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Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

C’è relativamente poca attenzione nei confronti delle pubblicazioni di ricerca della Direzione Analisi-Economica Finanziaria del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanza. La serie di paper, iniziata quando la Direzione era guidata da Lorenzo Codogno (ora alla London School of Economics), prosegue ora che ne è a capo Riccardo Barbieri Hermitte. Sono lavori di policy non solo di ricerca pure; per questo meritano di essere letti e discussi.

Di pregio il lavoro di Gianfranco Becatti, Germana Di Domenico, Giancarlo Infantino, intitolato “Un’assicurazione europea contro la disoccupazione: contesto, analisi e proposte di policy” . È il paper NT numero 1/2015. In breve lo studio sottolinea come  la crisi degli ultimi anni abbia mostrato che gli shock asimmetrici possono compromettere la stabilità e la performance economica dell’area dell’euro, con implicazioni negative anche di natura sociale. La politica di bilancio può svolgere un ruolo chiave nell’arginare tali effetti, ma, ad oggi, l’architettura europea non prevede meccanismi di stabilizzazione automatica.

In tale contesto, si è recentemente sviluppato un interessante dibattito circa l’opportunità di dar vita ad un nuovo strumento comune di assicurazione contro la disoccupazione, che si è arricchito di molteplici contribuiti scientifici. Nella nota si argomentano le diverse ipotesi tecniche avanzate in merito al disegno di un tale meccanismo a livello europeo, riportandone i potenziali vantaggi ma anche le aree di criticità ed evidenziando le direttrici lungo le quali potrebbe muoversi un’Europa più integrata, fiscalmente e socialmente, con il necessario consenso politico.

La proposta di un’assicurazione europea contro la disoccupazione – a mio giudizio- dovrebbe essere proposta dal Governo italiano in tandem con la generalizzazione del sistema previdenziale contributivo (in gergo europeo NDC, Notional Defined Contribution) che è stato applicato inizialmente in Italia ed in Svezia nel 1995 e successivamente adottato da numerosi Stati neocomunitari. Ciò renderebbe non solo più uniforme i meccanismi sociali dei singoli Stati dell’Unione Europea ma faciliterebbe risposte “europee” a shock asimmetrici.

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

di Eugenia Roccella*

L’Italia da molto tempo investe poco nella famiglia, probabilmente perché i governi hanno dato per scontata la buona salute della famiglia italiana. I dati, a parte un preoccupante declino della natalità, confermavano finora questo giudizio, ma negli ultimi anni i segnali di crisi si sono moltiplicati.

Quella che Giovanni Paolo II definiva l’eccezione italiana (e che si leggeva nei numeri: meno divorzi e separazioni, meno aborti, in particolare tra le minori, meno figli nati fuori dal matrimonio, meno madri single degli altri paesi europei) è oggi a rischio. È urgente quindi intervenire con provvedimenti pesanti, e non occasionali come il bonus bebé. Ma bisogna avere chiaro che le facilitazioni fiscali e il welfare pro-family servono solo in minima parte a fermare l’inverno demografico.

Tutta l’Europa è ormai sotto il tasso di sostituzione, anche i paesi in cui c’è stata e c’è ancora una storica attenzione al problema, come dimostra lo studio di ImpresaLavoro (per esempio la Francia o la Svezia, che investono molto più di noi su famiglia e figli). Per confermarlo basta verificare come l’unico paese europeo che fa meno bambini di noi è la ricca Germania: le cause principali della denatalità europea non sono economiche, ma culturali. In Italia, poi, come dimostrano le ricerche del sociologo Roberto Volpi, i figli si fanno ancora all’interno del matrimonio: se, come accade oggi, i matrimoni sono in calo, c’è poca speranza di risalire la china demografica.

Investire nella famiglia è necessario per motivi di equità, per migliorare la vita delle donne, su cui pesa ancora la gran parte del lavoro di cura,  e per dare un segnale forte di cambiamento; ma bisogna essere consapevoli che non si tornerà a fare figli solo con incentivi economici o con un welfare più generoso, se non c’è anche un investimento culturale per promuovere famiglia e matrimonio.

