tasse

Quei prelievi da tagliare

Quei prelievi da tagliare

Tito Boeri – La Repubblica

L’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. Ed è illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «Il patto di stabilità non si tocca».

Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso?

Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte.

La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis?

La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale.

Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento.

Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi.

Province quasi abolite

Province quasi abolite

Roberto Petrini – La Repubblica

Sono enti “fantasma” destinati, dopo una lunga battaglia per razionalizzare la macchina dello Stato, a scomparire, ma ancora riscuotono le tasse. Alla fine di quest’anno, nonostante il forte ridimensionamento, le 110 Province italiane incasseranno, secondo un’analisi della Uil servizio politiche territoriali, ancora imposta per 4,5 miliardi. Tre prelievi – sulla Rc auto, sui passaggi di proprietà e sui rifiuti – che andranno direttamente a pescare nelle tasche dei cittadini. Anche se il legislatore, nel corso degli anni, è stato assai abile a nasconderli e a renderli vere e proprie tasse occulte.

L’imposta più pesante che va alle Province è quella sulla Rc auto: fu introdotta nel 1981 da Spadolini con la motivazione bizzarra che chi guida può provocare incidenti e quindi deve contribuire a sostenere il servizio sanitario. L’aliquota va dal 9,5 al massimo del 16 per cento del premio assicurativo e quest’anno darà un gettito di 2,6 miliardi. Le Province, non soddisfatte di riscuotere ancora la tassa, hanno pigiato sul pedale: tutte e 110 la applicano e di queste 76 – tra le quali Roma, Torino, Napoli e Bologna – hanno imposto l’aliquota massima del 16 per cento.

L’altro balzello riguarda sempre l’automobilista: si tratta della Ipt, l’imposta provinciale di trascrizione che si paga quando si cambia macchina o moto. Incasso previsto per quest’anno: 1,3 miliardi. Si deve in tutte le Province ma in 75 – tra le quali figurano Milano, Roma, Firenze, Bologna, Napoli e Torino – viene applicata anche la maggiorazione del 30 per cento. A Roma, tanto per fare un esempio, la Provincia ricava dalla tassa sui passaggi di proprietà 120 milioni, mentre Milano incassa 90 milioni. Della incongruenza di una tassa incassata da enti “fantasma” si è accorto persino il recente decreto sulla pubblica amministrazione che ha previsto, a partire dal prossimo anno, di trasferire l’incasso alle Regioni. Ma per quest’anno pagheremo ancora.

Terzo pilastro che resta in piedi della fiscalità provinciale è il Tefa: pochi lo conoscono ma tutti lo pagano. Si tratta del Tributo provinciale ambientale che versiamo, per una percentuale tra l’1 e il 5 per cento, insieme alla tassa sui rifiuti. Una tassa sulla tassa che renderà alle Province ancora quest’anno 355 milioni. E non è finita: altre microtasse provinciali danno un gettito di circa 99 milioni. Si tratta della Cosap, tassa sull’occupazione del suolo pubblico, pagata sui passi carrabili sulle strade provinciali o per lo spazio occupato da tralicci o centraline. Oppure del tributo per i rifiuti speciali che le aziende versano alle società di raccolta che poi lo girano all’ente provinciale.

Purtroppo la spending review va a senso unico, taglia le spese e lascia pure in piedi le tasse. Tanto è vero che l’Upi, l’associazione delle Province, si trova a protestare per la violenza dei tagli e lamenta effetti «devastanti» sui servizi. «La riforma ha ancora contorni nebulosi – commenta il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy – e si rischia che diminuiscano i servizi ma non le tasse». Chi pagherà le tasse provinciali lo farà con qualche mugugno in più. Le Province infatti hanno avuto un forte ridimensionamento con la riforma dell’aprile scorso e hanno perso molti compiti: non gestiscono più i centri per l’impiego, le politiche del lavoro, trasporti e sostegno allo studio per i disabili. I costi della politica sono stati tagliati per 400 milioni: gli amministratori non saranno più eletti direttamente dai cittadini ma saranno sindaci e consiglieri comunali che faranno il doppio lavoro senza doppia indennità. Anche il personale, pari oggi a 56mila unità, è destinato dopo la riforma a scendere notevolmente: 6mila andranno in mobilità e altri 8mila potranno essere trasferiti ad altri enti. I tagli alla spesa pubblica non servono per diminuire le tasse?

