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Pil italiano ancora pecora nera Ue, è l’unico rimasto in crisi

Pil italiano ancora pecora nera Ue, è l’unico rimasto in crisi

di Tommaso Montesano – Libero del 17 gennaio 2016

E quattordici. Per il 14esimo anno consecutivo, il Pil italiano è cresciuto a un ritmo inferiore rispetto alla media dei Paesi Ue. Una differenza che è oscillata, certifica una ricerca realizzata per Libero dal centro studi ImpresaLavoro su dati Ocse, tra un minimo dello 0,4% nel 2010 e un massimo del 2,3% nel 2012. Nel 2015 lo scarto è stato di un punto percentuale.

Conclusione: con questi ritmi di crescita, la strada per far tornare l’Italia ai livelli pre-crisi «sembra ancora molto lunga». Del resto, ricorda ImpresaLavoro, tra le democrazie occidentali più avanzate «solo Italia e Spagna sono ancora al di sotto dei livelli precedenti al terremoto finanziario». Francia e Germania, invece, sono emerse dalle secche fin dal primo trimestre del 2011. Nel penultimo trimestre dello stesso anno è arrivata anche la ripresa degli Stati Uniti. Il Regno Unito, invece, ha dovuto attendere fino al secondo trimestre del 2013, ma alla fine ce l’ha fatta a riemergere.

ImpresaLavoro fa suonare il campanello d’allarme anche in relazione alle aspettative italiane. La Spagna, infatti, che pure condivide con l’Italia il segno negativo, cammina più velocemente sulla strada della ripresa. Nell’ultimo trimestre del 2015, infatti, il Pil di Madrid ha raggiunto il 95,8% di quello pre-crisi. In Italia, invece, nello stesso periodo siamo ancora fermi al 91,8%.

«L’Italia ha un problema strutturale di crescita e le variazioni leggermente positive di quest’anno, se confrontate con il resto d’Europa, confermano purtroppo le nostre difficoltà», afferma Massimo Blasoni, imprenditore e presidente di ImpresaLavoro. Anche perché a un quadro così complesso, sostiene Blasoni, «vanno aggiunti un deficit e un debito che continuano a non scendere e che rappresentano una seria ipoteca sulla tenuta dei nostri conti in futuro. Sono i numeri i primi a certificare che non stiamo uscendo dalla crisi». Per intercettare la ripresa, infatti, «servirebbero tassi di crescita simili a quelli di Regno Unito e Spagna, superiori rispettivamente al 2 e al 3%».

Con una crescita annua dello 0,8% – quella del 2015 – l’Italia dovrà aspettare fino al 2026 per tornare ai livelli del 2008. Crescendo a ritmi compresi tra l’1,3 e l’1,6%, come prevede lo scenario tratteggiato dal governo italiano, la nostra economia tornerà alla situazione pre-crisi tra il 2021 e il 2022.

La ricerca evidenzia anche come siano le riforme il motore della crescita. La Germania ne è l’esempio. Fino al 2006, il Pil italiano è cresciuto ad un ritmo più sostenuto di quello tedesco. Poi, sull’onda delle riforme approvate dal governo di grande coalizione, Berlino ha messo la freccia. «Dal 2006 ad oggi l’andamento del Pil tedesco è stato nettamente superiore a quello del nostro Paese, con la sola eccezione del 2009». Di più: negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia ha perso in media quattro punti decimali di Pil all’anno, la Germania ha fatto registrare un più 1,4%.

Conferma Ocse: Italia sempre più giù

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Tommaso Montesano – Libero

Peggio dell’Italia, che può vantare il poco lusinghiero sorpasso sull’Irlanda, hanno fatto solo Grecia, Spagna, Portogallo e Slovacchia. Un tasso che è destinato a salire al 12,9% nel quarto trimestre del 2014 per poi scendere al 12,2% nel quarto trimestre del 2015. In sei anni, inoltre, i giovani senza lavoro sono raddoppiati: dal 20,3% del 2007, sono passati al 40% del 2013. E ancora: l’Italia è il quarto paese dell’area Ocse per diffusione di false partite Iva, ovvero lavoratori che sulla carta sono liberi professionisti, ma che di fatto offrono prestazioni subordinate. Per non parlare dei guasti provocati dalla riforma del lavoro targata Elsa Fornero durante il governo di Mario Monti, che ha reso «decisamente meno conveniente» per le aziende assumere lavoratori con contratti di collaborazione. Più in generale, oltre il 70% dei lavoratori vive una «sfasatura» tra l’occupazione attuale e il percorso formativo. Nel senso che le qualifiche o sono troppo elevate, o sono troppo basse per il lavoro svolto.

È impietoso per l’Italia il quadro che emerge dal rapporto «Employment Outlook 2014» dell’Ocse. I numeri dei vari indici relegano l’Italia al 49esimo posto dell’indice di competitività, il Global competitiveness index. Il nostro Paese è preceduto, nella graduatoria guidata dalla Svizzera, perfino da Lettonia, Lituania, Azerbaijan ed Estonia. In Italia, nel confronto con gli altri Paesi avanzati, «non è solo elevata la quota di disoccupati, ma anche quella di occupati con un lavoro di scarsa qualità», sostiene l’Ocse.

Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, prova a difendersi: «Conosco bene la drammatica situazione dell’occupazione nel nostro Paese, figlia di una crisi che ci sta colpendo da oltre 7 anni e aggravata dalle attuali tensioni del contesto europeo e internazionale e da cattive politiche del passato». Maurizio Sacconi, capogruppo del Nuovo centrodestra al Senato ed ex ministro del Lavoro, incalza: «Ormai è evidente a tutti che le istituzioni sovranazionali, dall’Ocse al Fondo monetario, dalla Commissione europea alla Bce, considerano la riforma del mercato del lavoro come il passaggio più emblematico dalla vecchia alla nuova dimensione della vita istituzionale, economica e sociale italiana». La Lega, invece, affonda il coltello sul governo. «Altro che cambia verso, il Pd ha messo il Paese nel verso del baratro», attacca il capogruppo alla Camera, Massimiliano Fedriga.