walter passerini

Per il lavoro una politica industriale

Per il lavoro una politica industriale

Walter Passerini – La Stampa

Quella di oggi pomeriggio è un’occasione importante. L’incontro tra governo e parti sociali, sindacati e imprese, officiato a nome dell’esecutivo dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, suscita aspettative al di là dell’ordine del giorno formale, che parla soprattutto di Jobs act e di revisione delle tipologie contrattuali. «Speriamo non sia un monologo», commenta Susanna Camusso (Cgil). «È una pagina nuova da scrivere», incalza Anna Maria Furlan (Cisl). «Sono pronto a stupirmi», rincara Carmelo Barbagallo (Uil). Il summit cade due giorni prima del prossimo Consiglio dei ministri, che avrà nell’agenda molti temi e qualche sorpresa, se si sta alle parole di Matteo Renzi, che alla Direzione Pd ha affermato: «Finalmente approveremo cose di sinistra».

All’opinione pubblica e ai cittadini interessa una risposta chiara: che cosa sta facendo il governo per agganciare la ripresa? L’Istat ha comunicato che l’Italia vede la fine della recessione ma la crescita rischia di restare al palo. Quello 0,0% del nostro Pil invariato nell’ultimo trimestre 2014 brucia di fronte allo 0,7% della Germania, allo 0,7% della Spagna e allo 0,3% dell’Eurozona. Bisogna fare di più e in fretta. Sindacati e imprese porranno al governo anche temi includibili: crescita, fisco, pensioni. Va bene disegnare un mercato del lavoro più flessibile, tutelato e dinamico, ma le regole da sole non bastano più, ci vuole sostanza.

Il Jobs Act ha portato a casa troppo poco: venerdì verranno approvati gli unici due decreti operativi (contratto a tutele crescenti e nuovi ammortizzatori), ma molti provvedimenti viaggiano con il freno a mano. Altri tre ne verranno annunciati (cassa integrazione, semplificazione contrattuale e maternità), ma tra quelli rinviati e che più contano ci sono le politiche attive, i servizi per il lavoro e l’Agenzia nazionale per l’occupazione. Regole e contratti sono importanti, ma c’è una poltrona vuota al tavolo delle trattative: le nuove politiche industriali. Un’assenza stridente, un silenzio assordante. Lo testimonia la stessa Confindustria con il direttore generale, Marcella Panucci («Positivo l’investment compact, ma va potenziato»): si tratta di disegni e cornici più fiscali che industriali.

Quali sono i settori economici e produttivi su cui vogliamo puntare? Una domanda oggi senza risposta. Eppure i liberisti Obama e Angela Merkel lo hanno fatto per le loro due locomotive, individuando i settori su cui investire e incentivare. Noi ancora no. Quanto investiremo in made in Italy, nelle quattro A (alimentare, abbigliamento, arredamento, automazione), nel digitale e nel green? Senza dimenticare l’industria manifatturiera, senza la quale non ci sara alcuna ripresa. Lo ricorda la Fondazione Edison con orgoglio: nel manifatturiero siamo sesti al mondo per valore aggiunto, quinti per bilancia commerciale, secondi per quota di esportazione di prodotti dopo la Germania e davanti agli Stati Uniti. Il fatturato manifatturiero dal 2008 al 2013 è cresciuto nell’estero del 17%, ma è calato del 16% all’interno. Le imprese italiane sono tra le più competitive al mondo. La zavorra è il crollo della domanda interna, non la competitività dell’industria.

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Walter Passerini – La Stampa

Ha sessant’anni e li dimostra tutti. L’apprendistato, che trae le origini della sua attuale sistemazione normativa nella legge 25 del 1955, è l’unica forma di contratto di lavoro a fini formativi. Nato nelle botteghe artigiane rinascimentali, l’istituto ha subito diverse modifiche nel tempo, per arrivare al Testo unico del 2011, che così lo definisce: un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed all’occupazione dei giovani. L’apprendistato è un contratto a causa mista, nel quale accanto alla causa di scambio (lavoro contro retribuzione), tipica del contratto di lavoro dipendente, si aggiunge la finalità formativa (D.Lgs. 14 settembre 2011, n.167). L’ultima modifica è il Decreto Poletti (D.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78).