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Enrico Marro – Corriere della Sera

Obiettivo Fisco amico, soprattutto delle piccole imprese. Varati i primi due schemi di decreto legislativo di attuazione della delega fiscale, uno sulle semplificazioni e la dichiarazione precompilata e l’altro sulla riforma del catasto, il governo sta preparando un terzo decreto su «abuso di diritto» e riordino delle sanzioni, che potrebbe approdare in Consiglio dei ministri ai primi di agosto. A settembre, invece, arriverà un quarto decreto che rivoluzionerà la tassazione per le piccole imprese che usano i regimi fiscali semplificati: circa 4 milioni di contribuenti per i quali dovrebbe arrivare la tassazione per cassa e non più per competenza.

Il reddito d’impresa si calcolerà cioè su entrate ed uscite effettive e non su costi e ricavi teorici. In questo modo si dovrebbe superare il problema dei mancati incassi dovuti ai ritardi nei pagamenti. Le tasse, in altri termini, si pagheranno solo su quanto realmente incassato. La novità sarà accompagnata dall’incentivazione della fatturazione elettronica anche tra privati (registri e adempimenti semplificati), che dovrebbe appunto accorciare i termini di pagamento. Inoltre, per favorire la capitalizzazione delle piccole aziende è in arrivo una importante novità: le società individuali e di persone si vedranno tassare il reddito che resta in azienda in base alla nuova Iri (Imposta sul reddito imprenditoriale, prevista dalla delega) secondo l’aliquota proporzionale allineata all’Ires (società di capitali), cioè il 27,5%, mentre solo la parte di reddito che verrà prelevata dall’imprenditore e dai soci subirà l’aliquota Irpef di competenza, concorrendo alla formazione dell’imponibile complessivo. Infine, arriveranno anche un nuovo regime forfettario al posto del regime dei minimi articolato secondo il settore economico di attività e un sistema semplificato per le imprese di nuova costituzione.

Il cronoprogramma di attuazione della riforma fiscale prevede quindi a ottobre la presentazione del decreto legislativo di riordino della giungla delle agevolazioni fiscali. Il provvedimento sarà collegato alla legge di Stabilità 2015 perché da questo capitolo dovrebbero arrivare alcuni miliardi di risparmi. Una partita che si trascina da diversi anni e che nessun governo è riuscito a chiudere. Il processo di riforma sarà quindi completato con i decreti sul nuovo processo tributario, con la revisione della riscossione nazionale locale, che dovrebbe separare i destini dell’Agenzia delle entrate e di Equitalia (oggi posseduta al 51% dalla prima) e col riordino del regime di tassazione trasnazionale. Il tutto sarà accompagnato da un’azione dell’Agenzia delle entrate più concentrata a prevenire l’evasione fiscale.

In questo senso il decreto sull’abuso di diritto e le sanzioni che dovrebbe essere approvato all’inizio di agosto è decisivo. Si tratta infatti di disinnescare la causa di una parte importante del contenzioso fiscale che poggia appunto sulla difficoltà interpretativa delle norme, aprendo da un lato spazi all’elusione e all’evasione e dall’altro a comportamenti vessatori dell’amministrazione fiscale. Per questo si tratta di fare chiarezza distinguendo nettamente, per esempio, tra condotte legittime in quanto finalizzate a pagare meno imposte possibili e condotte invece che hanno come scopo l’evasione. La definizione dell’abuso di diritto verrà accompagnata da una depenalizzazione delle fattispecie minori. Per esempio la dichiarazione infedele per piccoli importi non dovrebbe più far scattare un processo penale ma verrebbe punita con sanzioni amministrative. Decisioni che il governo si aspetta portino a un aumento del grado di fedeltà dei contribuenti e a una diminuzione delle liti giudiziarie.

