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Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Così Palazzo Chigi prepara la rottamazione di Telecom

Davide Giacalone – Libero

Il passo in avanti è notevole: alla merchant bank di Palazzo Chigi ora si parla l’inglese. Il decisionismo ha anche prodotto un’innovazione: non ci si limita ad appoggiare le scalate a opera di sconosciuti che operano dall’estero (come all’epoca dei “capitani coraggiosi”); non ci si produce in piani da suggerire e imporre ai diretti interessati (come all’epoca del “piano Rovati”); ora si pensa di procedere direttamente per decreto legge, seppure in presenza di una smentita del sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Antonello Giacomelli. Inglese più gazzetta uflfciale. ll bello è che il tema è sempre lo stesso: Telecom ltalia. Prima da spolpare, trasferendo all’estero e ai privati la ricchezza degli italiani. Poi da indirizzare e sottrarre alla gestione dei proprietari, portando Marco Tronchetti Provera alle dimissioni. Ora da condurre al fallimento (in gran parte meritato), mediante rottamazione del solo asset che fa da garanzia all’enorme debito, la rete.

Spero non sfugga la curiosa coincidenza: assieme al trapelare di tale operazione apprendiamo che è pronto il fondo “salva imprese” (dei cui difetti e pericoli abbiamo già scritto), finanziato con soldi pubblici, che più nega di volere essere una nuova Gepi e più ce ne sfuggono le differenze, e che dovrebbe occuparsi, tra le prime cose, della crisi Sirti. Ovvero della società, un tempo Iri, che lavora(va) alle reti di telecomunicazione. Tutti i salmi finiscono in gloria e tutti i (falsi) trionfi di mercato finiscono con ristatalizzazioni. Significativo, inoltre, che dopo avere provato a sposare Telecom ltalia e Metroweb, la cui proprietà è riconducibile allo Stato, e dopo avere ricevuto un rifiuto, si supponga di operare con un decreto per rottamare la rete del mancato marito, rivalutando quella della sposa non impalmata.

Veniamo alla sostanza: avrebbe ragione il governo ad intervenire per promuovere il rimodernamento delle reti di telecomunicazione? Sì. Quell’arretratezza è una palla al piede dell’Italia. Tale intervento può e deve essere articolato su due fronti. Il primo consiste nel rimodernare la pubblica amministrazione e moltiplicarne l’offerta digitale. Più cose il cittadino può fare on line, più c’è domanda di reti digitali, più è conveniente investire nel renderle capienti e capillari. Il secondo fronte consiste nel rendere più convenienti gli investimenti, mediante defiscalizzazioni, e meno estenuanti le pratiche burocratiche. C’è una terza cosa che lo stato deve fare: produrre norme chiare (in gran parte d’importazione europea) e far rispettare le regole.

Facesse queste cose, sarebbe da benedire. Non servono decreti legge, però. Se si pensa a quello strumento è perché si ha in mente un altro mestiere: stabilire come devono essere falte le reti, quali i programmi d’investimento, quale la redditività accettabile. Che è ilmestiere delle imprese e del mercato. Scegliere fra fibra ottica e reti in radiofrequenza (o, meglio, sulla proporzione del mix) è il mestiere del mercato. Tanto che un privato s’è fatto avanti chiedendo di acquistare una società statale d’impianti televisivi, ricca di punti d’illuminazione. Si può ben dire di no, ma aggiungendo in quale altro modo mettere quella ricchezza al servizio della digitalizzazione delle reti. Se si risponde: no, perché abbiamo in mente un’altra rete, si va alla statalizzazione. Il trionfo dei mercati senza mercato. Non mi stupisce che a questo antico mito italico si ritorni mediante anglofoni che usano il potere politico. Avverto solo che questo film lo abbiamo già visto. La prima versione era neorealismo ricostruttivo. La seconda temo sia un remake con sottotitoli. Per non capenti.

