole delle riforme sia economiche che istituzionali, molte delle quali sono però ancora nel pieno del percorso parlamentare. Tra le misure già in vigore c’è l’alleggerimento dell’Irpef per i dipendenti con reddito medio basso: un provvedimento che secondo la Banca d’Italia avrà un effetto di spinta all’economia, ma limitato: nel biennio 2014-2015 due decimi di punto in più per i consumi e un decimo per il Pil. Questo anche a causa del contemporaneo impatto di segno contrario, restrittivo, delle misure di taglio alla spesa incluse nel provvedimento.
È chiaro che non esiste una ricetta magica per la crescita. Né si può pensare che la spinta all’economia venga solo dall’azione di un governo. Ci sono però scelte che possono contribuire a riportare il Paese su un sentiero di sviluppo, soprattutto se perseguite con coerenza nel tempo. Il Messaggero ha chiesto a quattro rappresentanti di altrettante associazioni d’impresa e a due autorevoli economisti di sintetizzare le proprie indicazioni, di spiegare quale può essere la scossa necessaria a far ripartire davvero il Paese.
Il quadro che ne esce è naturalmente variegato, ma emergono alcuni importanti elementi in comune nelle diverse analisi. Da una parte la necessità di alleggerire in modo sensibile un carico fiscale che si è fatto insopportabile in particolare con l’avanzare della crisi. Dall’altra quella di rilanciare davvero l’investimento pubblico, vera vittima della stagione della stretta sui bilanci: al momento di tagliare la mannaia è sempre caduta in maniera più pesante su questa voce che sulle uscite correnti. Ma una vera spinta agli investimenti non può che passare per l’Europa, e questo a sua volta richiede un cambio di marcia sia delle strutture comunitarie che degli stessi governi. Poi certo ci sono i mali atavici del nostro Paese, la burocrazia, l’insufficiente livello di innovazione: occorre agire anche su questi ma i tempi saranno inevitabilmente più lunghi.

Marcella Panicucci (Confindustria)
Puntare sull’impresa regole certe e semplici

Ritrovare la crescita: un imperativo urgente. Le imprese hanno le idee chiare sulla ricetta per farlo.
Regole semplici, certe e stabili nel tempo. Ecco perché le riforme costituzionali sono essenziali. Sono la chiave per accendere il motore dell’economia e fa bene il Premier a perseguirle con determinazione. Parallelamente serve un piano urgente di rilancio dell’economia, per recuperare competitività e permettere alle nostre imprese di andare sui mercati esteri a pari condizioni con i concorrenti stranieri. Un unico perno di questa strategia: puntare sull’impresa manifatturiera. Tre i pilastri: ridurre i costi, rilanciare gli investimenti, dare liquidità. Per ridurre i costi occorre partire dal carico fiscale sul lavoro, abbattendo l’Irap, che è una vera tassa sull’occupazione, e dal costo dell’energia, evitando, come fatto con il taglia-bollette, di distribuire pochi benefici a centinaia di migliaia di soggetti facendone pagare il costo (alto) alle imprese manifatturiere.

Rilanciare gli investimenti il secondo imperativo, a partire da quelli in R&I. La leva fiscale è un grimaldello che se usato in modo virtuoso può dare frutti straordinari. In altri paesi che hanno seguito questa strada è stato così. Per questo serve liquidità. Vanno sbloccati i prestiti alle imprese, anche sfruttando le misure della BCE, e pagati subito tutti i debiti della PA. Le imprese hanno voglia di ripartire. Con pochi, ma decisi interventi la ripresa è a portata di mano.

