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Cuneo fiscale: sotto il Governo Renzi aumento del +0,4%. Toccato il livello record del 48,2% del costo del lavoro

Cuneo fiscale: sotto il Governo Renzi aumento del +0,4%. Toccato il livello record del 48,2% del costo del lavoro

ANALISI

In Italia il carico fiscale sul lavoro continua a crescere: tra il 2013 e 2014 è aumentato del +0,4%, toccando il livello record del 48,2% rispetto al costo del lavoro: significa che quasi metà di quanto gli imprenditori pagano per le buste paga dei lavoratori se ne va in tasse e contributi sociali. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro che, elaborando gli ultimi dati Ocse, dimostra come l’Italia sia l’unico grande paese europeo che registra una crescita consistente del cuneo fiscale. Quest’ultimo, infatti, diminuisce in Francia (-0,4%) e Regno Unito (-0,3%) mentre resta sostanzialmente invariato in Germania (+0,1%) e Spagna (0,1%).

 

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La pressione fiscale per i lavoratori si è effettivamente ridotta soltanto per alcune fasce di popolazione, in particolar modo per i single a basso reddito (il calo è compreso tra il -2,3% e il -2,5%) e le famiglie con due redditi (con una riduzione tra il -0,6% e il -0,7%). Risulta invece in aumento per le famiglie monoreddito con figli (+0,5%) e i single con reddito medio o sopra la media (rispettivamente +0,4% e +0,5%). Ne consegue che il bonus fiscale degli 80 euro deciso dal governo Renzi ha paradossalmente prodotto effetti distorsivi, colpendo quanti sono costretti a mantenere una famiglia con un solo stipendio.
Va poi osservato che, rispetto al 2009, l’unica categoria che si è vista diminuire il cuneo fiscale è quella dei single a basso reddito (-1,1% senza figli e -0,2% con figli) mentre le famiglie monoreddito con figli hanno subìto un aumento (+2,1%) superiore a quello per i single a reddito elevato (+1,8%) e medio (+1,4%). Per le famiglie con due redditi l’incremento è compreso tra lo 0,6% e lo 0,7%. La crescita del cuneo fiscale finisce insomma per penalizzare quelle famiglie che vivono con un solo stipendio e che invece andrebbero aiutate.

 

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In valori assoluti, nel 2014 una famiglia con figli a carico e un unico reddito (in media pari a 30.462 euro) ha infatti sopportato un cuneo fiscale pari a 11.880 euro, circa 640 euro annui in più di quello che sarebbe stato se l’incidenza del fisco fosse rimasta ai livelli del 2009. Persino un single con un reddito medio e senza figli a carico ha avuto un incremento più contenuto (+426 euro verso gli attuali 14.683 euro). L’aggravio rispetto al 2009 è inferiore per le altre categorie di famiglie, che hanno subìto un trattamento più favorevole proprio tra il 2013 e il 2014. Anche per loro, tuttavia, di aumento si tratta: tra i 243 e i 306 euro annui. Solamente i single sotto la media pagano di meno, in proporzione, rispetto al 2009 (con un risparmio quantificabile, sui redditi 2014, tra i 40 e i 225 euro) mentre i redditi più alti hanno avuto l’incremento più consistente (+916 euro).

 

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Se le famiglie italiane vivessero all’estero si troverebbero in condizioni decisamente migliori. Grazie a un cuneo fiscale inferiore rispettivamente di 6 e 5 punti percentuali, una famiglia monoreddito con figli che vivesse in Germania o Spagna e con uno stipendio lordo di 30.400 euro si ritroverebbe in tasca tra i 1.250 e i 1.570 euro in più ogni anno (tra i 104 e i 130 euro in più al mese). Lo spread con Regno Unito è ancora più ampio: a parità di condizioni reddituali lorde, una famiglia di Londra risparmierebbe in tasse 3.783 euro all’anno (315 euro al mese). Tra le grandi economie, solo la Francia fa peggio di noi: qui un nucleo monoreddito con figli a carico pagherebbe in tasse 466 euro in più ogni anno.