L’intero processo di riforma va però accelerato. La legge delega 23 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l’11 marzo ed è entrata in vigore il 27. I primi due decreti attuativi (semplificazioni e catasto) sono stati licenziati dal governo a fine giugno, ma non sono ancora definitivi. I decreti infatti passano all’esame delle commissioni parlamentari competenti, che deve concludersi entro un mese, e poi tornano in Consiglio dei ministri per l’approvazione conclusiva. La riforma prevede che tutti i decreti legislativi debbano essere approvati entro un anno. I provvedimenti da emanare sono numerosi. Tra gli altri anche quelli sul riordino dei giochi, e sul potenziamento della lotta all’evasione, oltre che la stima e il monitoraggio della stessa: una novità assoluta in Italia. La riforma del Fisco è appena agli inizi.

L’attesa

L’attesa

Davide Giacalone – Libero

 Si vive con un senso di attesa. Ogni tanto si butta un occhio agli indici che segnalano gli umori del mercato, ma solo per capire se gli anestetici dispensati dalla Banca centrale europea funzionano ancora. Non è detto che debba succedere qualche cosa di drammatico, ma è drammatico che da noi non succeda niente. Che si parli del nulla. Che ancora siano sulla scena le dirette streaming, capaci non certo di portare trasparenza, ma di rendere trasparente il vuoto, il vaniloquio. Sulla scena non c’è più la risata scomposta e volgare di un Sarkozy alterato, incosciente e prossimo alla fine, ma non per questo s’è fatto diverso l’atteggiamento di molti che ci osservano, da fuori. Dicono: ci fidiamo delle riforme e dei conti italiani. Lo dice anche Wolfgang Schäuble, ministro tedesco dell’economia e falco vero, appositamente travestito da colomba. Ci fidiamo. E’ una trappola, perché sappiamo tutti che i conti non sono in linea con gli obiettivi e le riforme sono solo un suono, senza che nessuna andrà in porto prima della chiusura del bilancio 2014. Per non dire dei loro effetti.

È incredibile la velocità con cui Matteo Renzi ha vinto la sua partita politica, radendo al suolo il gruppo dirigente del Partito democratico, conquistando palazzo Chigi e portando a casa il solo successo elettorale di un governante europeo. È stato bravissimo. È non meno incredibile la velocità con cui sta sprecando le occasioni di far pesare e fruttare questi successi, la supponenza, anche mimica, con cui dimostra di pensare che la politica europea sia la proiezione continentale delle camarille pidiessine, l’infantile convinzione che se la palla ora è sua può anche portarsela via. Un gigantesco falò di opportunità, una pira il cui orrendo foco è destinato a riscaldare le gesta di chi ha osservato e amato la politica nell’era in cui la televisione induceva confusione fra fama e potere, fra l’essere famosi e l’essere qualcuno.

Incredibile anche la condotta della destra. Privi di un leader hanno scoperto di non avere mai avuto una politica. E lo dimostrano proprio sul terreno che dovrebbe essere il cortile della loro casa culturale: l’economia. Il nuovo commissario europeo all’economia è un quarantatreenne finlandese, popolare, già premier. Si chiama Jyrki Katainen e ha detto: «Talvolta mi pare difficile capire come mai la disciplina fiscale sia vista come una politica dura e contraria all’economia sociale di mercato: la mia esperienza indica l’esatto contrario». Bravo. È comprensibile che un leader della sinistra, quale è Renzi, punti alla redistribuzione della ricchezza. Anche se finirà con il ridistribuire la miseria. È incomprensibile, inammissibile, insensato che da destra non s’imposti una politica esplicitamente indirizzata al taglio profondo della spesa pubblica, all’abbattimento del debito, quindi a un abbassamento delle tasse. Sanno dire solo l’ultima cosa, in questo ritrovandosi al fianco della sinistra: sia nel dirlo che nel fare il contrario.