Reti e scalate

Reti e scalate

Davide Giacalone – Libero

La storia di Telecom Italia può essere raccontata come metafora del disfacimento industriale e della degradazione italiana. Una storia che comincia durante il fascismo, con il primo grande errore dei miopi capitalisti nostrani, i quali comprarono volentieri la gestione del traffico locale, ma non vollero quello di lunga distanza, considerato poco profittevole. Fu poi quello più ricco. Proseguì con passaggi eroici e commoventi, come i cavi transatlantici posati a cura di una società, Italcable, finanziata con i risparmi dei nostri emigranti. Venne poi il capitolo della ricostruzione e dell’ammodernamento, con un salto tecnologico epocale, a cura di società facenti capo all’Iri, quindi allo Stato. Amministrate dai così detti “boiardi”, accusati di gestioni anche clientelari, ma che lasciarono società forti, evolute e ricche. Quindi si passò alla distruzione, con la peggiore privatizzazione immaginabile. Ai corsari che scaricarono sui gioielli le scorie organiche dei loro debiti, capaci d’impiombare i conti della società. Quindi l’intervento delle banche e l’ingresso del socio spagnolo. Ora gli spagnoli si sono rotti l’anima e le banche sono in fuga, mentre si annuncia l’ipotesi di una nuova scalata, dall’estero. A parte conoscere la storia e comprenderne le miserie, qual è, oggi, l’interesse collettivo? Come si può farlo valere?

L’interesse dell’Italia, oramai, non è quello di discutere la nazionalità degli azionisti. Purtroppo, finita l’era dell’Iri, sia detto con molteplice dolore, gli italiani si sono dimostrati i peggiori. Almeno fin qui. Il nostro interesse è che le telecomunicazioni siano sviluppate e tecnologicamente aggiornate, senza che altri soldi dei contribuenti (e dei clienti) siano trasferiti nelle tasche degli avventurieri e dei predatori. Sulla rete esiste ancora un diritto pubblico, incarnato nella goldenshare, nascente non solo dalla rilevanza nazionale di quell’infrastruttura, ma anche da fatto di essere stata realizzata con soldi pubblici. Quel diritto va esercitato non per decidere chi deve essere l’azionista, ma per costringere la società a non indebolire l’Italia fornendo un servizio al di sotto degli standard europei. Va esercitato non per limitare la concorrenza, ma per renderla più libera e forte. Poteva andare diversamente, ma oramai è andata.

Le scalate possono destare l’interesse di un pubblico che le segue come fossero avventure di cavalieri erranti, o di chi, legittimamente, spera di trarne un profitto in Borsa. A noi interessa altro: che chi controlla e amministra la società lo faccia sì per trarne profitto, ma da perseguirsi non succhiando ricchezza dagli abbonati, ma investendola per offrire loro servizi al passo con i tempi. E non ci siamo. Lo Stato non deve tornare a fare l’azionista. Non per ragioni ideologiche, ma perché il mondo è cambiato. Lo Stato deve cominciare a fare bene il suo mestiere: dettare le regole e farle rispettare. Facendosi rispettare nella sede in cui gran parte delle regole sono dettate: l’Unione europea. Il che significa evitare di credere che per assicurarsi un futuro si debba tornare al passato, con i soldi della Cassa depositi e prestiti, che sono soldi degli italiani, usati per ricomprare quel che è stato fatto con i soldi degli italiani, ovvero la rete. Tanto più che nella sua società delle reti la Cdp ha preso non soci finanziari, ma soci industriali che sono potenziali concorrenti delle reti italiane. Né serve a nulla dire che la governance rimane in mani italiane, o ci rimane la maggioranza delle azioni, perché nel mercato contano i soldi e la capacità di farli fruttare, il che scatena forze non certo arginabili con qualche nominato cui è già stata data abbastanza ricchezza perché possa andarsene a goderne i frutti.

Dal male può venire il bene, se non ci si ostina a far confusione fra i due. Meglio un mercato libero di crescere e uno Stato libero di controllarlo e sanzionarlo, piuttosto che la melassosa commistione di un mercato impastoiato con la politica e uno Stato prigioniero degli interessi che dovrebbe sovrastare. Anziché fare dichiarazioni spiritose o giocare al piccolo ministro, il personale di governo farebbe bene a dedicarsi alla sola cosa utile che può essere fatta: chiarire a tutti i tempi e le modalità in cui ciascuno deve investire nelle reti e nei servizi, in modo da rendere reale l’evoluzione digitale del nostro mercato, avvertendo che chi non rispetterà gli impegni pagherà pegno.