vittorio feltri

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Un diktat che merita solo un bel vaffa

Vittorio Feltri – Il Giornale

La lettera minatoria che il presidente della Commissione europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra.

Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo. Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti…

Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 Paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.

Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro Paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.

Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel Paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto?

Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti. Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’Economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola.

P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.

Il mattone sbriciolato

Il mattone sbriciolato

Vittorio Feltri – Il Giornale

Di questi tempi il mestiere più facile è quello del profeta. Basta dire che va tutto in malora e ci azzecchi sempre, impossibile sbagliare. Lo dimostrano i dati emessi pressoché quotidianamente dalle fonti ufficiali. Gli ultimi – drammatici – giungono dalla Banca d’Italia e sono relativi al crollo dell’edilizia. Il giro d’affari nel settore è diminuito del 30 per cento dal 2008 – inizio della crisi – al 2014, e continua a calare a ritmo sostenuto. Significa che il mattone (anche quale bene rifugio) è stato sbriciolato, causa una politica fiscale dissennata, cui nessuno finora ha cercato di porre rimedio.

Le tasse sulla casa si pagano in ogni Paese (non soltanto) europeo, ce lo ricordano i tassatori in qualsiasi circostanza. Ma nel nostro si cominciano a pagare ancora prima di acquistarla e divenirne realmente in possesso. Mi riferisco all’imposta di registro, che varia dal 4 al 10 per cento del valore dell’immobile, inesistente in altre nazioni. Se si tratta di prima abitazione l’acquirente se la cava con l’aliquota minima; se si tratta di seconda, terza o quarta si salvi chi può: la tariffa è quella massima. Se l’alloggio costa 500mila euro, devi sborsarne 550mila sull’unghia, perché 50mila se li succhia lo Stato. Non dico nulla di nuovo, ma pochi sanno che la tassa di registro così aspra è una specialità tutta nostrana. Le menti ottuse degli occupanti (spesso abusivi) di Palazzo Chigi nel corso degli anni si sono inventate altri balzelli: l’Ici, l’Imu e una serie di ulteriori sigle (un ginepraio in cui è difficile raccapezzarsi) che comunque pesano sul conto finale delle somme da versare ai vampiri fiscali.

A forza di imposte, il proprietario di quattro mura si è dissanguato, e non c’è più un cane che, avendo risparmiato quattro soldi, abbia intenzione di comprare un quartierino da affittare: non conviene. Di conseguenza i costruttori non costruiscono (o costruiscono poco), muratori e carpentieri rimangono disoccupati, i geometri vanno a fare i poliziotti (se c’è un concorso, e non ce ne sono). E il settore rotola sempre più in basso, al punto da incidere sul Pil (Prodotto interno lordo) per un bel -1,5 per cento. Cifra che indica un fallimento senza precedenti. Del quale occorre ringraziare anche alcuni economisti che se la tirano da esperti quando, viceversa, sono talmente asini da non conoscere le regole elementari del mercato: più tasse e meno soldi circolanti, meno acquisti, meno manodopera, meno benessere. Inoltre i fan del fisco non si sono avveduti di un fenomeno grave che la loro «scienza» ha provocato: il deprezzamento del patrimonio immobiliare sia delle famiglie sia della nazione. Infatti se dieci anni fa un alloggio medio costava 300mila euro, oggi è valutato poco più di 200mila. L’impoverimento del proprietario che eventualmente volesse rivenderlo è palese, e sorvoliamo sulla disperazione di chi a suo tempo accese un mutuo per coprire quei 300mila euro e che ora possiede una casa da 200mila. Chi sgancia la differenza? Una perdita secca. Se la moltiplichiamo per il numero complessivo di case italiane, ecco che il disavanzo sale a dismisura, toccando vertici mostruosi. Chi ci governa, mentre con la mano destra cerca di creare lavoro, con la sinistra lo uccide già nella culla. Qualcuno se ne accorge?

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Vittorio Feltri – Il Giornale

Da almeno vent’anni si parla della necessità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma nessuno è mai riuscito a scalfirlo. Perché non è una norma, bensì una divinità e come tale non si discute: si accetta, anzi va adorata.

Matteo Renzi, che non è stato in grado di riformare alcunché tranne le insegne di alcune botteghe istituzionali (Province e Senato), ha però favorito il cambiamento del linguaggio politico, e ha definito il suddetto articolo 18 «un totem».

