Il mandato di Donald Trump

di Pietro Masci

Dopo oltre 15 giorni dal voto storico dell’8 novembre, le analisi del voto continuano e si accentuano previsioni e speculazioni sulla nuova amministrazione, anche in relazione alle prime scelte che Donald Trump sta effettuando. L’analisi del voto rimane centrale per capire cosa è accaduto e per orientarsi sulla futura evoluzione politica negli Stati Uniti e del Partito Democratico e di quello Repubblicano e per comprendere le sfide – ma anche le opportunità – alle quali la nuova amministrazione dovrà far fronte e in che misura il Presidente eletto ha un mandato per realizzare il suo programma.

L’insofferenza vince le elezioni

Nell’articolo scritto a ridosso dell’elezione avevo sottolineato che l’esito dell’elezione sarebbe dipeso da tre categorie di elettori: coloro che voteranno Trump senza dirlo; coloro che voteranno per Hillary Clinton controvoglia nel timore di un salto nel vuoto; coloro che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti. Tutte e tre queste tre categorie hanno contributo in modo diverso all’elezione di Trump.

Quanto alla prima categoria, durante la trasmissione maratona di CNN nella notte dell’8 novembre, mentre si osservavano i sorprendenti risultati, un commentatore, Jack Tapper, racconta che durante una sua recente visita in Pennsylvania ha intervistato un pasticciere (di origine italiana). Il pasticciere dice al commentatore: “I see a lot of leaners over here!”  Il commentatore replica stupito: “Leaners? who are the “leaners“? Il pasticciere spiega: “Leaners are those who lean towards you and whisper in your ear so other people cannot hear: I think I am going to vote for Trump this time!”. I “leaners” costituiscono la categoria che potremmo definire dei pendenti o degli esitanti. Infatti, Trump ha battuto Clinton tra i bianchi senza un titolo universitario – la c.d. white working class – di 18 punti percentuali nel New Hampshire, 21 in Colorado, 22 in Arizona, 24 in Wisconsin, 31 in Michigan, e 35 in Missouri. Il margine diventa enorme negli Stati del Sud: 34 punti percentuali in Florida, 40 in North Carolina, 64 in Georgia.

La seconda categoria – coloro che hanno sostenuto Clinton per paura del salto nel vuoto con Trump – non sembra che si sia materializzata. Addirittura, Clinton è andata male con gruppi storicamente favorevoli ai democratici: gli afro-americani non hanno sostenuto Clinton nello stesso numero che avevano appoggiato Obama nel 2008 e nel 2012; i Latinos, che rappresentano circa l’11% dell’elettorato, l’8 novembre, hanno votato per Clinton meno del previsto. Secondo gli exit polls, il Presidente eletto Trump ha ottenuto il 29 per cento dei voti dei Latinos, un dato migliore del 27% ottenuto da Mitt Romney nel 2012. Clinton ha ottenuto solo il 65% dei voti dei Latinos, meno del 71% che il Presidente Barack Obama aveva conseguito quattro anni fa. Inoltre, Clinton non è riuscita ad attrarre i giovani tra 18 e 29 anni : nel 2012 Obama aveva ottenuto il 60% del voto dei Millenials; Clinton ha ottenuto il 55% e Trump il 37%.

Relativamente alla terza categoria, coloro cioè che non hanno votato per disaffezione con il sistema politico, ha votato il 57% circa degli aventi diritto al voto. Un dato in calo rispetto al 58,6% nel 2012 e al 61,6% nel 2008 (il dato più alto degli ultimi 40 anni). Il voto anticipato è cresciuto mentre è crollato quello nel giorno dell’elezione. La partecipazione al voto si è ulteriormente ridotta come reazione a una campagna politica priva di contenuti e negativa. Peraltro, il 4% complessivo dei voti ricevuti dai candidati del Partito Libertario (Gary Johnson) e del Partito Verde (Jill Stein) si può considerare un’ulteriore prova della disaffezione verso i candidati presidenziali principali.

Si può quindi concludere che il risultato finale del voto è stato determinato in una maniera significativa dai pendenti o esitanti, dal basso numero di coloro che hanno votato per Clinton solo per paura di Trump e da coloro che non hanno votato perché indifferenti o insoddisfatti. A decidere l’elezione di Trump sono stati quindi l’insofferenza e la delusione. 