Negli ultimi anni il contratto di apprendistato è stato definito il canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma il suo successo nel frattempo ò colato a picco. Negli anni d’oro è arrivato a superare una media di oltre 600mila contratti l’anno. Tra il 2010 e il 2012 è passato da 528.183 contratti a 469.855, per crollare subito dopo l’entrata in vigore del Testo unico ai suoi minimi: nel 2013 ci sono stati 240mila contratti di apprendistato, nel 2014 meno di 200 mila nei primi nove mesi, che dovrebbero portare il numero finale di quest’anno sotto quota 300 mila.

Come mai questo dimezzamento di contratti mentre la normativa e la politiche del lavoro tendono a sostenerlo? Ci sono tante ragioni. La presenza di un pacchetto di ore di formazione ha sempre ottenuto tiepidi consensi da parte delle imprese, quando non vere opposizioni: il decreto Poletti di quest’anno ha alleggerito il problema, ma non basta. I vantaggi economici per le imprese sono tanti: decontribuzione totale per tre anni per le imprese sotto i nove dipendenti; al 10% per le altre. Anche il vincolo di stabilizzazione è stato abbassato dal decreto Poletti: la quota di stabilizzazioni prima di assumere altri apprendisti è passata dal 50% al 20%. Ma anche questo evidentemente non è sufficiente. Nelle ultime settimane sembra poi che le aziende intenzionate ad assumere giovani si siano fermate, in attesa dei nuovi provvedimenti previsti dal Jobs Act.

Una delle ragioni del rovinoso cammino del contratto di apprendistato consiste proprio nella concorrenza spietata che altre formule di assunzione gli fanno, essendo ritenute più convenienti da parte delle aziende (contratto a termine, in primis). Infine, l’attesa dell’arrivo del nuovo contratto a tutele crescenti ha eroso ulteriore fascino all’apprendistato, e assomiglia a un’eutanasia: strano un contratto a tempo indeterminato che può avere una scadenza, come è l’apprendistato. Non si può escludere che le complessità burocratiche abbiano giocato in ruolo. E forse anche la scarsa conoscenza, per non dire confusione, sulle tre tipologie: apprendistato per la qualifica, professionalizzante o di mestiere, in alta formazione e ricerca. A cui se ne aggiunge una quarta, destinata ai lavoratori in mobilità. È soprattutto la terza tipologia a soffrire: sembra proprio che usare uno stesso nome (apprendistato) per riunire garzoni di officina, impiegati di banca e laureati, masterizzati o dottori di ricerca non sia molto efficace; anche se per realizzare il miracolo di una nuova vita dell’apprendistato non basterà certo un semplice cambio di nome.

Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Il part-time era un’opportunità, con la crisi diventa una condanna

Walter Passerini – La Stampa

In pochi anni è cresciuto del 40%, passando da tre milioni a oltre quattro milioni di persone, ma il suo cammino è lastricato di trappole. Il part time, vale a dire un orario di lavoro ridotto rispetto all’orario pieno, è passato quasi indenne dalle polemiche contro i finti contratti autonomi (lavoro a progetto, false partite Iva), ma viene spesso citato dalle statistiche nella sua versione di part time involontario, a definire un lavoro accettato in mancanza di alternative full time. Secondo l’Istat la riduzione di orario involontaria ha un’incidenza del 63,6% sul totale dei lavoratori a tempo parziale. La formula è tradizionalmente più femminile che maschile, anche se il mix sta cambiando. Che sia verticale, orizzontale, dipendente o indipendente, il part time oltre all’involontarietà nasconde un altro terribile segreto, figlio della crisi.

Lo hanno scoperto due ricercatori Istat, Carlo De Gregorio e Annelisa Giordano, che ne scrivono in un working paper passato del tutto inosservato: «Nero a metà, contratti part-time e posizioni full-time fra i dipendenti delle imprese italiane». Dietro il linguaggio delle cifre, i ricercatori rivelano e documentano una triste pratica, quella dei falsi part time. La formula è cresciuta molto in questi anni di crisi, in particolare nel Mezzogiorno, e ha coinvolto un numero crescente di uomini. Ma mentre in Germania, per esempio, la crescita del part time si accompagna alla crescita di tutta l’occupazione, in Italia si manifestano fenomeni inversi: il part time sembra una risposta autoctona, “all’italiana”, alla crisi. Come?

