Un’agenda ragionevole

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

È evidente che Matteo Renzi considera il Pil (prodotto interno lordo) un oggetto un po’ noioso, e comunque la conseguenza, non il faro dell’azione politica. Egli ritiene – in questo seguendo uno dei migliori filoni della recente teoria economica, vedi ad esempio Daron Acemoglu e James Robinson, Perché le nazioni falliscono, Saggiatore 2013 – che il successo di un Paese dipenda dalle sue regole istituzionali e giuridiche. Senza buone regole crescere è impossibile. Di qui il suo impegno per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per riformare il Titolo V della Costituzione limitando l’autonomia irresponsabile delle Regioni. E tuttavia, se pur la sequenza è quella giusta, la differenza fra i tempi che Renzi si è prefisso per le riforme costituzionali e per quelle economiche, poche settimane le prime, mille giorni le seconde, fa sorgere il dubbio che egli sottovaluti la situazione del Paese.

Abbiamo (dati Istat per il mese di giugno) tre milioni e 153 mila disoccupati, 26 mila in più di un anno fa. Fra costoro 700 mila giovani di età compresa fra i 15 e i 24 anni. I giovani che non lavorano in realtà sono molti di più: 700 mila sono quelli che hanno deciso di mettersi presto a lavorare ma, pur cercando attivamente, non trovano nulla. Mentre nel resto dell’eurozona il tasso complessivo di disoccupazione ha cominciato a scendere, in Italia continua a rimanere sopra il 12 per cento (era poco sopra il 6% prima della crisi). Per abbattere la disoccupazione bisogna agire al tempo stesso sull’offerta e sulla domanda. Dal lato dell’offerta il provvedimento principe è la sostituzione dei contratti a tempo determinato e indeterminato con un contratto di lavoro unico a tutele crescenti: il Jobs Act di Renzi. Quel disegno di legge delega è stato presentato al Parlamento quattro mesi fa. Se si è completata la prima lettura di una riforma costituzionale in poche settimane, non si capisce perché il Jobs Act non possa essere approvato da Camera e Senato entro metà settembre, in modo da consentire al governo di emanare i decreti delegati insieme alla legge di Stabilità il 20 ottobre.

Sempre dal lato dell’offerta, la grande risorsa sprecata sono le donne. La loro partecipazione al mercato del lavoro è di dieci punti sotto la media europea. E non è solo colpa del Mezzogiorno: vi è la medesima differenza fra Lombardia e Baviera. Inoltre, quando una donna italiana lavora, la probabilità che dopo un parto ella riprenda a lavorare è solo del 50%. Marco Leonardi e Carlo Fiorio (www.lavoce.info) propongono di incentivare il lavoro femminile sostituendo le detrazioni per il coniuge a carico (che costano circa 3,5 miliardi di euro l’anno e non hanno alcun effetto sul lavoro femminile) con un assegno pagato direttamente alle donne con figli che lavorano, magari proporzionale al numero dei figli. Il Parlamento ha approvato, l’11 marzo scorso, una legge delega che consente al governo di ridisegnare da zero il nostro sistema fiscale (anche riprendendo l’idea, sperimentata per la prima volta durante il governo Monti, di una tassazione differenziata a favore delle donne). L’attuazione della delega è un’operazione delicata perché muterà gli incentivi a lavorare e a investire. Ma il fatto che sia delicata non significa che richieda tempi eterni.

Il governo potrebbe nominare già la prossima settimana una Commissione tecnica (sul modello della Commissione Visentini che ridisegnò il nostro sistema fiscale all’inizio degli anni Settanta) e chiedere proposte entro metà settembre. Anche in questo caso i decreti delegati potrebbero essere varati entro il 20 ottobre. Per un presidente del Consiglio che quattro mesi fa ci ha promesso una riforma al mese, non sono tempi impossibili.

Liberare l’offerta è condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre che riprenda la domanda. Le esportazioni vanno bene, ma da sole non riescono a sostenere l’intera economia. Deve crescere la domanda interna, cioè i consumi delle famiglie. Affinché ciò avvenga bisogna abbattere la pressione fiscale come ha suggerito giovedì anche il presidente della Banca centrale europea. Gli 80 euro di maggio vanno nella direzione giusta. Fino ad ora non si sono riflessi in un aumento dei consumi perché le famiglie, io penso, temono si tratti di una riduzione solo temporanea delle tasse. Vanno resi permanenti ed estesi ad un numero maggiore di cittadini. Gli 80 euro costano 10 miliardi l’anno, lo 0,6% del Pil. Affinché una riduzione permanente delle tasse abbia effetti significativi sui consumi (considerando il livello da cui parte la pressione fiscale oggi sopportata dalle famiglie) servirebbero almeno 2 punti di Pil, cioé circa 30 miliardi. Dopo la «vicenda Cottarelli», Matteo Renzi ha detto (giustamente) che i tagli di spesa sono una scelta politica e se ne è assunto la responsabilità. Cottarelli stima possibili tagli per 30 miliardi sull’arco di un triennio. Il presidente del Consiglio dovrebbe far suo quell’impegno e al tempo stesso varare, con la legge di Stabilità, una immediata riduzione delle tasse della medesima entità. Una riduzione-choc della pressione fiscale di 30 miliardi (come Alberto Alesina ed io ripetiamo su queste colonne da un paio d’anni) ci porterebbe temporaneamente oltre il limite del 3% nel rapporto fra deficit e Pil. Ma se preceduta dalle riforme istituzionali e dall’approvazione definitiva degli interventi su lavoro e spese, è una proposta che a Bruxelles si può, e a mio parere si deve, portare. La strada più pericolosa è darsi mille giorni e nel frattempo aspettare, magari ricorrendo in ottobre ad un aumento mascherato della pressione fiscale per far quadrare i conti. Matteo Renzi deve aver chiaro che quella strada porterebbe lui al fallimento e l’Italia dritto ad un default sul debito pubblico.