La gestione della campagna

Alcuni eventi significativi possono aver in qualche modo influenzato l’opinione pubblica. Ad esempio le interferenze del FBI che ha archiviato, poi riaperto e infine archiviato di nuovo l’inchiesta sull’utilizzo improprio della posta elettronica della Clinton. Il fattore rilevante che ha favorito la vittoria di Trump resta però la gestione della campagna elettorale. Clinton disponeva di maggiori risorse finanziarie e di un Partito Democratico completamente a sua disposizione ma Trump ha gestito in modo molto più efficace la contesa, sia pure con minori risorse e con un Partito Repubblicano dubbioso sulla sua candidatura. Clinton e la sua macchina elettorale hanno avuto l’arroganza di pretendere che gli Stati che si sono rivelati fondamentali avrebbero comunque votato democratico. Non è stato compreso che non era sufficiente spendere milioni di dollari nella pubblicità televisiva, oppure contare sull’appoggio di varie celebrità della musica e dello spettacolo (ad esempio Beyoncé, Jay Z, Madonna, Jennifer Lopez) e neppure sul sostegno esplicito del Presidente Barack Obama. Erano invece fondamentali la presenza fisica, il contatto con gente che si è sentita abbandonata. Mentre coloro che avrebbero dovuto ottenere l’attenzione diretta di Clinton vedevano la ex-first lady in televisione (magari vicina a qualche celebrità), i sostenitori di Trump affollavano i roboanti, appassionati raduni del candidato repubblicano. 

Alla Clinton sono venuti meno gli Stati della c.d. Rust Belt – la Cintura della Ruggine – anche perché l’organizzazione della sua campagna li ha considerati scontati, e invece nel giorno dell’elezione i sostenitori “garantiti” sono rimasti a casa. Gli esempi più rilevanti si possono verificare in tre Stati (Wisconsin, Michigan e Pennsylvania) tradizionalmente democratici che hanno determinato la vittoria di Trump. Si può infatti affermare che queste  elezioni presidenziali sono state decise da circa 100mila persone su oltre 120 milioni di voti espressi. Secondo gli ultimi conteggi, Trump ha vinto Wisconsin di 0,9 punti percentuali (27.257 voti), Michigan di 0,2 punti (11.837 voti) e Pennsylvania di 1,1 punti (68.236 voti). Se Clinton avesse vinto tutti e tre gli Stati, avrebbe ottenuto 278 collegi elettorali (contro i 260 di Trump) e sarebbe diventata Presidente degli Stati Uniti. In Wisconsin, Clinton è andata una sola volta durante l’elezione e ha perso lo Stato per circa 27.000 voti, consegnandolo ai Repubblicani (non accadeva dal 1984). Clinton ha trascurato anche il Michigan mentre Trump vi ha concentrato gli sforzi nella settimana finale, inclusa la sua presenza nel giorno dell’elezione.  In Pennsylvania, la storia è diversa. Clinton vi ha dedicato più tempo e risorse (mobilitando un esercito di volontari) ma Trump ha fatto meglio, riuscendo a mobilitare gli elettori della classe operaia e rurale e delle piccole città.

In sostanza, la campagna di Clinton non è stata sbagliata ed è stata probabilmente l’unica che si poteva condurre. Indubbiamente, il Partito Democratico conosceva i limiti di Clinton, un candidato che raccoglie molte antipatie, e le difficoltà che avrebbe avuto a vincere le elezioni. Ma né il partito né il Presidente Obama hanno avuto il coraggio di sfidare Clinton che peraltro controllava l’apparato del partito e non ha permesso ad un outsider come Bernie Sanders di emergere.  Trump ha insomma prevalso per i suoi meriti (in condizioni estremamente difficili, osteggiato dal suo stesso partito e dalla stragrande maggioranza dei media) ma anche per la debolezza della sua avversaria.

Le ragioni politiche del voto

Clinton e Trump sono stati i più sgraditi candidati presidenziali nella storia americana. Quali sono le ragioni politiche per le quali un candidato inaffidabile – Trump – con tanti aspetti discutibili ha vinto? L’ immediata risposta è che l’avversario era ugualmente se non più discutibile. Come detto, Clinton è profondamente mal vista da una quota elevata dell’elettorato americano. Quando ha avuto responsabilità nel Congresso e come Segretario di Stato, ha commesso errori colossali (voto a favore della guerra in Iraq, intervento in Libia, gestione della crisi in Siria, tensione dei rapporti con la Russia, gestione della posta elettronica con un server nello scantinato di casa durante il periodo come Segretario di Stato, rapporti con la Fondazione Clinton). Tutte queste circostanze hanno portato molti americani a considerarla inaccettabile. 