 

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Un’ipotetica famiglia che avesse invece due redditi da lavoro, uno full time e uno part-time, non troverebbe condizioni peggiori di quelle italiane. Qui il cuneo fiscale pesa per il 39,7% del reddito lordo con un valore di 16.072 euro. In Francia si risparmierebbero 855 euro, in Germania 445 euro, in Spagna 1.296 euro e nel Regno Unito addirittura 6.800 euro.

 

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Per Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, «questi dati dimostrano come il nostro paese continui a tassare troppo, e spesso più di tutti gli altri, i fattori produttivi e il lavoro in particolare. Per molti anni si è discusso di un possibile riequilibrio del sistema di tassazione, con lo spostamento della pressione fiscale dal lavoro ai consumi. Quel che è accaduto concretamente è che la pressione sui consumi è aumentata grazie all’innalzamento delle aliquote Iva (e probabilmente crescerà ancora) mentre non è diminuita e si è in alcuni casi inasprita quella sul lavoro. La manovra degli 80 euro è servita a poco: come abbiamo visto ha dato poco e male ad alcuni ma ha tolto ad altri»

 

La trappola della “precomplicata”

La trappola della “precomplicata”

Davide Giacalone – Libero

Siete prediffidati, non crediate alla precompilata. Agli italiani che accetteranno l’oracolo del fisco, apponendo la propria firma in calce a quel che l’erario chiede, rinunciando a ogni modifica e ulteriore detrazione, quindi anche a far valere le spese mediche eventualmente sostenute, si dice che, in quel modo, eviteranno ogni successivo controllo. Non è vero. Fate attenzione, perché delle bugie che racconta il fisco si pente solo con congruo ritardo. E senza pagare le ammende che pretende dai contribuenti.

Definimmo «precomplicata» quella che s’annunciava come precompilata perché il lavoro non lo ha fatto l’Agenzia delle entrate, che ne mena vanto, ma i sostituti d’imposta. Vale a dire i privati cittadini, per loro i commercialisti, le imprese, i datori di lavoro e, per quel che riguarda i pensionati, le rispettive casse. A una settimana dalla scadenza non era ancora disponibile il modello della CU, la certificazione unica, che ha sostituito la CUD, certificazione unica dipendenti. Tanto è vero che molti di noi hanno ricevuto (o inviato) certificazioni provvisorie e non a norma. Pazienza? Un corno, perché con il nuovo sistema si pagano 100 euro di multa per ogni errore. E il cielo non voglia che oltre a essere irregolare sia pure errata, perché, in quel caso, il contribuente risponde anche di quel che non ha fatto, ma ricevuto. Da qui le missive inviate, per dire: scusate, mi pare sia tutto a posto, ma il modello che mi avete inviato non è quello voluto dall’autorità preposta. Anche nel caso in cui s’accetti l’oroscopo fiscale, trovato nel cassetto digitale, questo non significa affatto che saranno esclusi i controlli. A chi lo sostiene si dovrebbe contestare il raggiro collettivo, perché sono sempre passibili di controlli e accertamenti i presupposti della dichiarazione, inviati all’amministrazione. Ed è la dimostrazione che la rivoluzione di cui parla la direttrice dell’Agenzia, Rossella Orlan­ di, altro non è che un assemblamento d’informazioni, fornite dai privati.

Esempio: la tua banca mi ha detto che hai un mutuo e tu mi hai detto che sei residente nella casa cui quel mutuo si riferisce, io fisco ho usato quelle informazioni per precompilarti la dichiarazione, ma non ne rispondo, perché sei tu banca e tu cittadino che me le hai date. Che, in compenso, sono sventolate minacciosamente verso quanti osino cambiarne anche un solo rigo. Magari, come detto, per detrarre le spese mediche. E non solo saranno controllati, ma ne risponderanno personalmente i consulenti che lo aiuteranno a farlo, siano essi commercialisti o Caf. I quali sono professionisti che il fisco s’era abituato ad utilizzare come esattori, il cui costo era ed è a carico del tassato, al punto da non sopportarne la funzione quando tornano a svolgere il loro genuino mestiere: aiutare il contribuente ad adempiere i propri doveri, senza, però, versare nulla più di quel che si ritiene dovuto. Fate pure, dice il fisco, ma se commettete un errore pagate in due: il contribuente e il complice.