Carlo Sangalli (Confcommercio)
Un piano credibile per ridurre le imposte

Gli effetti della recessione picchiano ancora duro sulle imprese che continuano a chiudere e sulle famiglie, ancora molto prudenti per il futuro incerto. Per Pil e consumi non c’è ancora nessun chiaro segnale di risveglio ed è evidente che l’export da solo non basta a spingere l’economia. Il 2014 non sarà certamente l’anno della ripresa. In questo quadro la priorità è quella di un’unica, grande riforma economica: quella fiscale. Con l’obiettivo di ricostituire il potere di acquisto delle famiglie. Perché deve essere chiaro a tutti che l’attuale livello di pressione fiscale su famiglie e imprese è incompatibile con qualsiasi concreta prospettiva di ripresa. Quello che serve, dunque, è una certa, graduale e sostenibile riduzione delle tasse perché solo così si possono stimolare nuovi investimenti, favorire nuova occupazione e soprattutto si può dare una scossa tangibile alla domanda interna che, per consumi e investimenti vale l’ottanta per cento del prodotto interno lordo e che può favorire una ripresa più robusta e duratura. Per fare questo occorre agire su due leve fondamentali: da un lato, controllo, riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, e qui occorre davvero usare il bisturi su quegli ottanta-cento miliardi di sprechi ritenuti aggredibili sia a livello centrale che periferico.
Dall’altro, fare in modo che ogni euro recuperato dalla lotta all’evasione e all’elusione fiscale venga destinato alla riduzione della tasse.

Antonio Patuelli (Abi)
Recuperare la fiducia per spezzare la crisi
Occorre più fiducia per spezzare ciò che rimane del clima di recessione, per favorire una ripresa degli investimenti di imprese e famiglie. In questi mesi è cresciuta la valutazione internazionale dell’Italia e sono affluiti capitali sui nostri titoli azionari e di Stato e per gli aumenti di capitale (in particolare delle banche) che hanno avuto successo. Paradossalmente vi è più fiducia dall’estero verso l’Italia che di troppi italiani verso l’Italia stessa. Non bisogna arrendersi a stati d’animo del genere né sottovalutare i gravi problemi esistenti: occorre non rassegnarsi ad essi ma favorire uno spirito costruttivo anche quando non gioca la Nazionale di calcio. Occorre rifiutare ogni pessimismo strumentale: non si tratta di diventare ottimisti comunque, ma di imprimere un ottimismo della volontà. In tal senso sarà decisiva la prossima legge di stabilità con le misure che emergeranno. Anche le recenti decisioni assunte dalla Bce per tutta l’Europa potranno contribuire a dare concretezza a un nuovo clima di fiducia. L’innovazione di rendere disponibile nuova liquidità solo per ulteriori prestiti bancari sarà importante e da utilizzare con efficacia appena le nuove misure saranno operative, dal settembre prossimo. Le banche operanti in Italia, tutte sorrette da capitali privati nazionali ed esteri, devono essere in prima fila a spingere la ripresa in convergenza con gli investimenti delle imprese di ogni altro settore. Non è un sogno astratto, ma un obiettivo concreto e realizzabile per innestare un nuovo circuito virtuoso per più produttività e occupazione, anche con più solidi valori etici.

Jean-Paul Fitoussi (Luiss)
Più libertà sul deficit per le spese produttive
Matteo Renzi ha cominciato bene, con energia, dimostrando che alle parole seguono i fatti, agli annunci le riforme. Adesso comincia una fase più difficile, quella di capire quali siano i reali margini di manovra economici, ovvero fino a dove si possa arrivare per sostenere crescita e occupazione. Il proseguimento della politica di Matteo Renzi implica un accordo europeo. Le questione che si pone in questa nuova fase è la stessa per tutti i paesi europei: intendiamo accontentarci di un tasso di crescita leggermente positivo dopo sei anni di segno negativo e di stagnazione, oppure ci decideremo finalmente a prendere misure all’altezza della situazione, molto più radicali, che prevedano spese d’investimento e un aumento transitorio del deficit pubblico nella maggior parte dei paesi europei? In altri termini, o l’Europa si accontenta di registrare unicamente gli aumenti del deficit che sono conseguenza diretta della riduzione del Pil, oppure farà scelte più dinamiche e accetterà aumenti del debito per incoraggiare gli investimenti e facilitare la crescita. Non mi riferisco a cifre o percentuali: è necessario mettersi d’accordo su quali spese si possano considerare produttive, educazione, ricerca, ambiente energie rinnovabili. O l’Europa accetterà che queste spese possano essere finanziate con prestiti – e questo servirà a tutti, Italia compresa – o continuerà con la sua politica puramente aritmetica. Basta con le percentuali e le cifre magiche, bisogna essere intelligenti e pragmatici.