Trump, il candidato inaffidabile, ha invece avuto la capacità di ascoltare e dare voce alle frustrazioni di una gran parte di americani – sopratutto la classe lavoratrice bianca- che sono stati dimenticati; ha compreso la rabbia di coloro che si sentono minacciati – a ragione o meno – dall’immigrazione, dalla delocalizzazione, dal terrorismo, dalla tecnologia. Si è presentato come il candidato contro il sistema, colui che si è schierato contro il Partito Democratico, contro i media (sopratutto quelli televisivi) e lo stesso Partito Repubblicano, colui che può riformare un sistema “truccato” che opera contro gli interessi del cittadino. 

Trump è visto come l’outsider, il non-politico che suscita passione ed entusiasmo oltre a dubbi e timori. Clinton ha avuto difficoltà a trasmettere la sua solidarietà e sostegno per i lavoratori, quando contemporaneamente riceve ingenti contributi dalle istituzioni finanziarie che hanno avuto grosse responsabilità nella crisi economica e che hanno determinato tante perdite di posti di lavoro.

D’altra parte, gran parte del dibattito tra i due candidati si è incentrato sul carattere di entrambi e non sulla sostanza delle loro proposte. Gli attacchi di Clinton su Trump non idoneo per la Presidenza erano in gran parte visti come il riconoscimento che Clinton si preoccupava del carattere del suo avversario, ma non della situazione economica e sociale che molti americani soffrono. Dal canto suo Trump colpiva duro e aveva un impatto quando diceva che Clinton non ha fatto nulla nei 30 anni della sua vita politica, mentre lui ha creato milioni posti di lavoro. In tale contesto, Clinton non è riuscita a valorizzare la circostanza che avrebbe potuto essere la prima donna Presidente degli Stati Uniti. Non è stata capace di controllare il voto femminile: pur ottenendo la maggioranza del voto femminile (54% secondo gli exit polls) ha perduto il sostegno del voto femminile non di colore, che si è rivolto per il 53% a favore di Trump.

La coalizione che ha portato Trump alla vittoria non va considerata – come Sanders ha sottolineato – come una coalizione di razzisti e di “deplorables” (deprecabili), anche se tali personaggi non mancano nel panorama che lo sostiene. Il tema unificante è l’insoddisfazione con la classe dirigente e con un sistema che non riconosce i bisogni della gente. Un rigetto del conformismo delle élites che pretendono di dettare agli altri i comportamenti da tenere; degli esperti che perdono indipendenza e si appiattiscono al potere; dei media che hanno speso il tempo discutendo di offese e insulti tra i due candidati, di scandali, slogan, gossip e non dei problemi che riguardano la gente comune e delle rilevanti politiche che i candidati propongono. La vittoria di Trump va quindi interpretata come un voto per il cambio, analogo a quello del 2008 per Obama. Gli elettori – soprattutto quelli che sono alla base della piramide – erano stanchi di vuote promesse e non erano disposti a concedere un terzo mandato – comunque storicamente raro – ad un democratico.

La divisione dell’America

Per verificare visivamente la divisione del Paese basta andare fuori dalle grandi città, osservare le manifestazioni soprattutto studentesche, parlare con la gente e addirittura ascoltare l’appello durante lo show musicale Hamilton, a New York. La tensione, i timori, le paure sono palpabili. La ragione profonda della divisione – a mio avviso – è che il paese del multiculturalismo e delle opportunità per tutti ha creato nel tempo interessi prestabiliti, rendite di posizioni che ora riducono l’uguaglianza delle opportunità.

La circostanza che, a livello nazionale, Clinton ha ottenuto circa due milioni di voti più di Trump (il risultato tuttavia non è ancora definitivo) evidenzia quanto l’elezione presidenziale del 2016 abbia diviso il Paese. Va precisato che l’elezione del Presidente negli Stati Uniti si decide Stato per Stato e non a livello nazionale. Tale circostanza – talvolta dibattuta – è accettata come la soluzione che non penalizza i piccoli Stati. Peraltro, i casi di Presidenti che non hanno vinto il voto popolare a livello nazionale, oltre ai collegi elettorali statali, sono rari (l’esempio più significativo è quello di Al Gore che nel 2000 vinse il voto popolare, ma perse quello elettorale e Bush diventò il 43esimo Presidente degli Stati Uniti). Tuttavia, la mancata vittoria a livello nazionale ha implicazioni sulla legittimità del “mandato” del Presidente di realizzare il programma che ha presentato durante la compagna elettorale.

