Con la (vera) riforma può finire un’epoca

Emanuele Massagli – Libero

Il 19 settembre la Commissione Lavoro del Senato ha approvato il testo modificato del disegno di legge delega in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro. Appare scontato il passaggio a Palazzo Madama, meno quello alla Camera, dove Cesare Damiano, presidente della competente Commissione e portavoce dell’anima Pd contraria alla riforma, ha annunciato battaglia «senza se e senza ma».

La nuova versione del disegno di legge n. 1428 è differente dalla precedente in diversi passaggi. Non si tratta di modifiche sostanziali (in buona parte sono tentativi di dettaglio di principi di delega che rimangono ancora molto vaghi), eccetto che nel caso dell’articolo 4, quasi integralmente riscritto. Qui è formalizzato l’ormai noto «attacco diretto» all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Invero, più che di un assalto si dovrebbe parlare di aggiramento, non contenendo l’articolo 4 alcuna modifica alle norme sul licenziamento individuale, sebbene sia evidente a tutti l’intenzione degli estensori dell’emendamento che ha modificato il testo originario: superare la rigidità dell’articolo 18 ripensando interamente la disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La lettera b) dell’articolo 4, infatti, dispone per le nuove assunzioni il «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Si tratta di una formulazione molto più eloquente di quella precedente, che si limitava a prevedere l’introduzione «eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». Questa definizione apriva le porte al contratto di inserimento come proposto negli anni anche dallo stesso Damiano: uno, due o tre anni di prova «lunga» con la sola tutela economica in caso di licenziamento. Tutto il resto della vita lavorativa con la tradizionale copertura dell’articolo 18. Al contrario, la nuova lettera b) mira al superamento definitivo della reintegra in caso di licenziamento, di cui non godranno i nuovi assunti, che saranno invece coperti dalle cosiddette tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, ovvero un indennizzo economico proporzionale agli anni di dipendenza dall’impresa.

Si può discutere a lungo sull’opportunità politica, tecnico-giuridica, economica, ma anche sociale e valoriale di questo intervento; presentare i dati sul contenzioso che riguarda la materia (circa 17.000 cause di primo grado, 71.000 complessive); ricordare le ricerche economiche che dimostrano tanto l’inutilità quanto l’efficacia degli interventi sulla cosiddetta disciplina di protezione dell’impiego per incoraggiare l’occupazione. Teorizzare benaltristicamente il grande numero di ulteriori interventi che sarebbero necessari per modernizzare il diritto del lavoro; usare la comparazione con Germania o Regno Unito (i benchmark non sono mai scelti a caso) per confutare o avallare la logica sottostante al decreto. Si può fare tutto questo sempre rimanendo sulla superficie del passaggio storico che l’archiviazione dell’articolo 18 individua: il definitivo abbandono dei porti sicuri, delle definizioni certe in materia di lavoro conosciute nel Novecento.

Il dibattito sulla reintegra interessa più la politica e i sindacati che il Paese reale, quello che spera di trovarlo un lavoro prima ancora di studiare come difenderlo, quello che fatica perché il lavoro di tutti i giorni sia sempre più «suo» e non una parentesi alienata nella giornata, quello caratterizzato da quasi tre milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Per questa larga parte di Italia non esiste alcun articolo 18 da un bel pezzo, altro che dualismo insiders-outsiders. Il suo superamento è quindi un (tardivo) segnale di reale volontà di cambiamento, oltre i dogmatismi che ancora impregnano qualsiasi dibattito sui temi del lavoro. Si proceda allora.

Non si vive però di soli simboli: è necessario che dietro agli slogan che più interessano i media ci sia anche un disegno solido, cosciente e complessivo di riforma delle regole del lavoro in Italia. Un tentativo, quantomeno un’ipotesi, di lettura di un mercato del lavoro sempre più lontano dalle regole scritte sulla carta. È questo il contenuto degli altri cinque articoli della delega? Purtroppo no, ma di questo nessuno ne parla.