I ricercatori mettono sotto la lente un campione di 113mila lavoratori dipendenti, corrispondenti all’universo di 11,8 milioni. Ne emergono un paio di eclatanti incoerenze, che fotografano due situazioni speculari e opposte: i falsi part time e i falsi full time. Incrociando i dati delle ore lavorate con quelli economici e retributivi, i ricercatori hanno scoperto che “i falsi part-time mostrano una quota pro capite di ore lavorate di poco inferiore, ma una retribuzione netta oraria di oltre il 20% più bassa, un imponibile contributivo per ora lavorata pari a circa la metà e un rapporto fra imponibile e retribuzione netta inferiore di un terzo. Questi squilibri si accentuano nel caso della componente maschile e sembrano evidenziare sia la presenza di ore lavorate e non retribuite sia la presenza di ore retribuite fuori busta, cui corrisponde evidentemente un imponibile contributivo non dichiarato”. La quota maschile di falsi part time è arrivata al 40%.

Queste incongruenze rivelano che dietro il falso part time c’è un’evasione contributiva e retributiva. Il lavoro effettivo è a tempo pieno, ma le aziende versano contributi e retribuzioni ridotte. Viene retribuito regolarmente solo il 65-70% delle ore lavorate, il resto è al nero o non pagato, come se fosse una tassa per avere un lavoro. È la prova dell’incrocio di ricatti e connivenze, di risposte illegali ai costi delle imprese e al bisogno di lavoro dei lavoratori. Ai falsi part time si accompagnano i falsi full time. Perché dichiarare un orario pieno e in realtà lavorare di meno? Per le aziende ci sono vantaggi fiscali e la costituzione di una banca di ore al nero. Per un lavoratore facilitazioni nelle graduatorie, pur avendo lavorato meno o senza essere pagato. Tragica consolazione dover pagarsi in parte un lavoro o lavorare gratis, pur di avere un lavoro.

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Disoccupazione record figlia delle riforme mancate

Walter Passerini – La Stampa

Non possiamo dare del tutto ragione a Jean Baudrillard, quando diceva che «le statistiche sono una forma di realizzazione del desiderio, proprio come i sogni», ma a volte sembra proprio così. Un’analisi distaccata dopo le recenti polemiche sui dati Istat della disoccupazione in Italia richiede cautela, per non confondere dati veri e interpretazioni forzate, tassi percentuali e valori assoluti, stock di numeri e flussi.

Le chiavi di lettura sono importanti ma dovremmo convenire almeno che non si possono attribuire a governi dimissionati o in carica da pochi mesi colpe che vengono da lontano. Un punto di osservazione condiviso può essere l’inizio della crisi, che in sette-otto anni ha cambiato radicalmente il gioco. Dal 2007 il tasso di disoccupazione in Italia è più che raddoppiato: allora era del 6,1%; oggi, come rivela l’Istat, è del 13,2%, un livello insostenibile. Nel primo trimestre 2014 raggiunse addirittura il picco del 13,6%, ma ciò non suscitò guerre. Il Mezzogiorno è passato dall’11% al 21,7% (primo trimestre 2014). Anche il tasso di occupazione segnala l’allarme, passando dal 58,8% del 2007 al 55,6%. In valori assoluti gli occupati passano da 23,3 milioni a 22,3 milioni. I disoccupati dal 1997 al 2007 si sono dimezzati (da 2,7 a 1,5 milioni), ma da 1,5 milioni del 2007 sono più che raddoppiati ai 3,4 milioni di oggi. Questi i numeri.