Giuliano Poletti, comunistone di vecchia data, ministro del governo in carica, si è affrettato a dire che la cancellazione della regola – totem o dogma che sia – non è in programma e che pertanto essa rimarrà in vigore. Per sempre? Probabilmente sì. Abbiamo la tentazione di dare ragione al responsabile del dicastero del Lavoro. Il problema infatti non è l’eliminazione di un articolo dello Statuto dei lavoratori, ma dello statuto stesso, visto che i lavoratori sono già stati eliminati. Una volta si diceva: moriremo democristiani. Oggi abbiamo un’altra certezza: saremo sepolti in base ai criteri fissati dell’articolo 18. Il quale articolo 18 è il paradigma della stupidità italiota. Esso infatti, come ben sanno gli imprenditori, è applicabile soltanto nelle aziende con più di 15 dipendenti. In quelle piccole – con meno di 15 dipendenti – il padrone licenzia a proprio piacimento. In teoria. In pratica non è così.

L’imprenditore fa il proprio interesse, per cui non caccia uno perché gli è antipatico, semmai uno che non rende. Chissà perché le cose ovvie non sono persuasive. È un fatto comunque che il comandamento numero 18 discrimina. Esattamente come discrimina la cassa integrazione, riservata al personale delle grandi imprese e inaccessibile a quello delle piccole. Davanti a questo sistema iniquo non c’è politico o sindacalista che osi fiatare, salvo strillare e stracciarsi le vesti se qualcuno minaccia di cancellare il totem. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello corrente, i radicali proposero un referendum per spazzarlo via. Non passò. Anche perché Silvio Berlusconi, che si accingeva a vincere le elezioni (2001), disse a Marco Pannella che il plebiscito era inutile in quanto, non appena rientrato a Palazzo Chigi, egli avrebbe provveduto a depennare la discussa norma.

Il Cavaliere in effetti ci provò in ogni modo, ma fallì: tutti gli andarono contro con forza e gli impedirono di muovere un dito. Se lo avesse mosso, glielo avrebbero immantinente amputato. Cosicché, Fornero o non Fornero, siamo ancora qui a litigare sull’articolo 18. Che fu elaborato da Giacomo Brodolini, socialista, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, promotore dell’intero Statuto dei lavoratori (varato nel 1970) che, con rispetto parlando, sembra scritto da Stalin dopo essersi scolato una bottiglia di vodka.

Non è un caso che le difficoltà dell’economia italiana siano cominciate con l’approvazione di quella legge dall’acido sapore sovietico. Nonostante ciò, a quasi mezzo secolo dall’introduzione della storica schifezza, mentre la crisi nazionale e internazionale galoppa e la disoccupazione avanza speditamente, c’è ancora chi – la sinistra nostalgica, politica e sindacale – difende il capolavoro di Brodolini, una brava persona morta giovane (50 anni) dopo aver vissuto con la testa nelle nuvole rosse dell’Urss e dintorni.

Se c’era qualcosa da fare con urgenza per modernizzare il Paese, questa era proprio la riforma radicale del pluricitato statuto. Invece non è stato toccato. Ciò dimostra che gli slogan dei riformisti sono frasi vuote, spot elettoralistici e nulla più. La conferma viene dal ministro Poletti, il quale, intervistato un giorno sì e l’altro pure dalla stampa compiacente, ammette che bisogna ridurre al minimo la conflittualità nei rapporti fra impresa e lavoro, tuttavia non intende abrogare né lo statuto né l’articolo 18. Domanda: e allora come si fa a creare collaborazione fra datori di lavoro e prestatori d’opera? Si chiama il parroco affinché benedica gli opifici?

Questo è ancora poco. Poletti aggiunge: per sciogliere la grana degli esodati dobbiamo recuperare risorse. Giusto. Recuperarle dove? Dalle pensioni alte, che vanno tagliate e/o ricalcolate su base contributiva, in barba a un patto sociale pregresso. Lo Stato si rimangerebbe così gli impegni presi a suo tempo con gli attuali pensionati, ignorando che sugli assegni più ricchi (si fa per dire) esiste già un cospicuo prelievo a titolo di obolo di solidarietà.

Pur di non segare le spese superflue, magari quelle identificate da Carlo Cottarelli (all’uopo ben pagato), questo simpatico governo è pronto a recidere ulteriormente le pensioni dopo aver già reciso il medesimo Cottarelli, reo di aver svolto il proprio dovere. Non ce l’abbiamo con Renzi, per carità, ma ci rendiamo conto che, stante la situazione, chiunque al suo posto, anche i predecessori e gli aspiranti successori, potrebbe far peggio ma non meglio di lui. La politica italiana è abilitata a usare le forbici solo per tranciare le palle ai cittadini.