Hanno tutti paura. Biascicano un moralismo da strapazzo, con il quale alimentano il veleno anti-partitico e anti-istituzionale, salvo poi praticare riforme costituzionali che consegnano tutto il potere manco ai partiti, ma a chi li capeggia. Ma hanno paura di dire che la spesa da tagliare è oggi catalogabile anche in quella sociale, non solo in quella degli sprechi e delle ruberie. È il sociale a coprire sprechi e ruberie. Prendete la scuola: ci sono regioni che stanno inzeppando le famiglie di ferraglia informatica, destinata agli studi, ma senza fornire né sistemi operativi né contenuti. Soldi buttati. A cura della destra e della sinistra. Certo che la scuola va resa digitale, ma quella è la via che la rende più costosa, lasciandola analogica. Il digitale ha senso se taglia le spese e aumenta la potenza culturale, qui si fa il contrario. Stesso discorso per la sanità. Ha ragione Katainen: il rigore dei conti è la cosa più sociale che si possa immaginare, in un Paese che ha un debito spaventoso e solo un terzo dei cittadini che lavorano.

Ma si resta in attesa. Qualche cosa accadrà. Magari ci concedono la flessibilità. Così potremo fare qualche altro investimento sociale. Forse arrivando, dopo congrua spesa, a conquistare il glorioso successo dei certificati on line. In un mondo in cui, con il digitale, i certificati non dovrebbero neanche esistere.

 

Settembre sarà subito da brivido

Settembre sarà subito da brivido

Gustavo Piga – Panorama

Godiamoci questo agosto non pensiamo al rientro, perché a settembre saremo immersi in un dibattito dagli esiti imprevedibili sul come consolidare i conti pubblici di circa 30 miliardi nel 2015, via aumento di tasse e tagli di spesa, chiesto dall’Europa. In attesa che Renzi riesca a ottenere una moratoria sull’ottuso Fiscal compact, appoggiato anche dal referendum contro l’austerità per il quale stiamo raccogliendo le firme in tutta Italia, è d’obbligo chiedersi cosa si sta facendo per ridurre il tremendo impatto che potrebbe avere la manovra di cui sopra. Saprà il governo identificare in pochi mesi gli sprechi dentro la spesa ed evitare tagli di appalti a casaccio che uccidono imprese e occupazione? Filtrano poche informazioni. Alcune inducono a sperare, altre preoccupano. Tra le prime è la crescente collaborazione tra le istituzioni rilevanti per la spending review. Ne è prova la fusione tra Autorità Anticorruzione e Autorità per la vigilanza su contratti pubblici per migliorare le sinergie ispettive su una materia, gli appalti pubblici, che genera il 15 per cento del pil. Ma anche la lettera congiunta di Cantone e Cottarelli a 200 stazioni appaltanti che parrebbero non aver osservato l’obbligo di acquistare presso la Consip. Tra le seconde, spicca la decisione di dare rilievo decisionale al massimo a 35 stazioni appaltanti. Se è un bene ridurne il numero (sono decine di migliaia), preoccupa una scelta che rischia di far crescere la dimensione media delle gare escludendo il tessuto delle piccole imprese. Significherebbe non solo perdere i risparmi derivanti dal minor numero di stazioni appaltanti a causa della minore concorrenza, ma aggiungervi una minore competitività come Sistema Paese.