Oltre che di quantità, che comprendono pur sempre persone in carne e ossa, per capire le sfide del lavoro occorre però parlare anche di qualità: qualità del lavoro e produttività. È a partire dalla metà degli Anni 90 che le riforme del lavoro hanno innovato le regole del gioco, ma i loro effetti oggi appaiono fragili. La riforma Treu (1997) e la riforma Biagi (2003) hanno sicuramente innovato, ma in parallelo con la crisi hanno contribuito al dualismo del mercato del lavoro. Entrambe hanno aumentato l’occupazione, ma al margine, lasciando relativamente invariati gli stock di occupazione stabile, e incentivando a fisarmonica l’occupazione temporanea nelle sue diverse forme, confinandola all’area dei servizi a minore produttività.

Il dualismo del mercato del lavoro italiano, se da un lato ha permesso di far emergere nuovo lavoro, in parte nascosto dal nero, dall’altro ha alimentato un girone infernale di precarietà, disoccupazione di lunga durata e scarse tutele, penalizzando soprattutto i giovani, anche se laureati e masterizzati. Ora è necessario guardare avanti e non polemizzare sul passato. Anche perché l’universo a cui guardare è composto, oltre che da disoccupati ufficiali (3,4 milioni), da cassintegrati senza scampo, part-time involontari, precari e rassegnati, per un totale di circa 9 milioni di persone a forte disagio occupazionale. In un Paese che non cresce da vent’anni, l’occupazione non può certo aumentare.

E non bastano le regole del mercato del lavoro a creare nuovi posti: serve una politica di sostegno degli investimenti e della domanda delle imprese, da cui potrà scaturire nuova occupazione. Lo stesso Job Act, che contiene alcuni positivi cambiamenti, affronta solo in parte il dualismo del mercato con il contratto a tutele crescenti, riproponendo però il rischio di un doppio binario tra nuovi assunti e vecchi tutelati e riducendo, paradossalmente, mobilità e turn-over: difficile che un occupato lasci il suo posto protetto per un posto meno tutelato.

Tre sono le sfide che abbiamo di fronte, che riguardano imprese, lavoratori e politici. La prima è quella del sostegno della domanda senza la quale non si crea lavoro; è necessario abbassare i costi dell’energia e della burocrazia, incentivare le innovazioni per aumentare la produttività, favorire gli investimenti, dare maggiori certezze alle aziende, ridurre il cuneo fiscale. I sindacati e i lavoratori, ed è la seconda sfida, dovranno dimostrare che tra miglioramento della produttività e difesa delle tutele non c’è contraddizione alcuna; una quota del cuneo fiscale servirà a dare una boccata di ossigeno a salari e stipendi, per aiutare i consumi, ma sarà la contrattazione decentrata l’arma per una maggiore produttività. Ai politici e ai governanti, infine, ed è la terza sfida, occorre chiedere di abbandonare il clima e i toni di una permanente battaglia elettorale, che per avere consensi sul breve oscura le visioni sul futuro e la capacità di fare progetti. La guerra su cui orientare le forze è quella dell’innovazione e delle competenze, nella quale si giocano i destini della competitività oltre che del capitale umano. Siamo al bivio di una nuova transizione, dentro la quale il lavoro gioca una partita decisiva: passare alle politiche attive significa liberare risorse, economiche e umane, e liberarsi dal gorgo di una spesa pubblica fuori controllo, per costruire un nuovo welfare a misura di futuro.

Così a scuola può aiutare l’occupazione

Così a scuola può aiutare l’occupazione

Walter Passerini – La Stampa

Bastano alcuni dati per capire quanto pesa la scarsa comunicazione tra la scuola e il lavoro. In Italia solo il 4% dei ragazzi tra 15 e 29 anni riesce a integrare studio e lavoro (il 22% in Germania); l’abbandono scolastico è al 17,6% (in Europa al 12,6%); solo quattro imprese su dieci hanno frequenti contatti con la scuola (il 70% in Germania) e quando cercano personale lamentano una difficoltà di reperimento di figure tecniche che supera il 40%. C’è da chiedersi che cosa aspettiamo per mettere in comunicazione questi mondi. L’andamento della consultazione on line sulla buona scuola, che scade tra pochi giorni, conferma invece che i principali temi di accesa discussione sono quelli che stanno «dentro la scuola» e non «tra scuola e realtà» circostante. E’ importante parlare di insegnanti, graduatorie, supplenze e risorse, ma al tema scuola-lavoro viene riservata scarsa attenzione. Del resto nell’agenda proposta dal ministero solo due punti su 12 riguardano la scuola e il lavoro. Ci ha provato anche Confindustria con le sue «100 proposte per la scuola» di cui una trentina riguardano il rapporto scuola-lavoro, ma l’uscita pubblica non ha ancora trovato un’adeguata attenzione. Colpisce sul tema il silenzio dei sindacati. Il dialogo tra sordi deve essere sostituito da una più stretta collaborazione.