Paolo Buzzetti (Ance)
L’edilizia unico motore del mercato interno
La crisi non è finita. Dopo quasi 5 anni di austerity anche la locomotiva Germania sta perdendo colpi. Segno che le politiche europee di contenimento della spesa pubblica e di tagli radicali agli investimenti (-47% in Italia solo nell’edilizia dall’inizio della crisi) non hanno sortito gli effetti sperati, anzi hanno contribuito alla recessione. Tra le peggiori performance c’è sicuramente quella del nostro Paese che per ripartire non può che puntare sull’edilizia: unico vero motore del mercato interno. Messa in sicurezza delle scuole, manutenzione del territorio, riqualificazione delle città sono alcuni dei principali capitoli sui quali dobbiamo concentrarci nei prossimi mesi. Ma per riuscire a mettere in atto questi ambiziosi programmi, che finalmente sono tra le priorità dell’agenda di Governo, ci vuole una forte spinta politica e il coraggio di superare dogmi finanziari che hanno frenato finora ogni possibilità di ripresa. Come il limite del 3% del rapporto deficit/Pil, un parametro anacronistico e arbitrario, o il patto di stabilità che non consente alle amministrazioni pubbliche di fare manutenzione, pagare le imprese e garantire servizi efficienti ai cittadini. Ci vuole dunque un grande piano di opere pubbliche diffuse su tutto il territorio da realizzare con regole ordinarie, all’insegna della trasparenza e della legalità. Insieme a una politica di sostegno alla casa martoriata da un fisco iniquo che penalizza le fasce più deboli della società.

Giacomo Vaciago (Università Cattolica)
Programma europeo di nuovi investimenti

Tutta l’Europa è ferma, per un semplice motivo: manca una politica economica europea. All’interno del continente naturalmente c’è qualcuno che va avanti e qualcuno che va indietro, ma questo succede anche nel nostro Paese. E non ha senso rallegrarsi perché la Germania rallenta un po’, visto che il suo rallentamento danneggerà anche noi. C’è una sola cosa da fare, subito: i 18 governi dell’Eurozona devono smettere di credere che questa sia composta da 18 Paesi indipendenti, come se l’Europa fosse solo un’espressione storico-geografica. È necessario agire insieme. Invece, come nel caso della polemica sulla flessibilità, passiamo il tempo a discutere su come interpretare la mole di regole che abbiamo prodotto. La crescita però bisogna meritarsela: la Cina ad esempio è riuscita a ripartire dopo i provvedimenti del governo. Noi europei rischiamo di diventare l’ultimo vagone del treno globale, di dipendere da quello che si decide altrove. Dobbiamo piantarla con il giochino di darci la colpa l’un l’altro e iniziare a muoverci. In concreto, si tratta di attivare rapidamente un piano europeo di investimenti, un piano congiunto anche se differenziato nei vari Paesi.
Le cose da fare sono tante, basti pensare in Italia alle infrastrutture per la mobilità o alla messa in sicurezza del territorio. Il nostro Paese ha la responsabilità della presidenza di turno, è fondamentale non far passare questo semestre in chiacchiere ma concentrarsi sulle decisioni. Da noi poi servono investimenti massicci anche nel privato: è giusto ricapitalizzare le banche, ma hanno bisogno di essere ricapitalizzate le stesse imprese.

Bella sinistra

Bella sinistra

Davide Giacalone – Libero 25 luglio 2014

Il Paese è in crisi, impallato, non riesce a crescere e a scrollarsi di dosso la paura. Vero. Sono necessarie riforme strutturali, capaci di ridare potenza al motore. Giusto. La sinistra non deve restare legata ad anacronistici tabù, deve accorgersi che la globalizzazione ha cambiato le carte in tavola e deve tradurre i propri ideali in ricette assai diverse da quelle del passato. Parole sante. Ed ecco, dopo queste premesse, quel che ha in animo di fare il nuovo capo del governo, uomo di sinistra: a. sgravi fiscali alle imprese; b. diminuzione del costo del lavoro, per un totale di 40 miliardi; c. riduzione del debito pubblico per un ammontare di 50 miliardi in tre anni. Sono qui in piedi che applaudo. Quando avrò finito mi mangerò le mani, perché non è il capo del governo del mio Paese, ma della Francia.