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Claudio Cerasa – Il Foglio

Tasse e governo Renzi: dov’è la verità? Due giorni fa il presidente del Consiglio, quasi a voler confermare la teoria che i dossier economici costituiscono la prima vera e drammatica preoccupazione del governo, ha lasciato intendere che la prossima, delicata e rischiosissima legge di stabilità verrà presentata circa un mese prima rispetto alla scadenza prevista per il prossimo venti di settembre. Oltre al non scontato tema delle coperture (ci sono 24 miliardi da trovare, e nessuno ha ancora capito dove si troveranno) non c’è dubbio che il cuore anche culturale della politica economica del governo riguarda un tema sul quale Renzi, con la sua squadra di economisti, è stato stuzzicato domenica scorsa dal Corriere della Sera con un duro editoriale del professor Angelo Panebianco. La tesi del Corriere è che il governo non ha la forza e la volontà di mettere in campo una buona politica fiscale capace di rompere i vecchi tabù della sinistra conservatrice. Palazzo Chigi, lo ha scritto domenica su Twitter il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, sostiene che le cose siano diverse e che andrebbe spiegato «al grande politologo che gli ottanta euro sono la più grande riduzione di tasse nella storia della Repubblica». Chi ha ragione? Cosa ha fatto il governo Renzi sul fronte fiscale? Cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi?

I fronti da analizzare sono principalmente due e sono due punti che si trovano entrambi tra i dossier presenti sul tavolo del governo: da un lato le tasse ridotte e dall’altro quelle aumentate. Il presidente del Consiglio sa bene che la rivoluzione degli ottanta euro potrà considerarsi tale, ovvero una rivoluzione, solo a condizione che nella prossima legge di stabilità i dieci miliardi necessari per coprire il bonus previsto per il 2015 non verranno trovati spizzicando qua e là tra una mezza privatizzazione e qualche soldo guadagnato grazie al miglior rendimento ottenuto sui titoli di Stato. Ciò che occorre è, come si dice, una misura strutturale che possa dare continuità al bonus. E l’unica misura possibile e non transitoria è quella che si nasconde all’interno del pacchetto sulla spending review.

Nelle prossime settimane, entro metà agosto, il piano Cottarelli dovrebbe essere presentato nella sua interezza e a quanto risulta al Foglio sono tre i capitoli sui quali il governo ha intenzione di intervenire: le Ferrovie (per le quali solo nel 2014 lo Stato ha stanziato 4 miliardi), le municipalizzate (nel 2012 il Mef ha stimato che le perdite delle partecipate dei Comuni, soprattutto nel settore del trasporto pubblico locale, siano arrivate a raggiungere un miliardo e 200 milioni di euro) e la revisione dei dossier relativi all’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (7 miliardi stimati dal Mef). Il governo ha promesso che entro il 2014 metterà mano ai settori (entro dicembre il trasporto ferroviario e l’acquisto di beni e servizi, entro ottobre il trasporto pubblico locale), il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti ha anticipato che entro luglio (manca poco però) verrà presentato un piano severo per ridisegnare le partecipate locali e non c’è dubbio che non esiste una credibile politica fiscale se questa non viene affiancata da una credibile politica di riduzione delle spese. «Se Renzi – dice una fonte governativa – avrà il coraggio di finanziare gli ottanta euro andando a toccare settori storicamente intoccabili come quelli legati alle municipalizzate la riduzione delle tasse potrà avere una sua consistenza. Viceversa, se così non dovesse andare, gli ottanta euro rischiano di diventare per Renzi quello che l’Imu è stato per Enrico Letta: un pasticcio». E il resto?

Alcune tasse sono state introdotte dal governo Renzi ma dal punto di vista formale (a parte la Tasi, che sostituisce l’Imu, ma che Renzi ha ereditato dal governo Letta, modificandone e peggiorandone alcuni aspetti) quasi tutte le nuove tasse previste sono state ideate per creare un gettito utile a ridurre altre tasse. Il provvedimento più corposo (scattato il primo luglio) è quello relativo all’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (l’aliquota è passata dal 20 al 26 per cento). Per quanto però sia una tassa discutibile da molti punti di vista (tassare le rendite finanziarie, come si sa, rischia di costringere gli investitori a puntare i propri risparmi solo sui titoli di Stato, togliendo quindi molta liquidità dai mercati) la tassazione delle rendite finanziaria è stata messa in campo per ridurre (di quattro miliardi) un’altra tassa, ovvero l’Irap.