*Deputato di “Idea”, ex Sottosegretario al Ministero della Salute

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

di Alessandro Pagano*

I dati pubblicati dal Centro Studi “ImpresaLavoro” non mi sorprendono più di tanto. Anzi, paradossalmente mi rallegro del fatto che questi numeri possano essere diffusi, così da sottolineare tutte le contraddizioni interne di una sterile retorica – presente in ampi strati del mondo politico e governativo – su aiuti, bonus e previdenza in genere. Si tratta, per carità, di iniziative utili e meritorie, ma che troppo spesso non sono in grado di realizzare gli obiettivi per cui sono state messe in campo. È sempre positivo, dunqe, che osservatori neutrali siano in grado di raccogliere dati capaci di far esplodere queste contraddizioni. Perché è proprio su queste contraddizioni che diventa possibile fare qualche ragionamento serio.

Per esempio, è impossibile non notare come la nostra spesa per il welfare sia quasi sempre indirizzata – anche giustamente, da un certo punto di vista – nei confronti di coloro che restano disoccupati in seguito a crisi di lavoro. Questo, però, produce degli elementi fortemente distorsivi per la nostra economia. È normale, oltre che giusto, concedere un sussidio di disoccupazione a persone che, a 55-60 anni, hanno difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro. Ma quando lo stesso sussidio viene concesso in contesti molto differenti, questo provoca inevitabilmente delle distorsioni. Mi spiego meglio, perché si tratta di casi concreti che ho toccato con mano: segni di un malcostume che una volta riguardava soprattutto il Mezzogiorno ma che oggi si è diffuso anche nel Nord del Paese. Parlo dei giovani che si fanno assumere, lavorano per 7-8 mesi e poi, appena raggiunti i requisiti di legge, fanno di tutto per farsi licenziare. E lucrare sull’indennità di disoccupazione. Questa abitudine, più comune di quanto non si pensi abitualmente, porta a una distorsione di tutto il meccanismo del welfare. Le persone che lavorano “in nero” mentre percepiscono il sussidio di disoccupazione (o, peggio, si limitano a poltrire) non solo provocano un danno alla nostra economia, ma anche al tessuto culturale del Paese.

Anche quando il sussidio di disoccupazione è concesso a chi veramente ne ha bisogno, però, gli effetti distorsivi sono sempre dietro l’angolo. Perché queste persone, di fronte all’incertezza nei confronti del futuro, non hanno certo la tendenza a spendere, ma piuttosto cercano di risparmiare il più possibile. Il denaro dei contribuenti, dunque, non va ad alimentare i consumi o gli investimenti, ma viene messo da parte e immobilizzato.

Queste risorse – che oggi in gran parte servono ad alimentare effetti negativi sotto il profilo culturale ed economico – potrebbero essere utilizzate molto meglio se utilizzate a favore della famiglia. Quando lo Stato indirizza la spesa pubblica direttamente verso le famiglie, per esempio stimolandole ad avere figli, si crea inevitabilmente un effetto volano per tutta l’economia, perché i genitori spenderanno quel denaro per i figli: spendono per migliorare la loro qualità di vita, per attività extrascolastiche che altrimenti non potrebbero permettersi, per mandarli in una scuola migliore, per viaggi studio all’estero che possono arricchire in modo decisivo la loro esperienza. Da parte dei genitori, insomma, c’è una propensione virtuosa al consumo. E anche quando si preferisce il risparmio, si tratta di risparmio orientato verso il futuro dei propri figli, non immobilizzato in un cassetto proprio per paura del futuro. Si tratta di spesa pubblica, dunque, che crea effetti positivi sotto il profilo sia economico che culturale.

È chiaro che, partendo da questa prospettiva, è lo stesso modello di welfare del nostro Paese che va completamente ripensato. L’assistenzialismo italiano, così com’è, serve soltanto a trasformarci nella “Calabria d’Europa”, cioè in una macroregione assistita in cui la spesa pubblica serve solo a garantire un’economia minima di sussistenza (e magari i voti sufficienti a mantenere la propria rendita di posizione), ma che non riesce a diventare volano per la crescita. È possibile, invece, immaginare un welfare intelligente, che punta sui figli come risorsa primaria per la nostra società. I numeri della demografia, del resto, ci inchiodano a questa necessità: con 1,1 figli per coppia siamo destinati all’impoverimento. Ed è sotto gli occhi di tutti la banalità della retorica terzomondista che vorrebbe affidarsi ai flussi migratori per correggere questa tendenza: da noi ormai arrivano immigrati che non rappresentano un valore aggiunto significativo, in termini economici o culturali; mentre i nostri ragazzi migliori sono costretti a fuggire dall’Italia per arricchire, in tutti i sensi, gli altri Paesi.