È giusto? Secondo me no, ma ammetto che ci potrebbe anche stare, se l’amministrazione fiscale non si distinguesse a sua volta per grossolana demagogia ed enormità degli errori. Leggo che la dottoressa Orlandi prende le distanze dai blitz stile Cortina. «Abbiamo cambiato atteggiamento», dice. Il modo giusto per perseguire l’evasione fiscale è un altro, usando le banche dati. Ma va?! Noi lo sostenevamo allora, ma finimmo sommersi dalla marea retorica e stucchevole del dagli all’evasore, con il direttore dell’Agenzia che magnificava l’operazione. Sostenevamo allora quel che l’Agenzia dice oggi: è roba spettacolare, ma inutile. Solo che noi ci beccammo le accuse di volere proteggere gli evasori, lanciate da un’opinione pubblica da cotanto ufficio diseducata al rispetto dell’onorabilità di ciascuno. Direi che non guasterebbe ricevere le scuse. Se la cosa risulta complicata, possiamo inviarne una bozza, pre­compilata.

Ci indigniamo per gli 8mila evasori totali ma sono gli stessi del 2013

Ci indigniamo per gli 8mila evasori totali ma sono gli stessi del 2013

Davide Giacalone – Libero

Quando le fiamme gialle scoprono evasori e malfattori i contribuenti e le persone oneste gioiscono. Se fanno due conti e mettono in moto la memoria, poi un po’ s’ammosciano e indignano. Nel Rapporto annuale della Guardia di Finanza si legge che nel 2014 sono stati scoperti 8mila evasori totali, 17.802 reati tributari e 13.062 denunciati (146 arrestati). Il dato relativo agli evasori totali è in linea con quello degli anni scorsi (ad agosto del 2013 comunicarono di averne trovati 4.933, da gennaio). Ci sarà pure una fabbrica di evasori totali, ma al ritmo di 8mila l’anno dovrebbero pur diminuire. Invece no. A integrare il plotone è probabile ci siano molti casi di piccola taglia, che fanno numero, ma non promettono gettito. Guardiamo quello.

Nel 2013 l’Agenzia delle entrate rese noto che dal 2000 al 2012 si erano accumulati 807,7 miliardi sottratti al fisco. Da quella montagna, però, si dovevano togliere 193,1 miliardi, perché i contribuenti interessati avevano già dimostrato di non doverli; 69,1 erano stati pagati; 20,8 erano ancora in contestazione. Già si scende da 807,7 a 524,7. Si tolgano altri 107 miliardi, perché dovuti da soggetti falliti, quindi a decidere sarebbero dovuti essere i giudici fallimentari, escludendosi le normali procedure di recupero. 19 miliardi erano già stati rateizzati, quindi in corso di riscossione. Da 807,7 si passava a 398,7. Che non è la stessa cosa. È un conto della serva, ma utile a capire che una cosa è l’evasione contestata, altra quella accertata. Una cosa è l’evasione accertata (con sentenza), altra quella recuperata.

L’effettivamente recuperato è il solo dato decisivo, giacché il resto è supposizione o mal funzionamento della macchina pubblica. Veniamo, ad esempio, al Matteo Renzi che dice: non ci saranno nuove tasse. Nei documenti del suo governo (spero li abbia letti), in approvazione domani, c’è scritto che la pressione fiscale crescerà. Nel 2014 è arrivata al 43,5% del prodotto interno lordo; nel 2015 resterà al 43,5, nel 2016 arriverà al 44,1. Il tutto, meglio non dimenticarlo, calcolato su un Pil crescente. Bene, cioè: male. Ma potrebbe anche essere una buona notizia, se l’aumento della pressione fosse dovuto a recupero dell’evasione. Così non è, però, e ciò a causa del meccanismo prima sbozzato: cifre altissime nelle contestazioni, ridotte assai nelle riscossioni. Crescenti sono solo i soldi presi alle persone per bene: +93% dai fondi pensione (i nostri risparmi), 1,1 miliardi nei primi due mesi del 2015.