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Vittorio Feltri – Il Giornale

Quando si parla di pensioni, in tivù e sui giornali, immancabilmente si prende di mira la ex ministra Elsa Fornero, colpevole, secondo la vulgata, di essersene infischiata degli esodati.

I quali invece sono vittime di un sistema perverso denominato prepensionamento: certi lavoratori si dimettono, incentivati dal datore di lavoro, poi si trovano in brache di tela perché nel frattempo lo Stato ha modificato le regole. Esso ha deciso che non si va più in quiescenza a 63 anni, ma a 68. Di modo che uno sfigato che avesse scelto di collocarsi a riposo in base alle vecchie norme, piomba nella spiacevole situazione di non ricevere più lo stipendio dalla ditta (che lo ha liquidato con fior di quattrini) e neppure l’assegno dell’Inps, in quanto non ha ancora maturato l’età per incassarlo, per effetto delle modifiche nel frattempo intervenute.

Che colpa ne ha la Fornero? Nessuna. Ella infatti si è limitata a varare una legge – da tutti approvata in Parlamento – tenendo conto dei dati forniti dalla Previdenza. Sono sbagliati? L’ente previdenziale si batta il petto.

Negli ultimi tempi, esodati a parte, le cose si sono ulteriormente complicate. L’amministrazione pubblica recentemente si è alleggerita di 260mila dipendenti. E uno è portato a dire: ottimo, tanti stipendi in meno da versare, un bel risparmio. Un corno. Perché un impiegato statale che va in pensione continua a costare allo Stato la stessa cifra: prima riscuoteva lo stipendio, ora incassa l’assegno di quiescenza, e il risultato finale non muta. Sempre soldi pubblici incamera. E così via.

Il problema va affrontato diversamente. Le persone oggi sono più in forma rispetto a 20 o 30 anni fa e possono continuare a prestare servizio sino in tarda età. È da stupidi spedirli a casa quando sono ancora efficienti. Conviene trattenerli e trasferirli, semmai, in uffici carenti di personale e bisognosi di assunzioni. Chi cessa si recarsi al lavoro perché bacucco peserà sui bilanci per qualche anno, poi andrà al Creatore e non costerà più nulla. E chi invece continuerà l’attività fino al limite della vecchiaia si guadagnerà la paga in un settore o in un altro, indifferentemente. È un fatto che il numero complessivo dei dipendenti pubblici vada ridotto al massimo, ma non scaricando gli esuberi sulla cassa pensioni, bensì evitando nuove assunzioni.

Obiezione: e i giovani, a quale occupazione possono aspirare? I mestieri da imparare sono tanti, non esistono solo le scrivanie della burocrazia. In Francia, l’agricoltura è la colonna vertebrale dell’economia, da noi è la cenerentola. Perché? Evidentemente, il contadino, il pastore, l’allevatore, il produttore di formaggi e confetture varie non godono qui di buona fama. È assurdo. Segno che i nostri giovani hanno una mentalità retrograda e non capiscono che lavorare in campagna richiede una cultura specialistica profonda, sicuramente non inferiore dal punto di vista qualitativo a quella di uno che timbra carte e sbriga pratiche allo sportello di un ente (spesso inutile).

Serve una svolta. Occorre passare dal culto della camicia bianca alla gioia del fare. Creare ricchezza e non scartoffie è un’esigenza primaria. Quanto ai pensionati, bisogna selezionare: i minatori (categoria estinta) hanno diritto ad appendere il piccone a 60 anni, ma chi ha maneggiato la penna tutta la vita vada avanti a farlo sino a 68–70 anni. Dov’è il dramma? I calli alle dita? Una volta si diceva: lavorare di meno, lavorare tutti. Aggiornarsi: lavorare di più e fino in tarda età, senza aggravare la spesa sociale che non ci possiamo più permettere. I ragazzi si ingegnino. Emigrino come fecero i nostri padri e i nostri nonni, si inventino nuovi mestieri come noi ci inventammo.

Mi scuso se mi cito. All’inizio degli anni Settanta non esistevano le tivù private. Furono quelli della mia generazione – io compreso – a inaugurare il filone: dal nulla mettemmo in piedi delle antenne. Che all’inizio facevano schifo. Poi ci specializzammo e le emittenti locali spopolarono, fecero fortuna.

Qualcuno di noi guadagnò parecchio, altri – meno bravi o meno fortunati – rimasero al palo, c’est la vie. Il famoso terziario si sviluppò negli anni Ottanta. Prima non si sapeva neanche cosa fosse. Ogni epoca offre occasioni e impone il superamento di vari ostacoli. Darsi da fare è l’unica soluzione. Lo Stato non può e non deve essere una balia. Arrangiatevi, fratelli, nipoti e cugini.