Concludendo, i soldi investiti direttamente nelle famiglie – per esempio con quello che una volta si chiamava “quoziente familiare” – sono qualcosa di molto distante dall’assistenzialismo a cui purtroppo siamo abituati. E questo tipo di spesa pubblica deve crescere, non soltanto per portare l’Italia almeno ai livelli della media europea (e già questa sarebbe, di per sé, una motivazione sufficiente), ma perché si tratta di una spesa capace di avere effetti di moltiplicazione, sia in termini di consumo immediato, sia in termini di progresso culturale. Con una popolazione giovanile schiacciata da pensioni, sanità e assistenzialismo, i conti non tornano. Mentre allargando la base demografica si creano le condizioni per far ripartire il sistema produttivo, tornando a poter contare su una prospettiva di lungo periodo. Lo dico da cattolico: la famiglia non è soltanto la cellula fondamentale su cui è costruita la società, ma anche il destinatario ideale per una spesa pubblica virtuosa, capace di diventare una leva straordinaria per la crescita economica.

* Deputato nazionale di Area Popolare, componente della Commissione Finanze e della Commissione Giustizia

I risparmi dei nonni ci salvano dalla crisi

I risparmi dei nonni ci salvano dalla crisi

Antonio Angeli – Il Tempo

Altro che welfare e compagnia bella: le famiglie italiane le salvano i nonni e le nonne. Nel giorno della loro festa un sondaggio svela che è grazie agli anziani che sopravvivono i giovani. I nonni con i loro risparmi sono di aiuto a più di una famiglia su tre (37 per cento) ma per il 17 per cento sono anche una fonte di consigli e suggerimenti che a volte si trasformano in occasioni di lavoro per i nipoti. È tutto in una indagine on line pubblicata sul sito www.coldiretti.it, effettuata in occasione del 60esimo anno dalla nascita di «Donne impresa» Coldiretti, con la prima mostra sui business delle tradizioni. Dal ritorno dei tessuti naturali su un telaio di 200 anni fa, agli «agridetersivi» ecologici che sfruttano le proprietà delle erbe aromatiche, agli abiti anallergici con tinture vegetali, ma anche la riscoperta delle conserve della nonna (sono sempre la migliori) al recupero di bevande antiche che non temono la crisi. Sono solo alcuni dei suggerimenti dei nonni che alimentano il business della tradizione, censiti dalla Coldiretti.

L’inventiva delle imprenditrici della Coldiretti, che dimostra concretamente che la tradizione può rappresentare un vero e proprio business è notevole ed è presente in tutte le regioni. Tra le idee particolari ci sono quella della manager sarda che partendo dall’allevamento del baco da seta di razza «Orgosolo» ottiene attraverso una sapiente tessitura su un telaio antico di 200 anni fa «su Lionzu», il copricapo del costume tradizionale femminile di Orgosolo, una benda di seta grezza color giallo ocra che fascia completamente il capo. Il percorso dal baco all’atelier, annuncia la Coldiretti, è lungo e faticoso, ma il risultato è eccellente, i fili vengono fatti passare attraverso una serie di paletti piantati nel terreno e controllati dalle donne più esperte che ne dirigono gli scambi. Dopo questa operazione viene preparata una treccia densa e cangiante di seta che verrà lavorata col telaio formando il tessuto finito.