Torniamo al Rapporto, per averne conferma. I militi contabilizzano in 4,1 miliardi (2014) frodi e sprechi ai danni dello Stato. Fra le frodi vanno inclusi i contributi illecitamente percepiti, per 666 milioni da fonte europea e per 618 da fonte nazionale. Nel corso delle indagini sono stati posti sotto sequestro 161 dei primi e 164 dei secondi. Queste cifre, già nettamente inferiori al teoricamente contestato, non possono essere incamerate dall’erario, perché in attesa che si sappia se ha ragione la Guardia di Finanza o il contribuente. Nel caso sia il secondo, non è escluso che sia schiantato, prima di saperlo. Stesso discorso per gli appalti in odor d’irregolarità: hanno controllato contratti per un ammontare di 4,6 miliardi e ne hanno denunciati per 1,8. Questi sono reati penali, la cui notizia emerge nel 2014, sicché ci rivediamo attorno al 2020 (se va bene), per sapere come è andata a finire. Nel frattempo gli innocenti vivranno l’inferno e i colpevoli si daranno da fare, per mettere al sicuro il maltolto.

Una cosa, però, la si ottiene subito: questi numeri verranno presi come oro colato da quelli che hanno interesse a descriverci come un popolo di zozzoni delinquenti. Eccolo, il ritratto di un Paese in cui tutti denunciano, tutti s’indignano e tutti sono certi che italiani siano solo gli altri. Gli onesti sono la gran maggioranza, ma non hanno diritto di parola, altrimenti tacciati di volere negare il dilagare del crimine, quindi d’esserne complici. Avessero la forza di contare esigerebbero una riformina, banale e decisiva: giustizia funzionante. In quanto al Fisco, gli onesti sanno che la pressione che subiscono è superiore alla media ufficiale, visto che gli altri continuano a non pagare.

Nuova stangata sulla casa e crolla il prezzo del mattone

Nuova stangata sulla casa e crolla il prezzo del mattone

Tobia De Stefano – Libero

«Non esiste nel modo più categorico che ci sia un aumento delle tasse». Renzi ci prova. Rassicura. E anche nell’ultima intervista nel giorno di Pasqua, in vista del prossimo varo del Def, sparge ottimismo sulla pressione fiscale. Eppure non passa giorno senza che arrivi un dato economico che confuta la tesi del premier. L’ultimo riguarda il bene più amato dagli italiani, il mattone, e sottolinea che pure nel 2014 le tasse sulla casa sono aumentate di un altro 10 e passa per cento.

Secondo le elaborazioni del centro studi liberale «ImpresaLavoro», il peso delle principali imposte di natura patrimoniale (legate cioè alla proprietà o possesso, indipendentemente dal reddito generato) sugli immobili è passato dai 24,6 miliardi del 2013 ai 27,5 dello scorso anno. Analizzando i numeri nel dettaglio si possono notare almeno tre tendenze tuttora in atto. Innanzitutto la relazione inversamente proporzionale tra la pressione fiscale e il valore degli immobili. Più cresce la prima più si riduce il secondo. Nel 2013 il valore complessivo degli immobili di proprietà delle famiglie italiane era pari a circa 5.500 miliardi (in calo rispetto ai 5.900 miliardi del 2011) e per il 2014 si prevede un altro dato negativo: ­3,9% a quota 5.300 miliardi di euro. Quindi la mappatura fiscale.

Negli anni, infatti, la graduale riduzione delle transazioni immobiliari ha comportato un calo del gettito Iva (che dal 2011 al 2014 si è dimezzato) e delle imposte di registro, ipotecarie e catastali. Mentre le nuove imposte hanno aggravato e non di poco la pressione fiscale sulle famiglie italiane proprietarie di un immobile. Qualche esempio? La sostituzione della Tarsu (ultimo anno di applicazione 2012) con la Tares, che nel 2014 è diventata Tari ha comportato un ricarico linale complessivo sui soggetti passivi di circa 2 miliardi all’anno. Oppure la Tasi. La sua introduzione, nel 2014, ha generato un gettito aggiuntivo di 4,6 miliardi. Insomma, visto come sono andate le ultime novità c’è di che preoccuparsi per le prossime.