La disoccupazione giovanile (44,2%) ha molto a che fare con la scarsa comunicazione tra i due mondi. L’Europa ci chiede di lavorare sulle quattro priorità della Vet (Vocational educational training): alternanza, apprendistato, istruzione tecnica e professionale, autoimprenditorialità. Ma noi sembriamo ancora fermi alla vecchia triade della vita: prima si studia, poi si lavora, poi si va in pensione; sappiamo bene quanto sia cambiato il nostro piccolo mondo antico. Eppure le migliori pratiche dei nostri concorrenti dovrebbero guidarci. Sono almeno dieci le proposte attuabili. Innanzitutto un piano di orientamento nazionale, dalla scuola media, per accompagnare le scelte e rafforzare le iscrizioni alle discipline tecnico-professionali. Va resa obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni delle superiori. Anziché soffocarlo, l’apprendistato avrebbe bisogno di un rilancio sia per l’acquisizione di qualifiche sia per l’alta formazione (modello duale).

Gli imprenditori che svolgono attività di formazione per i giovani vanno incentivati e premiati. L’offerta formativa dopo il diploma dovrebbe arricchirsi di un nuovo ordinamento aggiuntivo, oltre all’università, attraverso l’istruzione tecnica superiore, sul modello tedesco. L’inefficacia della formazione in Italia dipende anche dalla frammentazione in 20 sistemi regionali, per i quali andrebbe prevista una regia e un coordinamento nazionale. Stage e tirocini dovrebbero diventare obbligatori sia negli istituti tecnici che nei licei con una durata almeno doppia. Ogni istituto superiore dovrà dotarsi di ufficio placement e banche dati per favorire i contatti con il mondo produttivo. Per ovviare alla carenza di risorse si possono usare i laboratori aziendali aprendoli alle classi. Infine, è tempo che le scuole si colleghino in rete ai fabbisogni e ai monitoraggi nazionali e territoriali, per legare più strettamente la domanda e l’offerta di lavoro.

Strane idee sul futuro del Tfr

Strane idee sul futuro del Tfr

Walter Passerini – La Stampa

Nei giorni scorsi è ventilata la notizia che il governo stia pensando a un provvedimento per anticipare mensilmente il Tfr futuro, vale a dire l’accantonamento annuale che alla fine del rapporto di lavoro si trasforma in liquidazione. Si tratta di quasi 30 miliardi all’anno, di cui, questa è la proposta, la metà finirebbe ogni mese in busta paga, mentre la metà resterebbe in azienda. Ovviamente la mensilizzazione del Tfr potrebbe far gola a molti, con un interrogativo: meglio 1’uovo oggi o la gallina domani?

L’idea nasce dall’esigenza di stimolare i consumi, immettendo nel mercato una liquidità di 13-15 miliardi. Per le imprese, vi sarebbero delle compensazioni, finanziarie e fiscali, dal momento che il Tfr è una pura posta contabile e non viene fisicamente accantonato ogni anno. Per le persone vi sarebbe l’opportunità di avere ossigeno in busta paga (l’ammontare è una mensilità all’anno da suddividere mensilmente), trasferendo la somma o in consumi o in risparmio.

Da qualche tempo una parte di Tfr viene accantonata per la previdenza integrativa, ed è questa la sua destinazione naturale. Alla fine del rapporto di lavoro o del lavoro tout court, il lavoratore avrebbe a disposizione un certo capitale e un’integrazione pensionistica. Con l’aria che tira sulle future pensioni contributive, forse sarebbe meglio essere previdenti, avere pazienza e aspettare, piuttosto che consumare, ritrovandosi poi con un pugno di mosche in mano.