Prendiamo quei tre punti, per misurare quanto il governo italiano sta andando in direzione opposta: 1. gli sgravi fiscali, sotto forma di bonus, sono andati a una parte dei lavoratori, non alle imprese che, invece, hanno visto crescere la pressione fiscale, a vario titolo (a fronte della leggera limatura del cuneo sono diminuite le deducibilità, aumentate le tasse sul risparmio, aumentate quelle sulle banche, gli immobili, gli investimenti energetici, etc.); 2. avendo dato il bonus il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato, non per le imprese, ma per il sistema Italia, il che, quindi, non ci ha fatto guadagnare produttività, mentre l’effetto sui consumi deve ancora vedersi; 3. non solo il debito pubblico sale, non solo non ci sono piani di abbattimento, ma la querula petulanza sull’elasticità e la flessibilità lasciano intendere che l’Italia preme sul tetto del deficit, che poi si traduce in debito crescente.

Qui ci siamo spesi per dimostrare, negli anni, quanto la condizione dell’Italia non fosse peggiore di quella di altri, anzi. Abbiamo più volte sottolineato quanto fragile sia la condizione della Francia e delle sue banche. Ma quando leggo le parole di Manuel Valls, capo del governo francese, misuro il loro vantaggio politico: hanno capito e si muovono nella giusta direzione. Noi animiamo la tragicommedia del Senato e facciamo finta di dimenticare che gli appuntamenti autunnali sono ineludibili, mentre i provvedimenti fin qui adottati sono sbagliati, o inutili. Il resto è mera declamazione.

Possibile che a palazzo Chigi non se ne rendano conto? Credo lo sappiano. Lo sanno al punto che hanno idee diverse e contrastanti, su quel che occorre fare. C’è la ricetta Padoan, destinata a trovare spazi di solidarietà in sede europea e internazionale. Quella Delrio, che lancia messaggi di consapevolezza e invita a non fare promesse che non potranno essere mantenute. C’è Calenda, che gradisce la cucina francese, rivendicando la sua coerenza (la riconosco), ma dimenticando che i governi hanno solo responsabilità collegiali e collettive, non individuali (quelle sono penali, tema diverso). Su tutti vola Renzi, che cerca la rissa per avere un colpevole da massacrare, nel frattempo sostenendo tesi più da campagna elettorale che da governo. Fin dall’inizio ha un solo partner, Berlusconi. Connubio che non s’incrina sul Senato, giacché non è la sensibilità costituzionale il loro forte, ma sarà messo alla prova sul terreno dell’economia. Che non può essere imbrogliato a sole parole.

Su quel terreno mi pare che l’atteggiamento italiano conta su un’unica sponda: se si dovesse arrivare alle maniere ruvide, se il trivio fosse fra far finta di non vedere che i conti italiani sono taroccati, costringere l’Italia a un’ulteriore botta fiscale, o, infine, prendere atto degli sfondamenti e avviare una procedura d’infrazione, se si arriva a quello allora il bersaglio diverrebbe la Banca centrale europea, e per essa Mario Draghi. Verrebbe messo su quel conto l’avere comperato tempo rivelatosi inutile. S’indebolirebbe chi, in Germania, ancora considera l’Ue un disegno da completarsi, non da scolorirsi. Con la Bce s’azzopperebbe l’unica cosa che ha funzionato. Può darsi che ciò non rompa l’asse Mineo-Minzolini, e manco quello Berlusconi-Renzi. Scasserebbe tutto il resto, però. Ove mai a taluno interessi. L’alternativa c’è. Valls ne è una dimostrazione. E su quello sì che il connubio sarebbe virtuoso. Meritevole d’essere accostato a quello che, in un lontano passato, tagliò gli estremismi e mise in sicurezza l’Italia.