Nella giornata dedicata alle nonne e ai nonni d’Italia, ieri, due ottobre, riconosciuta Festa nazionale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha rivolto i suoi «auguri di ogni bene alle italiane, agli italiani e a quanti nel nostro Paese beneficiano del legame affettuoso con le rispettive e i rispettivi nipoti». E ancora: «Rivolgo tuttavia il mio saluto e i miei auguri anche alle donne e agli uomini di generazioni più giovani, comprese quelle giovanissime, che con le madri e i padri dei propri genitori si scambiano sentimenti positivi, conoscenza, compagnia. La festa di oggi li riguarda». «È nella trasmissione di ricordi e insegnamenti – ha aggiunto il capo dello Stato – da parte delle persone anziane e degli anziani e di preziosi stimoli da parte delle più giovani e dei più giovani una delle fonti profonde di benessere interiore per una società. Buona giornata delle nonne e dei nonni, dunque, a loro e non soltanto a loro». «Auguri anche a quanti trovano sostegno dal contributo di nonne e nonni alla crescita delle giovani generazioni, a figli e nipoti che donano attenzione, e in molti casi assistenza, ai festeggiati di oggi così favorendo la circolazione di risorse ed energie vitali per i cittadini dell’intero Paese», ha concluso il presidente Napolitano.

Perché l’articolo 18 gioca contro crescita e welfare

Perché l’articolo 18 gioca contro crescita e welfare

Oscar Giannino – Il Mattino

Alla politica piace ragionare per slogan. Sulle intenzioni di Renzi sul Jobs Act, e in particolare sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, fioccano i “timbri”. C’è chi l’ha avvicinato alla Thatcher, chi a Blair, o a Craxi. Il traslato è un modo per non parlare della realtà, ma per definire a prescindere – con giudizi “valoriali” – le intenzioni di modificarla. Un serio riformismo dovrebbe usare un altro metodo. Partire dai fatti: cioè valutare oggettivamente quali effetti reali ha provocato una certa norma, e che cosa determinerebbe invece la sua modifica. Dopodiché, ma solo “dopo” e non “prima”, ciascuno resta libero di giudicare secondo le proprie idee, che in Italia sono ancora quasi sempre “ideologie”.

Se analizziamo oggettivamente le disfunzionalità del mercato del lavoro, si dovrebbe partire dalla bassa occupazione, e dalla bassa produttività. Sulla prima questione, ricordiamo che tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Sulla seconda: se guardiamo alla manifattura italiana e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita al 2013 solo verso quota 110 mentre i salari orari sono arrivati oltre quota 155; nell’eurozona nel frattempo la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dovrebbe deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia di quelli alla produttività. Ma non è di queste macro disfunzionalità che si parla, purtroppo. Bensì, ancora una volta, dell’abolizione eventuale del reintegro giudiziario in caso di licenziamenti economici, nei nuovi contratti triennali a tutele crescenti che il governo vuole introdurre. Per evitare la divisione “ideologica” di una scelta favorevole o contraria in via pregiudiziale, cerchiamo di capire gli effetti determinati dall’articolo 18.

L’Ocse valuta ogni anno in termini comparati le diverse forme nazionali delle restrizioni ai licenziamenti individuali e collettivi: l’Italia dopo decenni di stabilità a quota 2,76 è scesa con la riforma Fornero a quota 2,51, ma il confronto è con la media Ocse a 2,04, UK a quota 1,03, Svizzera 1,60, Spagna a 2,05, Francia a 2,38. Tutti dunque più flessibili di noi. Solo la Germania ci supera, a quota 2,87. I vincoli al licenziamento assicurano il lavoratore contro le fluttuazioni del mercato del lavoro, ne trasferiscono l’onere sull’impresa, che dovrebbe fronteggiarne gli effetti con maggiore facilità. Ma in concreto, la tutela più forte come modifica il comportamento delle imprese?

Per rispondere a questa domanda, c’è una copiosa letteratura di ricerche comparate in sede Ocse. Maggiore è la protezione, minori risultano i flussi da occupazione a disoccupazione, e viceversa. È il classico effetto di tutela dell’occupazione stabile: da noi amplificata col sistema CIG. Le imprese razionalizzano prodotti e sistemi produttivi meno rapidamente di quanto dovrebbero fare inseguendo le curve di costo e domanda; si abbassa l’utilizzo degli impianti, salvaguardando piante organiche lasciate in CIG ma alzando il costo fisso del capitale fisico e finanziario; e infine la variabilità della domanda di lavoro si risolve con contratti a tempo determinato – i precari a minori tutele come capita in Italia da molti anni, bruciando generazioni intere di più giovani. Ridurre la velocità di distruzione di posti di lavoro sembra una cosa positiva: ma si accompagna alla riduzione di velocità della creazione di quelli nuovi.

