La concorrenza ‘temperata’ fa bene al gioco del calcio

Questo sito e il Centro studi di cui è parte integrante hanno il liberalismo nel proprio Dna. Vi ricordate quando negli Anni Ottanta e Novanta la sfrenata concorrenza per accaparrarsi i calciatori più famosi portarono le loro quotazioni a cifre stratosferiche? Allora il libro di Rocco Francesco Scandizzo “L’economia del calcio come sport spettacolo e il mercato internazionale delle star” (che ha vinto un paio di premi e avuto una buona circolazione nel settore), indicò chiaramente che di questo passo le aziende calcistiche si sarebbero rotte il collo.

Più o meno nello stesso periodo (prima parte degli Anni Novanta), uno studio di due Università britanniche – quella di Exeter e quella di Manchester – analizzò sotto il profilo e giuridico e economico-finanziario le normative e i codici di corporate governance emessi in 20 dei 25 Stati dell’Unione Europea. Questo lavoro documentava come nonostante le differenze di partenza in Paesi con tradizioni giuridiche molto differenti (da quelle romano-germaniche al common law britannico), si stesse convergendo verso un grado di corporate governance (e regole ad esso attinenti) di stampo anglosassone imperniato su verifiche contabili indipendenti. Un processo che era in atto nonostante le normative sulle funzioni, sul ruolo, sul carattere vincolante o meno dei pareri dei revisori dei conti variasse in linea con i contesti dei singoli Paesi.

Il dato veniva ribadito in un lavoro di Stefan Szymanski della Business School dell’Imperial College di Londra, apparso “Journal of Economic Literature”, che passava in rassegna oltre 250 studi recenti sull’allestimento economico delle gare sportive. Partiva dall’assunto che «l’economia delle gare sportive ha molto in comune con la teoria economica delle aste» e differenziava marcatamente tra sport “individualistici” (in cui la tifoseria è collegata al campione) e sport “di squadra” (in cui il tifo ha invece un rapporto forte con la squadra del cuore). Per il calcio sviscerava le differenze di regolazione (e di prassi) tra gli Usa ed i maggiori Paesi europei, analizzava gli eccessi conseguenti la sentenza Bosman e i rimedi tentati (quali i tetti agli ingaggi e l’ottimizzazione del numero delle squadre nei vari campionati) e non entrava nei “fattacci” contabili e penali. Lo studio chiudeva con una nota ottimistica: «La relazione tra gli sport di squadra e la teoria dei contesti è ben sviluppata, nonostante ci sia ancora molto da fare per una comprensione economica degli aspetti istituzionali; il lavoro di analisi economica è, però, ben avviato per riformare il gioco del calcio a livello dei 25 Stati».

Queste analisi e gli interventi anche della magistratura hanno portato alla convenzione UEFA del 2009 in cui si regolamentavano gli ingaggi ponendo un tetto ai compensi. A un lustro dalle convenzione un gruppo di economisti, prevalentemente della Università Bocconi (Ariela Caglio, Angelo D’Andrea, Donato Masciandaro e Gianmarco Ottaviano) ne compiono una valutazione ex post nel lavoro “Does Fair Play Matter? UEFA regulation and Financial Sustainability in the European Football industry” nei BAFFI CAREFIN Centre Research Paper No. 2016-38. La conclusione è che i Financial Fair Play Regulations (FFPR) dell’UEFA sono stati criticati principalmente sotto il profilo teorico di limite alla concorrenza. Lo studio analizza l’evidenza empirica sulla base di dati che coprono 156 club calcistici nelle serie A di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna nei campionati 2006-2015 e analizza il comportamento dei club prima e dopo il 2009. I dati mostrano che prima della convenzione c’era una forte tendenza all’indebitamento ad alto rischio, mentre successivamente tale tendenza è fortemente diminuita e la governance migliorata. L’indicazione che ci arriva da questa analisi è chiara: mentre la mano “impicciona e pasticciona” (definizione di Giuliano Amato) è nociva, l’autoregolamentazione può fare bene.