Qualcuno, per esempio il professor Pietro Ichino, sostiene che sarà difficile che siano davvero quattro i miliardi che il governo riuscirà a ottenere dal gettito ricavato da questa tassa (Ichino sostiene che arriveranno a malapena 200 milioni di euro). Ma il principio portato avanti da Palazzo Chigi è sempre quello: non introdurre altre tasse se non per ridurre altre tasse. Andrà davvero così? La promessa è ambiziosa ma il Rottamatore, per non diventare un Tassatore, dovrà essere abile a fare i conti con la dura realtà. E se i dati sulla disoccupazione continueranno a essere preoccupanti (siamo al 12,6 per cento, due punti in più della media europea), il pil non la smetterà di scendere (ad agosto arriveranno i dati del secondo trimestre e a Palazzo Chigi sono convinti che il segno più ancora non ci sarà), la flessibilità non sarà così incisiva come Renzi si aspetta (da seguire il lavoro di Roberto Gualtieri, capo della Commissione economica del Parlamento europeo) il pericolo di dover introdurre qualche ulteriore tassa per tappare i buchi è più di un semplice rischio. Riuscirà Renzi a resistere alla grande tentazione? E soprattutto, in vista della delega fiscale che il Mef intende presentare entro la fine dell’estate, Renzi sarà in grado di dare forma in modo compiuto alla sua idea di rivoluzione del fisco?

Sulla delega fiscale il governo non è ottimista perché le rivoluzioni non si possono fare in cento giorni e forse i mille giorni sono un’ipotesi più realistica. Ma nell’attesa di capire quale direzione prederà il governo (che oltre alla tassazione sulle rendite finanziarie qualche altra tassa l’ha messa, vedi l’aumento del costo per il rilascio del passaporto, anche se il governo ha eliminato il bollo, vedi l’aumento di un euro a partire dal primo ottobre sui pacchetti di sigarette, vedi l’aumento delle tasse, su spinta della Siae, fino al 500 per cento, sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale) nelle ultime ore al Mef è maturata un’idea ambiziosa che merita di essere esplicitata. E la nuova sfida del governo riguarda una promessa da 32 miliardi fatta da Renzi al mondo degli industriali. Promessa che suona così: se mi consentiranno di andare avanti, di governare e fare i tagli alla spesa pubblica che intendo fare, tagli che dovrebbero essere equivalenti a 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016, mi impegno a investire due punti di pil per portare il cuneo fiscale al livello dei grandi paesi europei.

Al momento, dunque, è esagerato dire che il governo non ha agito sul fisco (tecnicamente gli 80 euro sono configurati come un credito di imposta, e dunque sono formalmente una spesa, ma di fatto, per le persone che ne hanno beneficiato, rappresenta una riduzione dell’Irpef). Così come è esagerato dire che il governo sta facendo quello che nessuno ha fatto mai nella storia del paese (occorre vedere se le coperture diventeranno strutturali, se il governo riuscirà a mettere in piedi un sistema fiscale capace di attrarre nuovi investitori, e Renzi riuscirà a mettere in campo un sistema di norme fatto non per allontanare ma per attrarre persone fisiche ad alto reddito). Tutto può succedere ma solo una osa Renzi non potrà permettersi: dire che sul fisco non ha potuto fare quello che desiderava perché qualcuno gliel’ha impedito. La maggioranza c’è. La volontà pure. E in fondo, mai come in questo caso, l’unico nemico di Renzi si chiama proprio Matteo.

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.