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Domani ricomincia la guerra dell’art. 18, la priorità è il lavoro

Walter Passerini – La Stampa

E così domani ricomincia in aula al Senato la battaglia dell’articolo 18. Sembrava impossibile, invece si ritorna a guerreggiare. Chissà se si arriverà a una sana mediazione, il buon senso e il Paese la reclamano. Uno scontro produrrebbe solo vincitori e vinti. Strano destino quello del simbolo di un’epoca che è radicalmente mutata. Tra l’altro ogni anno sulle 8 mila cause a favore dei lavoratori dedicate al tema due terzi si concludono con il risarcimento e solo tremila con il reintegro. Il pasticcio poi sarebbe quello di avere nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, senza o con l’articolo 18 alla fine dei 36 mesi, e la massa dei lavoratori che sono tutelati dalle vecchie regole, quindi con l’articolo 18 (un’abolizione tout court sarebbe impossibile). I lavoratori protetti dalla formula oggi sono 6,5 milioni (aziende con oltre 15 dipendenti), meno di un terzo delle forze di lavoro.

Le priorità
Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 ha incendiato la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro. C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così, abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne.

Troppe formule
Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una pièce da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio. La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime come abbiamo visto le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che i decreti attuativi lasceranno spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che le ambiguità della norma producessero lavoro solo per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi e dai suoi ministri Poletti e Boschi), l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Creare lavoro
Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un “matrimonio indissolubile”. Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. E’ questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un sadico né una vendetta sociale, ma può essere una tappa, insieme al rilancio della domanda, per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Occupazione, tante fratture da risanare

Occupazione, tante fratture da risanare

Walter Passerini – La Stampa

Beato il paese che non ha bisogno di eroi, di totem o di scalpi, si può dire parafrasando Bertolt Brecht, perché altrimenti saremmo sempre in guerra, che ammette solo vincitori e vinti. Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 sta incendiando la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro.

C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior Paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne. Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una piece da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio.

La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, di fronte al testo giunto in Commissione al Senato, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che lascia spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che la sinteticità della norma producesse solo lavoro per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi, l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un «matrimonio indissolubile». Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. È questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un aguzzino né una vendetta sociale, ma può essere una tappa per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Un piano per salvare i rassegnati

Un piano per salvare i rassegnati

Walter Passerini – La Stampa

Negli ultimi dati Istat relativi al secondo trimestre dell’anno, un’attenta analisi può condurre a focalizzare meglio i target di una nuova strategia. Esaminando con una lente di ingrandimento alcuni particolari, si scopre, per esempio, che sullo stock dei 3,2 milioni di disoccupati, l’aumento dei disoccupati è alimentato soltanto dalle persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi, che nel secondo trimestre 2014 arrivano a 1 milione 952mila unità (+13,9% pari a 238.000 unità).

L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (12 mesi o più) sale così al 62,1%, dal 55,7% del secondo trimestre 2013. Chi resta senza lavoro rischia di rimanere in un girone infernale da cui non riesce a uscire. Se poi si mettono sotto la lente gli inattivi, si scopre un esercito di rassegnati e sfiduciati. Coloro che cercano lavoro anche se non attivamente sono quasi 1,8 milioni; coloro che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare sono 1,5 milioni. Si tratta di 3,3 milioni di individui, un numero superiore ai disoccupati ufficiali (3,2). Se ancora si vanno a vedere i motivi della mancata ricerca del lavoro, si trovano 2 milioni di individui che non cercano più il lavoro perché ritengono di non riuscire a trovarlo. È questo uno zoccolo duro di rassegnati che, sommati a disoccupati, contrattisti a termine, cassintegrati e in mobilità, finti collaboratori, part timer involontari, fotografa l’esercito della sfiducia che va riportato al lavoro.