Franceschini parla, il consumatore paga

Franceschini parla, il consumatore paga

Nicola Porro – Il Giornale

Il celebre telefonino della Apple costerà in Italia qualche euro in più. Il decreto Franceschini, dal nome del ministro della Cultura, ha stabilito l’aumento della tassa sulle memorie elettroniche. Così agli autori di opere di ingegno (contanti, registi e così via) si deve riconoscere un contributo forfettario per il loro lavoro, anche quando esso venga copiato dal supporto originale a quello vergine. Vabbè, lasciamo agli esperti la lista dei beni colpiti e le contraddizioni di questa norma. A noi interessa il principio. La regola d’oro delle tasse è che queste ultime vengono pagate sempre e solo dai contribuenti. Non c’è il mago Zurlì che se ne faccia carico.

Quando il governo Berlusconi introdusse con Tremonti la Robin tax si disse che si beccavano i ricchi petrolieri. Balle. Le imprese ribaltarono su clienti finali la nuova imposizione (circa tre milairdi di costi in più per il sistema). L’authority ha addirittura trovato un’ottantina di casi in cui la procedura di rialzo dei prezzi (vietata dalla norma) fu fatta direttamente, senza alcun sotterfugio. Quando si aumentano le imposte sulle banche (e le nostre sono tra le più tassate d’Europa), queste ultime hanno buon gioco a tenere alti i costi dei conti correnti. Quando si introduce la Tobin tax (regalo assurdo del governo Monti) dicendo che si tassa così la speculazione, si ottiene il favoloso effetto di pizzicare i piccoli risparmiatori cassettisti e lasciare liberi i grandi speculatori in derivati che pagano in somma fissa e ridicola. Non esistono la finanza, le banche, i produttori di telefonini e così via. Esistono i loro clienti, sui quali vengono trasferite le tasse che i politici fingono di voler applicare alle grandi e cattive imprese.

In un umoristico comunicato un’associazione di consumatori scriveva, riguardo all’ultima tassa sulle memorie elettroniche: «I prezzi debbono restare inalterati – così come chiesto da Federconsumatori ed Adusbef al tavolo di discussione ministeriale – e tutto dev’essere risolto in una redistribuzione dei profitti a scapito dei produttori che già lucrano abbondantemente sul prezzo di vendita». Questi geni dei consumatori oggi piagnucolano perché era stato loro assicurato che gli imprenditori cattivi non avrebbero «lucrato» e disquisiscono sulla «redistribuzione dei profitti». Questi il mercato non sanno neanche dove sia di casa. E non capiscono che la bestia da affamare non sono le imprese (che si fanno i loro affari) ma lo Stato (che si fa i nostri, di affari).

Smentito Franceschini, la tassa Siae fa aumentare i prodotti Apple

Smentito Franceschini, la tassa Siae fa aumentare i prodotti Apple

Luciano Capone – Libero

«Firmato il decreto “copia privata”. Il diritto d’autore garantisce la libertà degli artisti e i costi vanno sui produttori, non sui consumatori» dichiarava il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Lo stesso concetto espresso dal presidente della Siae Gino Paoli: «Questo compenso, però, non deve essere a carico di chi acquista lo smartphone ma del produttore, che riceve un beneficio dal poter contenere sul proprio supporto un prodotto autorale». Dopo un mese dalla firma del decreto che ha innalzato il costo dell’imposta che grava su tutti i dispositivi elettronici con supporto di memoria come telefonini, computer, televisioni, memorie di massa e quant’altro, è arrivata la smentita da parte del mercato: la Apple (e come lei tante altre aziende) ha ritoccato i propri listini alzando il prezzo di iPhone, iPad e MacBook per recuperare gli aumenti delle tariffe previsti dal decreto e destinati alla Siae.