La «Local tax» per unificare Imu e Tasi e la riforma delle rendite catastali. C’è il rischio concreto di ritrovarci di fronte a un altro salasso. Tanto che l’ufficio studi di «ImpresaLavoro» avverte: «Gli effetti della futura riforma delle rendite, ancora non delineata nelle sue caratteristiche essenziali, dovrebbero essere valutati accuratamente al fine di prevenire conseguenze indesiderate di tipo sperequativo, nonché di un ulteriore possibile incremento sostanziale e generalizzato del gettito connesso».

Terno perso

Terno perso

Davide Giacalone – Libero

La pressione fiscale sarebbe dovuta scendere, sia per promesse fatte che per convenienza, invece è salita. La spesa pubblica sarebbe dovuta diminuire, invece è cresciuta. Il deficit avrebbe dovuto ridursi, invece è aumentato. Sono questi i tre dati che se ne infischiano delle chiacchiere. I tre numeri con cui fare i conti. Anche perché, se si fa finta di niente, sono tre piaghe già infette, ma destinate a peggiorare.

Della pressione fiscale, salita dal 43,4 del 2014 al 43,5 del 2015, hanno parlato in tanti. Con animo mesto. Molti, però, hanno dimenticato due dettagli: a. l’indice misura la pressione totale sulla ricchezza prodotta, ma non tutti pagano tutte le imposte e tasse, il che vuol dire una pressione che supera il 50% in capo al parco dei paganti; b. per far tornare i saldi, fra gettito e spesa pubblica, il governo ha promesso di aumentarle ancora. Di quanto? Presto detto: il differenziale fra gli interessi da pagare (grazie alla Banca centrale europea in netto calo), sul debito pubblico, e la crescita del prodotto interno lordo, che il governo ora stima allo 0,7%, con un tasso d’inflazione che, se va bene, si collocherà all’1% (ma al momento siamo ancora in deflazione, quindi è ottimistico), quel differenziale è di circa 3 punti di pil. E si tratta di un calcolo ottimistico. Fin troppo. Quei 3 punti o sono tagli della spesa o sono coperti da gettito fiscale.

Veniamo alla spesa, dunque. Sono anni che ci rintontoniamo con i tagli. Li abbiamo definiti lineari o mirati, considerandoli macelleria o chirurgia, poi li abbiamo chiamati in inglese (spending review), che fa più fico, infine abbiano nominato cinque successivi commissari, incaricati di programmarli e praticarli. A esito di questa interminabile ammuina, la spesa cresce. Un tempo si dava tutta la colpa agli oneri del debito, che da venti anni bruciano gli avanzi primari. Ma da un paio d’anni quegli oneri diminuiscono, pur restando enormi (figli dell’enorme debito). Allora, dove se ne va tutta questa spesa, crescente? Scorre nei canali della spesa corrente, sommando interessi sul debito, pensioni, stipendi e consumi intermedi della pubblica amministrazione. Del debito si è detto (abbatterlo con le dismissioni di patrimonio pubblico sarebbe saggio, ma qui vediamo solo vendite destinate a coprire la spesa!). Sulle pensioni si è già tagliata la spesa, ma futura, di quelli che ancora non la prendono, mentre su quella presente si attende che Tito Boeri, dall’Inps, presenti qualche idea. Gli stipendi aumenteranno, sia perché aumentano le assunzioni, sia perché anche gli scatti automatici sono fermi da anni. In quanto ai consumi della pubblica amministrazione, non ricordo più da quanti anni sento dire che le stazioni appaltanti dovrebbero diminuire drasticamente, gli acquisti debbano essere centralizzati e così via annunciando. Effetti reali: tanti convegni. E anche tanti numeri dati a caso, perché dietro molti risparmi sbandierati si nasconde uno spostamento delle voci di spesa.