Tanto è vero che gli studi comparati Ocse rivelano che maggiore è la protezione dell’occupazione, con limiti a licenziamento e reintegri giudiziali, peggio va per donne e giovani, sia in termini di minor occupazione sia di maggior disoccupazione. Tutto ciò con effetti quantitativamente ancor più negativi quanto più forte è il livello di contrattazione collettiva, cioè quanto i salari fanno più difficoltà a variare tanto verso l’alto se le cose vanno bene, quanto verso il basso se vanno male. In presenza di protezione dell’occupazione le imprese diventano inoltre più selettive, e assumono con maggiore probabilità lavoratori più istruiti. Mentre quando si riduce la protezione dell’occupazione le imprese iniziano a sostituire contratti temporanei con contratti permanenti. Cioè più persone vengono assunte con contratti a tempo indeterminato.

Sin qui, appare evidente dagli studi comparati che esiste uno “scambio” tra protezione al licenziamento ed effetti collettivi positivi se il primo si attenua, quando i benefici verificati della tutela superano i costi privati e pubblici. Ma cerchiamo di capire anche se studi seri sono stati fatti in Italia, sugli effetti dell’articolo 18. Molte ricerche si sono incentrate sull’effetto-soglia. Se cioè la tutela per i lavoratori sopra le 15 unità di dipendenti per impresa rappresentasse un freno alla crescita dimensionale delle aziende italiane. Quasi tutte le ricerche – di Garibaldi, Pacelli, Schivardi, Torrini – concordano che l’effetto soglia esiste, ma è meno rilevante di quanto spesso si creda. Non spiegherebbe che il 2% delle decisioni di non crescere. Piuttosto, anche le imprese italiane analizzate sotto i 15 dipendenti hanno manifestato effetti importanti sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita. Assunzioni e licenziamento nei contratti a tempo indeterminato sono calati nelle imprese piccole rispetto alle grandi, sostituiti anche qui dal ricorso massiccio dei contratti a tempo determinato. Tutto ciò ha in sostanza allungato i tempi di attesa verso “posti protetti” nella vita di ogni lavoratore.

Ci sono poi altri due effetti, ai quali i più non guardano. Quello dell’articolo 18 sui salari, e quello sulla produttività. Le ricerche italiane mostrano che le imprese traslano l’effetto-assicurazione al posto fisso – quella che in gergo tecnico si chiama job property – riducendo i salari settimanali: solo che la rigidità dei contratti nazionali di categoria per la parte salariale garantisce anche qui i già tutelati, e la riduzione comparata di salario va a carico dei contratti a tempo determinato che dalle tutele sono esclusi. L’apartheid di cui parla Renzi non è solo quella tra chi è tutelato dall’articolo 18, una minoranza secca dei 22,4 milioni di lavoratori italiani, e chi no. C’è anche quella dovuta al fatto che gli oneri assicurativi a favore dei tutelati, in una stessa impresa si traduce in minori salari di chi la tutela non ce l’ha. Stiamo parlando di minori salari tra il 10 e il 15%, a seconda dei diversi settori, e una quota di questo gap si deve proprio alla copertura degli oneri di licenziamento dei “tutelati” a tempo indeterminato. Infine, la produttività. La tutela elevata ai licenziamenti induce le imprese anche a un minore stock di capitale per unità di lavoro. C’è chi ha stimato che la riduzione della tutela al licenziamento verso il coefficiente OCSE della Danimarca – 2,20 rispetto al nostro 2,53 – produrrebbe negli anni un incremento dell’11,2%, degli investimenti, e del 7% della produttività del lavoro.