La guerra dei trent’anni con il fisco per un rimborso

La guerra dei trent’anni con il fisco per un rimborso

Vittorio Da Rold – Il Sole 24 Ore

Facciamo un salto nel passato fino al 1984 quando non c’erano ancora i telefoni cellulari e Internet muoveva i primi passi ma iniziava un contenzioso con il fisco italiano che forse finirà nel 2014, una sorta di guerra dei trent’anni con il Fisco. Sembra incredibile, ma purtroppo vero. Ripercorriamo la vicenda.

Nell’aprile 1984 il contribuente S.L. subisce un’indebita ritenuta Irpef al momento dell’erogazione di un acconto sul Tfr, l’indennità di fine rapporto. Poco male – pensa il nostro malcapitato – ma non sarà così. Il 7 novembre 1984 il contribuente presenta all’Intendente di Finanza di Milano una richiesta di rimborso, ottenendo il cosiddetto silenzio-rifiuto (un no senza motivazioni). Il 30 marzo 1985 il contribuente presenta ricorso alla Commissione provinciale di Milan, che con sentenza del 17 giugno 1987 accoglie il ricorso. Ma il Fisco non si arrende e l’Ufficio presenta appello. Il primo ottobre 1992 (e sono già trascorsi sei anni) la Commissione tributaria regionale conferma la sentenza di primo grado, dando nuovamente ragione al contribuente. Ma il Fisco non demorde e il 9 luglio 1993 l’Intendenza di Finanza di Milano presenta ricorso alla Commissione tributaria centrale. Il calvario giudiziario continua. Il 19 dicembre 2008 (e sono già trascorsi 24 anni), nonostante le precedenti condanne, l’Agenzia delle Entrate deposita alla Commissione tributaria centrale (soppressa da anni ma ancora in funzione per smaltire l’arretrato!) dichiarazione di persistenza dell’interesse alla definizione del giudizio. Così si va avanti nella contesa. Il 28 novembre 2011 la Commissione tributaria centrale condanna definitivamente l’Agenzia delle Entrate. La vicenda è finita? Non ancora. Il dispositivo della sentenza viene notificato per raccomandata a.r nel dicembre 2011 al domicilio eletto, 27 anni prima, presso lo studio dell’avvocato che allora assistette il contribuente e che ora è difficilmente reperibile per motivi di età. Il contribuente, quindi, ancora non sa delle definitiva vittoria. Solo nel marzo di quest’anno il contribuente riceve una comunicazione, datata 6 febbraio 2014, con la quale il Team Rimborsi chiede al contribuente di esibire il “Modello 102”, documento oggi sconosciuto e che forse fu rilasciato nel 1984 dal datore di lavoro (una società oggi in Italia estinta) per poter procedere al rimborso. A questo punto il contribuente (ormai settantaduenne ma ancora tenace e combattivo) si affida alla Consilium (www.consilium.mi.it) nella persona del commercialista Franco Formenti. Il professionista, dopo lo concerto iniziale (che sarà il “Modello 102”?), cerca di prendere contatto con il funzionario responsabile del Team Rimborsi per far presente che tutta la documentazione di supporto del credito è già a loro disposizione, essendo stata depositata nel fascicolo della causa che loro ovviamente ben conoscono; si vorrebbe evitare di dover avviare il giudizio di ottemperanza (nuovo ricorso e altri costi). Ma si scopre che il numero di telefono indicato in calce alla comunicazione dell’Agenzia è inaccessibile e il numero di fax, anch’esso indicato in calce alla medesima comunicazione, non riceve i messaggi. Situazione kafkiana.

A oggi il contribuente è in attesa di ricevere risposta al messaggio e-mail inviato al Team Rimborsi (per via normale perché i singoli Uffici non hanno un indirizzo d posta certificata) e all’indirizzo Pec della Direzione provinciale II di Milano. Il contribuente attende, sperando di ricevere i suoi 12.269,55 euro oltre gli interessi maturati in trent’anni avendo rinunciato al rimborso delle spese. Nel frattempo il cittadino ha venduto dei titoli per pagare l’Imu e la Tasi che naturalmente sono scadenze che non aspettano.