A tutto questo aggiungete che i mitici 80 euro in busta paga altro non sono che una spesa. Il governo se ne lamenta, perché vorrebbe contabilizzarli fra gli sgravi fiscali. Gema pure con comodo, ma le regole della contabilità sono chiare: una roba che non è permanente e che non è oggettiva e generale (un autonomo che guadagna meno di un dipendente non ha visto e non vedrà gli 80 euro), non è uno sgravio, ma un regalo. Il governo ha scelto un preciso pezzo della società e gli ha regalato dei soldi, il che comporta, ogni anno, una copertura pari a 10 miliardi. Sicché non si stabilizzano, non si allargano e la spesa cresce. Così anche il deficit. Che forse è il punto più delicato, sicché qui lo scrivo e che nessuno lo legga: non solo è cresciuto al 3%, segnando un +0,1 rispetto al 2013, ma nel 2014 sarebbe dovuto scendere al 2,6. Quindi, rispetto al programmato, è cresciuto dello 0,4. E che sia veramente al 3% è un articolo di fede cui tutti hanno convenienza a credere, perché l’Unione europea sa bene che avviare una procedura d’infrazione può avere effetti disastrosi, ma cui nessuno crede.

La settimana prossima vedremo i conti del Def (documento di economia e finanza), ma già immagino quel che si dirà: il deficit non cresce. Peccato che dovrebbe quasi dimezzarsi, scendendo all’1,7. Il deficit è la contabilizzazione, in corso d’anno, del maggior debito l’anno successivo. E un Paese con un debito mostruoso dovrebbe farlo scendere, non salire. Sappiamo tutti cosa è stato detto alla Commissione europea: se le cose dovessero andare storte compenseremo, con nuovo gettito fiscale (Iva, in primis). Ebbene: le cose sono storte. È incosciente un governo che prova a negare l’evidenza e continua a far propaganda a tre palle un soldo (naturalmente a debito). È sciocco supporre che si possa risolvere la faccenda dando tutte le colpe al governo (80 euro e assunzioni sì, però). Ma è perso un Paese che supponga di scansare la realtà producendosi nella tarantella delle polemicuzze da cortile.

Tasse record sulla casa – Panorama

Tasse record sulla casa – Panorama

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Gianni Zorzi* – Panorama

Il peso delle tasse sul mattone ha sfondato la quota record di 50 miliardi di euro, di cui 38 a carico delle famiglie. È quanto emerge da un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale il totale delle imposte gravanti a vario titolo sugli immobili in Italia (a carico sia dei soggetti privati sia di professionisti e imprese) è cresciuto rapidamente in questi ultimi quattro anni, passando dai 38 miliardi del 2011 agli oltre 50 del 2014. Sulle sole famiglie, il rincaro complessivo è stato nel periodo di 7,2 miliardi (da 31 a 38,2), con una crescente incidenza delle imposte di tipo patrimoniale (da 16,1 a 27,5).

L’aumento è dovuto in particolare a tre ragioni: l’introduzione anticipata dell’Imu a partire dal 2012 in sostituzione dell’Ici e di una parte dell’Irpef prelevata sugli immobili; la sostituzione della Tarsu con la Tares, divenuta successivamente Tari, con un ricarico finale complessivo pari a circa due miliardi annui; l’introduzione della Tasi (2014), per un gettito complessivo di 4,6 miliardi, destinato a sostituirsi alla mancata riscossione dell’Imu sulle abitazioni principali, sostanzialmente abolita dal 2013. Risulta quindi evidente che con l’introduzione anticipata dell’Imu la composizione stessa del prelievo fiscale sugli immobili si sia notevolmente modificata, con una quota ben più elevata (a partire dal 2012) della componente di tipo patrimoniale, non collegata quindi alla produzione di reddito immobiliare ma esclusivamente dalla proprietà o dal possesso delle abitazioni.

Secondo i rapporti dell’Agenzia delle Entrate, che citano espressamente i dati Ocse,l’Italia sarebbe passata, su un campione di 29 Paesi, dal quindicesimo al nono posto tra il 2011 e il 2012 per livello complessivo di tassazione sugli immobili, con un’incidenza sul Pil cresciuta dall’1,7 al 2,5 per cento. Il panorama descritto dai dati internazionali è comunque molto variegato: si va da uno 0,3 per cento del Pil in Estonia al 4,2 del Regno Unito (sulla base di dati che includono anche il prelievo sulla ricchezza netta e le transazioni finanziarie).