Analizzati tutti questi effetti, la soluzione obbligata è riscrivere il trade off tra tutela al licenziamento ed esternalità negative che ne vengono all’occupabilità e alla crescita della produttività. La soluzione dell’equazione non si fa solo abolendo il reintegro giudiziale, ma con una seria riforma contestuale degli ammortizzatori sociali, del sistema di intermediazione tra domanda e offerta del lavoro, e con più contrattazione decentrata al posto di quella nazionale. Giudicate voi, ora, se il Jobs Act su cui Pd e sindacati si accapigliano proceda secondo questi criteri.

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Probabilmente quello di ieri sarà ricordato come il discorso delle Isole Tonga per l’affermazione, paradossale ma non troppo, che è più facile fare impresa in Polinesia che in Italia. Sergio Marchionne dopo il meeting di Rimini ha voluto marcare la sua presenza anche a Cernobbio e ha fatto l’en plein. E non solo per la lunga ovazione che ha salutato la fine del suo intervento. Innanzitutto ha dato sostanza e adrenalina a un’edizione del workshop Ambrosetti che rischiava di passare agli annali esclusivamente per le polemiche a distanza con il premier Matteo Renzi e le rubinetterie bresciane. Poi l’amministratore delegato della Fiat Chrysler ha avuto anche la capacità di riportare al centro della riflessione di Villa d’Este l’economia reale, laddove nei giorni precedenti avevano dominato ancora una volta gli economisti-scenaristi e gli eurocrati di Bruxelles, entrambi restii ad appassionarsi di fabbriche e di tecnologie. Mancava la voce degli imprenditori e con Marchionne è finalmente arrivata, senza lesinare sui decibel. Per completare il quadro varrà la pena ricordare che in questo settembre 2014 si discuterà in Italia di riforma del lavoro, mezza Europa vigilerà sui tempi dell’approvazione parlamentare del Jobs act e Marchionne ha detto la sua. Ha invitato la politica a ripensare profondamente il rapporto tra Stato, lavoratore e imprese senza dover per forza importare questo o quel modello straniero ma tentando di costruire una via italiana alla flexicurity.



Per tentare di capire ancora meglio l’affondo di Marchionne può avere un senso ricordare come diversi imprenditori in questo periodo cerchino di attirare l’attenzione sui mutamenti dei cicli economici dopo la Grande crisi. Mi è capitato di leggere di recente un’intervista al capo-azienda di una delle nostre multinazionali tascabili che raccontava in maniera efficace di “aziende stressate, ordini che arrivano all’ultimo o che all’ultimo vengono cancellati, continue modifiche tecniche, nuovi mercati che esplodono all’improvviso costringendoci a rivedere le strategie”. È questo in sostanza l’ambiente economico in cui si andrà operare e quand’anche la ripresa sarà arrivata avrà comunque queste caratteristiche. I cicli lunghi ce li possiamo scordare e come ieri ha sintetizzato il ministro Federica Guidi, anche lei presente a Cernobbio: «Le aziende non hanno più un portafoglio ordini a sei mesi ma a sei giorni».

Ma ci sono oggi le condizioni per una riflessione di così ampia portata, come quella delineata da Marchionne? E il governo Renzi se ne farà davvero carico a costo di aprire un nuovo fronte polemico dentro il Pd e con la Cgil? Il top manager Fiat evidentemente pensa di sì, spiega che non bisogna privilegiare la difesa statica del singolo posto di lavoro ma la persona favorendone la mobilità sociale e la formazione perché – sia chiaro a tutti – «noi non vogliamo lavoratori usa-e-getta ma persone coinvolte». Tutti concetti che ricordano molto da vicino le eresie del giuslavorista Pietro Ichino, spesso sottovalutate dal mondo confindustriale. E non a caso l’amministratore delegato di Fiat Chrysler ha voluto ancora una volta ricordare come «pur di riconquistare una libertà di contrattazione» con i propri dipendenti l’azienda avesse deciso a suo tempo di uscire da Confindustria. Chiudendo Marchionne ha aggiunto che da sei anni le attività italiane sono in perdita e nonostante ciò non è stato chiuso nessuno stabilimento o licenziato nessuno e il motivo primo è che «siamo fondamentalmente italiani». Una frase che i suoi avversari non gli abboneranno facilmente. A cominciare da Roberto Maroni che ieri sull’italianità della Fiat è stato più caustico dei sindacalisti.  