Follie della burocrazia: l’imposta sui volontari del soccorso alpino

Follie della burocrazia: l’imposta sui volontari del soccorso alpino

Maurizio Caverzan – Il Giornale

L’ultimo colpo di zelo della burocrazia italiota l’ha scoperto Roger De Menech, parlamentare bellunese del Pd. Riguarda l’attività dei volontari del Soccorso alpino e consiste in una nuova tassa camuffata da pagare per chiedere il rimborso della giornata lavorativa al proprio datore di lavoro quando si è chiamati a un intervento di soccorso. Trentadue euro, non pochi centesimi, in marche da bollo da apporre alla domanda. Nell’Italia del canone speciale preteso dalla Rai dai titolari di partita Iva possessori di pc che potrebbero guardare la tv in azienda e delle tasse per i diritti d’autore chiesti ai possessori di tablet e smartphone che potrebbero scaricare film o musica, può succedere anche questo. In fondo, lo scarso stupore di fronte a queste notizie è la spia della deriva e della rassegnazione. «Voglio sapere chi è il geniale burocrate che ha fatto questa pensata», ha dichiarato De Menech rifiutando di rassegnarsi e annunciando un’interrogazione urgente una volta appresa la nuova prassi introdotta dal ministero del Lavoro. A segnalare il caso è stato il responsabile del Soccorso Alpino bellunese Fabio Bistrot. Ma non è escluso che la nuova, fantasiosa gabella riguardi anche volontari in servizio in altre aree geografiche e per altri tipi di interventi. È esattamente ciò che De Menech, segretario regionale del Pd veneto considerato vicino a Matteo Renzi, vuole sapere. E non a caso il deputato bellunese cita il premier: «Dobbiamo lavorare per uno Stato che sia amico dei cittadini e non ostile, come dice Renzi» sottolinea.

La normativa in questione riguarda i cosiddetti “volontari comandati”. Ovvero quei soccorritori che dipendono dalla Protezione civile,richiesti da un ufficiale dello Stato, solitamente il sindaco o il prefetto, di prestare servizio in caso di calamità o di interventi di soccorso. Finora la domanda in duplice copia per il rimborso dell’assenza dalla giornata lavorativa richiedeva una marca da bollo da due euro. Improvvidamente, per decisione autonoma di alcuni uffici provinciali del Lavoro, il costo della marca è passato da due a 16 euro. «Non c’è una legge che stabilisca di quanto dev’essere il bollo per le domande», precisa De Menech. «Tutto avviene in modo arbitrario. È incredibile che qualcuno voglia spremere soldi dai volontari». In questo modo «lo Stato ne aggredisce la dignità e mina il principio di sussidiarietà». La faccenda risulta ancor più antipatica proprio mentre entra nel vivo la stagione turistica nelle zone alpine e appenniniche dove il servizio dei volontari per garantire la presenza dello Stato e fornire il supporto di prevenzione e sicurezza in questi ambienti è quanto mai indispensabile. «Il risultato inevitabile sarà che, dovendo sborsare 32 euro per ottenere il rimborso, i volontari verranno meno al loro impegno e il soccorso alpino rimarrà sguarnito» prevede De Menech. Che sull’argomento annuncia un incontro in settimana con i rappresentanti del governo. «Questo increscioso episodio – prosegue il deputato bellunese – conferma l’urgenza non solo di riformare la pubblica amministrazione ma anche di quanto sia necessario e indispensabile il ricambio di personale all’interno della burocrazia italiana. L’attuale burocrazia è ostile ai cittadini e ai contribuenti, e interpreta il proprio ruolo non al servizio degli italiani ma come potere d usare contro i cittadini».