D’alta parte, Trump ha trascinato il Partito Repubblicano a vincere le elezioni al Senato e alla Camera sicché questo ora controlla la Presidenza e il potere legislativo e potrà introdurre cambi anche radicali (ad esempio nel settore della salute). Inoltre, esiste la chiara opportunità di influenzare in senso conservatore le scelte dei giudici della Corte Suprema. Il Presidente dovrà scegliere un candidato per rimpiazzare Antonin Scalia ed è prevedibile che, data l’età di almeno tre giudici attualmente in carica, nei prossimi 4 anni potrà effettuare altre nomine di giudici alla Corte Suprema che ulteriormente orienterebbero la Corte in senso conservatore. Infine, a livello statale, il Partito Repubblicano ha Governatori in 33 Stati (su 50), il livello più elevato dal 1992 e controlla Camera e Senato in 32 Stati. In tale situazione, la c.d. “tirannia della maggioranza”, che i padri fondatori della Costituzione americana hanno sempre considerata come il peggiore dei mali, è una distinta possibilità che si può verificare ed esacerbare ulteriormente le divisioni. È vero – e democratico – che l’esito delle elezioni ha conseguenze. Tuttavia, varie delle proposte elettorali di Trump sono contradittorie e radicali e se adottate alla lettera rischiano di accentuare la divisione e la polarizzazione dell’America e l’intolleranza.

Il mandato

Il Presidente Trump ha la legittimità e l’autorità necessarie per realizzare il programma che ha presentato durante la campagna elettorale? Potrà adottare i cambi presentati durante la campagna elettorale tra i quali quello di “drain the swamp” (prosciugare la palude), ossia eliminare rapporti e interessi precostituititi – spesso esemplificati dai lobbisti – che assediano le istituzioni e influenzano, determinano e corrompono le decisioni del governo? Si tratta di un tema complesso che qui non può essere certamente esaurito.

Trump non ha un compito semplice e dovrà giostrarsi tra le promesse elettorali e la possibilità di dividere ulteriormente il Paese. Dovrà dimostrare concretamente di occuparsi di tutti gli americani e lavorare con il Congresso (Senato e Camera), con i rappresentanti direttamente eletti dai cittadini e destinati a garantire controlli ed equilibri del sistema democratico, dando all’opposizione l’opportunità di esprimere punti di vista e interessi e pervenire a soluzioni che spesso sono compromessi, come normalmente accade in democrazia. Trump dovrà navigare tra i pesi e contrappesi del sistema americano – che saranno messi alla prova – cercando di rispettare le più importanti promesse elettorali senza cercare di governare in modo autocratico.

Su due obiettivi è probabile che gran parte degli americani sia d’accordo: rinvigorire la crescita economica in modo tale da creare posti di lavoro ed opportunità; ristabilire principi, valori e regole alla base dell’esperimento americano. In tale ottica, il Presidente non potrà operare come il “padrone” di una compagnia privata nemmeno quotata in Borsa, anche se la tentazione esiste. L’eliminazione dei conflitti d’interesse tra Trump Presidente e Trump uomo d’affari è fondamentale anche se – a termine di legge – le cautele da intraprendere per evitare conflitti d’interessi si applicano a tutti coloro che ricoprono cariche pubbliche ma non al Presidente degli Stati Uniti che è considerato al di fuori di conflitti d’interessi. Come pure è vitale che Trump operi in modo trasparente spiegando le scelte politiche e di personale, evitando soluzioni di sorpresa ed immotivate come è nello spirito dell’uomo di affari. 

Il compito principale del nuovo Presidente nel realizzare in modo coerente e con una visione di lungo periodo le contraddittorie proposte elettorali è quello di compattare il Paese e riportarlo ai valori originari e pertanto prosciugare la palude e ricreare le condizioni per la crescita economica e sociale e la concreta realizzazione del sogno americano. Questo è il vero mandato che dovrà conquistarsi giorno per giorno. In tal senso, Trump ha una grande opportunità e sarà interessante osservare in che modo intende afferrarla. È presumibile che i primi chiarimenti verranno quando il nuovo Presidente avrà completato la sua squadra di governo e sceglierà le politiche ed iniziative che intende avviare. Tuttavia, le iniziative e decisioni di Trump dovranno essere considerate non pregiudizialmente da rigettare, ma andranno valutate alla luce dei valori, principi e regole del sistema americano. Solo facendo tangibilmente riferimento ai principi ispiratori si potrà essere più ottimisti in relazione all’unità del Paese e si potrà assicurare che lo spettacolo delle elezioni presidenziali del 2016 sarà irripetibile.