Se si considera la sola componente riferita alla tassa di proprietà sugli immobili (per l’Italia quindi l’Imu), e cioè l’unico elemento di tipo esclusivamente immobiliare e confrontabile in via omogenea con gli altri Paesi, dal 2011 al 2013 l’Italia ha messo a segno un sostanziale raddoppio in termini nominali (più 107,4 per cento), l’aumento nettamente più elevato tra i paesi Ocse: il secondo Paese per incremento della tassa di proprietà sugli immobili tra il 2011 e il 2013 è l’Ungheria, con il più 82,4 per cento in termini nominali. L’Italia ora risulta sesta nel campione europeo per la pressione fiscale sugli immobili in rapporto al Pil dopo Regno Unito, Francia, Islanda, Danimarca e Belgio e prima della Spagna e di altri 19 Paesi tra cui la Germania.

C’è poi una anomalia che riguarda la competenza delle imposte sugli immobili. L’Italia ha scelto negli ultimi anni di introdurre per la prima volta una componente accentrata nella tassa sulla proprietà della casa. La tendenza è inversa a quella di altri Paesi, come la Francia, che hanno operato una forte decentralizzazione del prelievo a favore degli enti locali, e con il dato di 25 su 34 Paesi Ocse che prevedono una (sostanziale) esclusiva pertinenza locale di questo tipo di imposte, supportati da fondate ragioni di efficienza.

L’aumento delle tasse complessive sugli immobili si è accompagnato al calo dei prezzi delle case, producendo quindi un aumento ancor più marcato in termini di incidenza delle imposte sul valore delle proprietà oggetto di tassazione. Il valore complessivo degli immobili di proprietà delle famiglie italiane era pari a circa 5.500 miliardi nel 2013, in calo di oltre il 7 per cento rispetto al picco del 2011, quando si sfioravano i 5.900 miliardi. Ipotizzando che nel 2014 i prezzi siano ulteriormente scesi, il valore complessivo del patrimonio immobiliare delle nostre famiglie si ridurrebbe quindi, secondo la nostra stima, a non più di 5.300 miliardi. Su questa discesa dei valori una parte di responsabilità può attribuirsi senz’altro al fisco. Da un lato, con le dovute cautele può essere stimata in una forbice tra il 5 e il 10 per cento la diminuzione dei prezzi dovuta al livello delle imposte in senso proprio. Dall’altro, l’incertezza e instabilità delle regole stesse, che secondo diversi osservatori potrebbe essere alla base anche di un minore interesse degli investitori istituzionali, specialmente esteri.

Nonostante questo, il sistema risulta ancora oggi destinato a ulteriori modifiche, legate per un verso ad una nuova riforma ipotizzata per le tasse locali, apparentemente non stabilizzatesi nella mente del legislatore, e per l’altro verso alla più volte annunciata riforma delle rendite catastali, destinata a modificare la base imponibile della gran parte delle 11 principali imposte che colpiscono proprietari e possessori di immobili in Italia. Gli effetti della futura riforma delle rendite, ancora non delineata nelle sue caratteristiche essenziali, dovrebbero essere dunque valutati accuratamente al fine di prevenire conseguenze indesiderate di tipo sperequativo, nonché di un ulteriore possibile incremento sostanziale e generalizzato del gettito connesso.

*docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e consulente per l’area Finanza di “ImpresaLavoro”

Da bene rifugio a bene incubo – Massimo Blasoni*

Questa modalità di tassazione è particolarmente odiosa perché non consente alcuna scelta al cittadino: la casa è infatti un bene di cui non è possibile disfarsi in tempi rapidi, che rappresenta un investimento di lungo periodo e la cui tassazione non dovrebbe quindi essere soggetta a cambiamenti così radicali in tempi così stretti. Con questa politica il bene rifugio per eccellenza degli italiani è stato via via trasformato in un bene incubo. A tal punto che oggi, per chi ha un reddito fisso, è diventata una vera iattura ricevere in eredità un appartamento che non si riesce né a vendere né ad affittare: non ti resta che pagarci sopra le tasse, ed essere trattato dal fisco come un benestante.

* presidente del centro studi ImpresaLavoro