Che fare se la Sanità non regge più

Che fare se la Sanità non regge più

Luigi La Spina – La Stampa

In teoria, il nostro è il miglior sistema sanitario del mondo, perché assicura l’assistenza gratuita a tutti. Lo sarebbe senz’altro, se fosse vero. È questa una delle tante illusioni di cui l’Italia si è fatta vanto in questi anni, compatendo non solo i poveri americani che hanno dovuto aspettare Obama per contare su una sanità un po’ più accessibile, ma anche i vicini di casa europei che possono godere, forse, di strutture ospedaliere più moderne ed efficienti, ma che pagano di più per essere curati. Ora, sembra che non sia più possibile continuare a mascherare la reale situazione di disagio e, in alcuni casi, di vera ingiustizia a cui sono sottoposti tanti italiani che si ammalano, perché in molte regioni italiane la spesa pubblica per la sanità continua a crescere in maniera incontrollata, con il rischio che il nostro sistema di welfare faccia crac. Al di là dei solenni impegni di risanamento delle nuove giunte regionali, dopo la consueta denuncia degli sprechi attribuiti alla precedente amministrazione, i costi della sanità pubblica continuano a crescere per motivi del tutto comprensibili.

La prima causa è quella demografica: il continuo allungamento delle speranze di vita, confortante soprattutto per noi italiani rispetto alle popolazioni di altri paesi del mondo, lo è meno per chi dovrà fornire le cure indispensabili ad anziani sempre più numerosi. Anche perché sono arrivati e stanno per arrivare alla soglia della vecchiaia, generazioni nate dopo il secondo dopoguerra, nel periodo del cosiddetto «baby boom». Per tutti costoro dovranno provvedere i contributi allo Stato di figli e nipoti, poveri nel numero e ancor più poveri nella capacità finanziaria di stipendi a rischio di precarietà e di tagli imposti dalla crisi.

Pure il secondo motivo della futura insostenibilità del nostro sistema di welfare deriva dal progresso, quello della moderna medicina. Ormai i costi per procurare ai nostri ospedali le più avanzate attrezzature diagnostiche e chirurgiche, ma anche per assicurare ai malati i farmaci più recenti, sono aumentati in maniera impressionante. Né sarebbe augurabile che si facessero risparmi in questi necessari investimenti, pena una assistenza di serie B rispetto alle altre nazioni dell’Occidente. È vero, inoltre, che sprechi e inefficienze sono assai diffusi, ma sull’esito delle rituali battaglie propagandistiche dei nostri amministratori regionali è bene far poco conto: l’assistenza sanitaria è un enorme bacino di clientelismo politico, di potere baronale e sindacale, anche quando non si registrano casi di corruzione penalmente perseguibile. Queste fortissime macchine di resistenza corporativa innalzano muri di gomma di fronte ai quali anche i migliori propositi di riforma e di razionalizzazione delle spese sono destinati a infrangersi.

Ecco perché lo slogan del welfare all’italiana, «sanità gratuita per tutti», è una illusione che tradisce la realtà. Quella di chi, di fronte alle lunghissime liste d’attesa per un intervento chirurgico, per una visita specialistica, ma anche per un semplice controllo di prevenzione, è costretto a rivolgersi alle cure di una struttura privata, con costi salatissimi. Quella di numeri che dimostrano le evidenti contraddizioni del sistema, basti osservare che quel cinquanta per cento della popolazione esente da ticket costituisce l’ottanta per cento degli assistiti da parte del servizio pubblico nazionale. Quella di coloro che non possono usufruire dei cosiddetti «livelli essenziali d’assistenza», perché i deficit delle sanità regionali sono tali da costringere i dirigenti a ridurre personale e strutture anche in quei settori. È ora di colmare il divario insopportabile tra illusione e realtà del nostro welfare sanitario, prendendo atto di un sistema che non regge più e che, soprattutto, non reggerà più nel prossimo futuro. Assicurare l’assistenza gratuita a coloro che non si possono permettere le cure è non solo un diritto del cittadino, ma un dovere di uno Stato civile. Garantirlo a tutti non è più possibile e prometterlo vuol dire perpetrare una truffa.