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Walter Passerini – La Stampa

Puntuale come una sagra paesana, ogni fine agosto si celebra il tormentone delle pensioni, fatto apposta per demotivare il ritorno al lavoro e il rientro dalle vacanze. Le sembianze quest’anno vanno sotto il nome di prelievo di solidarietà, su cui si cimentano ministri, politici, contabili, liberisti, sovietologi e alchimisti vari. Alla insostenibile leggerezza degli assegni (l’importo medio annuo è di 11 mila euro lordi) si accompagna l’insopportabile leggerezza di Catoni e Censori che si divertono a gettare alcol sul fuoco, aumentando l’incertezza degli italiani e il loro umor cupo. Sulle pensioni non si scherza, simboleggiano e sostanziano non solo la capacità di avere un reddito, ma anche il patto di coesione sociale su cui si fondano le comunità e il patto di fiducia sui diritti acquisiti e sul futuro. Non può essere unicamente economico e contabile, quindi, il parametro su cui impostare la riapertura del cantiere pensioni, ad alcune condizioni.

La prima è che non si può fare cassa con la previdenza: le pensioni non sono né un bancomat né una slot machine. Gli eventuali risparmi della spesa previdenziale devono restare nel sistema previdenziale stesso. La seconda è che le pensioni non sono un campo di battaglia in cui consumare vendette: le storture ci sono, le ingiustizie pure (vedi i vitalizi di politici e parlamentari), e Robin Hood non è più in attività. Il rischio è illudere le masse che togliendo ai super-ricchi possano goderne i poveri. I Paperoni che guadagnano più di 20 mila euro lordi al mese sono 540, mentre sopra 3 mila al mese lordi ci sono 505 mila pensionati, che valgono 38 miliardi l’anno: poca cosa se li si vuole tassare al 10% con un prelievo di solidarietà. Il paniere si restringerebbe ulteriormente alzando l’asticella a più di 5 mila euro lordi al mese, che riguarda 140 mila individui, il cui sacrificio sarebbe ancora più inconsistente. I rimedi sinora proposti avrebbero un significato più simbolico che concreto. Nessuno ha oggi una ricetta del tutto convincente, anche perché per accontentare i contabili si abbassa l’asticella e l’alta tensione diventa micidiale. Cinque possibili le strade su cui far convergere opinione pubblica ed esperti, se si vuole dettare l’agenda ai politici. La prima è la costituzionalità, più ancora dell’efficacia, dell’eventuale prelievo di solidarietà. Già due recenti sentenze della Corte Costituzionale lo hanno bocciato. Sarebbe necessario un Fondo previdenziale, i cui proventi dovrebbero restare nel sistema pensionistico stesso.

La seconda è il valore delle pensioni. Il sistema contributivo riduce di un terzo il reddito medio percepito e rischia di creare una generazione di poveri. Oggi ci sono 13 milioni di pensioni retributive e solo 360 mila pensioni contributive, a cui vanno aggiunti 1,1 milioni di pensioni miste. Ma nel prossimo futuro il rapporto si rovescerà, creando potenziali bombe sociali nei sistemi di welfare.

La terza strada è il diritto all’informazione. Mentre il sistema retributivo legava con un coefficiente la pensione a stipendi e anni lavorati, oggi e domani la pensione dipenderà dai contributi effettivamente versati. Il cambiamento produrrà effetti depressivi sui redditi più bassi e insostenibili paradossi: chi vorrà lavorare oltre i 69-70 anni avrà una pensione superiore al 100% degli stipendi percepiti; i giovani e le donne, con una vita contributiva discontinua, si vedranno decurtare il reddito del 30%.

Per questo, ed è la quarta strada, si rende necessaria la busta arancione, un sistema di comunicazione che permetta ai cittadini di conoscere l’ammontare dei propri contributi e la simulazione del futuro assegno pensionistico. Cittadino informato, cittadino salvato? Forse nemmeno questo basterebbe, se non venisse affiancato, ed è la quinta strada, da un robusto rafforzamento della previdenza integrativa, più collettiva che individuale, per integrare un assegno pubblico che si preannuncia modesto. La questione previdenziale va legata alla questione del lavoro. Non si risolve trattenendo al lavoro più a lungo le persone, ma aumentando le entrate di nuovi lavoratori e di nuova linfa contributiva. E’ solo la creazione di nuovo lavoro che garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico nel futuro.