La Siae ha attaccato l’azienda di Cupertino per la sua azione «provocatoria» e i sindacati l’hanno definita un’operazione «di pura mistificazione della realtà, mirata a mantenere inalterati i propri ingenti profitti». Il ministro Franceschini, di fronte alla rivincita della realtà sulle sue promesse, si è detto «allibito per non dire indignato» e si è scagliato contro l’azienda americana per un «aumento puramente ritorsivo nei confronti dei loro clienti italiani». Secondo il ministro la dimostrazione è il fatto che «in Francia un iPhone 5s costa 709 euro a fronte di una tariffa per copia privata di 8 euro, in Germania 699 con una copia privata di 36 euro, in Italia 732,78 euro con la copia privata a 4 euro». Così la Apple, conclude Franceschini, «scarica sui soli consumatori italiani il legittimo compenso dovuto agli autori pur di non ridurre lievemente il proprio margine di guadagno». Parole quasi sovrapponibili a quelle di Gino Paoli.

In realtà non è accaduto che la cattiva e speculatrice multinazionale americana, chissà per quale strano motivo, abbia messo in atto una «ritorsione» sui propri clienti, che tra l’altro sarebbe un comportamento abbastanza controproducente visto che i clienti sono la fonte dei guadagni della Apple, ma è avvenuto un semplice comportamento che in economia si chiama traslazione d’imposta, ovvero il trasferimento da parte di un contribuente del costo di una tassa sugli altri contribuenti. Il governo può aumentare le imposte ma non può decidere chi di fatto le paga perché (per fortuna) non può fissare il prezzo dei beni che in un mercato libero vengono decisi dall’incrocio fra domanda e offerta, cioè dai produttori e dai consumatori. Era prevedibile che l’aumento dell’imposta per la copia privata, in quanto aumento del costo del prodotto, avrebbe inciso anche sul prezzo finale e quindi sulle tasche dei consumatori. Come era evidente che quella di Franceschini fosse un’affermazione infondata per un altro motivo: sulla copia privata si paga l’Iva e un aumento delle copia privata comporta per forza di cose un aumento dell’Iva, che per definizione ricade sui consumatori. Ma il fatto che la copia privata venga pagata per intero dai consumatori è ammesso indirettamente anche dalla Siae, che prevede esenzioni e rimborsi per le imprese che acquistano i supporti di memoria per esclusivi scopi professionali, cioè senza fare copie private. Quindi se la Siae non eroga il rimborso ai produttori ma restituisce i soldi ai consumatori, chi l’ha pagata la copia privata? Le multinazionali o i consumatori?

Stupirci diventa sempre più difficile

Stupirci diventa sempre più difficile

Ester Faia* – Panorama

Renzi scopre che non si può fare una riforma al mese in un Paese con un conflitto sociale acuito da anni di esasperazione e stagnazione. Le prospettive di crescita non migliorano. Non ci sono solo i tempi dilatati delle riforme, ma una mancanza di proposte creative. Pensare che 80 euro al mese facciano ripartire la crescita è ingenuo e semplicistico: la propensione al consumo è alta per redditi bassi, ma diventa nulla se non si dà certezza che la misura sia permanente. Vi è poi da considerare che in periodi di recessione/stagnazione il risparmio precauzionale sale e che gli 80 euro andranno a compensare aumenti di tasse come la Tasi. Renzi ha continuato a finanziare i deficit non con tagli di spesa (per ora ci sono proposte di tagli) ma con aumenti di tasse sul risparmio. In un Paese gravato da tasse su imprese, consumo e reddito gli ultimi governi hanno fatto cassa con i risparmiatori (di ricchezza immobiliare e mobiliare). Le ragioni addotte sono tante: è difficile evadere tasse su beni visibili come le case; si tratta di tasse redistributive e così via. Purtroppo sono argomenti fallaci: le molte case abusive non sono tassabili; le tasse sul risparmio sono spesso regressive; la progressività si ottiene aumentando gli scaglioni delle tasse sul reddito. Il lato più oscuro di questi aumenti è che, scoraggiando il risparmio, rischiano di deprimere la crescita. In un Paese dove le protezioni sociali sono inesistenti, risparmio e ricchezza sono spesso l’unico modo per far fronte alle difficoltà. In Grecia per pagare gli aumenti di tasse sugli immobili i disoccupati hanno preso a prestito: il risultato è stato inesigibilità delle tasse e nuove insolvenze. Diventa sempre meno probabile che Renzi ci possa stupire.

 

* professore di Economia monetaria e fiscale alla Goethe University, Francoforte