La vera rivoluzione delle riforme

Mario Deaglio – La Stampa

«Siete bravi e simpatici ma dovete fare le riforme». «Mi raccomando, fate le riforme». «Va tutto bene, ma avanti con le riforme». Banchieri centrali, esponenti economici europei, responsabili di centri di ricerca internazionali da tre anni ripe- tono come un «mantra» tibetano lo stesso ritornello. A questo coro sempre più nutrito si è aggiunto ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con due specificazioni importanti: le riforme devono essere «strutturali» e devono riguardare non solo l’Italia ma l’intera Europa. Che cosa sono, allora, queste «riforme» che l’Italia e il resto d’Europa dovrebbero fare?

L’espressione «fare le riforme» è una foglia di fico per nascondere qualcosa di apparentemente scandaloso e politicamente scomodissimo: un ridisegno della società attraverso una diversa distribuzione dei redditi e un ridisegno dell’economia attraverso una rapida variazione dell’importanza dei diversi settori produttivi e dell’occupazione a essi collegata. Si tratta, in sostanza, di incidere profondamente sia sulla domanda sia sull’offerta dei beni che si producono e si vendono.

Negli ultimi vent’anni, la distribuzione dei redditi si è ovunque spostata a sfavore del lavoro e a vantaggio di chi riceve redditi non di lavoro. In Germania, gli anziani che vivono di rendite e di altre entrate fisse non sono mai stati così ricchi e così in buona salute, come titolava domenica il tedesco «Welt am Sonntag». Negli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale gli utili delle società non sono mai stati cosi alti. Quasi mai così in alto, negli ultimi decenni è stato l’indice di Gini, una sorta di «termometro della diseguaglianza dei redditi» che ha visto l’Italia diventare uno dei più Paesi avanzati con maggior diseguaglianza dei redditi, di poco inferiore a quella degli Stati Uniti. Mentre però negli Stati Uniti la società è diseguale ma anche relativamente mobile e chi è povero può ragionevolmente pensare di migliorare sensibilmente la propria posizione economica, in Italia diventano sempre più rigide le barriere che rendono difficile questo miglioramento, come mostrano le norme per l’ingresso alle varie «libere» professioni. «Fare le riforme» significa quindi ridistribuire questi redditi. Le vie sono molteplici e tocca ai politici – e agli italiani che li eleggono – dire chiaramente quale e quanta ridistribuzione intendono accettare.

«Fare le riforme» implica, però non tanto – o non solo – la riduzione del carico fiscale, come spesso chiedono gli imprenditori ma anche la riduzione dei «costi esterni»: occorre ripensare radicalmente la burocrazia, organizzandola sulla base dei modelli, più semplici e più efficaci, di Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, e ridurre cosi i tempi delle decisioni pubbliche, essenziali nel modo di produzione postindustriale. Per far questo non basta, o non serve, «tagliare» lasciando invariata la struttura, come hanno fatto, in vario modo, i governi degli ultimi dieci anni. È necessario ridurre i livelli decisionali e, per conseguenza, imboccare una strada scomodissima che implica una riduzione sensibile nel numero dei pubblici dipendenti. A tale riduzione fa da contrappunto la riduzione delle occasioni di lavoro di numerose categorie professionali che, volenti o nolenti, vivono sulla complicazione delle procedure pubbliche. Un esempio fra i tanti: l’invio a domicilio, già dal 2015, della dichiarazione precompilata dei redditi toglierà lavoro ai Caaf e ai commercialisti. L'(eventuale) semplificazione della giustizia e l’accorciamento dei tempi potrebbe significare meno lavoro per le professioni legali. E l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare.

Dietro il generico «fare le riforme» si nasconde quindi una trasformazione rapida e non indolore della società. Alcuni Paesi – Portogallo, Grecia, Irlanda – non se la sono sentita di fare tutto da soli, pur avendo i loro governi maggioranze più solide dell’attuale governo italiano e hanno conferito alla cosiddetta «troika», composta di rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale, della Bce, della Commissione di Bruxelles, una sorta di giudizio di ultima istanza sulla adeguatezza e la sufficienza quantitativa delle manovre di risanamento. Hanno passato un paio d’anni d’inferno e sembrano oggi in via di guarigione. L’Italia non è nella loro condizione, ma, se vorrà conservare un ruolo rilevante nell’economia, nella politica, nella società globale, non potrà semplicemente evitare il problema. Che è già, tra l’altro, in maniera inconfessata, al centro del dibattito politico italiano.

Naturalmente il Paese potrebbe anche decidere di non far nulla. È già successo in un passato lontano: nel Cinquecento, il reddito per abitante degli italiani – stimato circa 1000 dollari dall’economista britannico Angus Maddison – era il più alto d’Europa. Tre secoli più tardi, era pressoché invariato ma largamente superato da Gran Bretagna, Francia e Germania: l’Italia era diventata una sorta di museo a cielo aperto che attirava turisti mentre i giovani bravi – architetti, artisti, scienziati – andavano a cercar lavoro all’estero. C’è qualcosa che suona famigliare in questo riferimento al passato? È perfettamente legittimo aspirare a ridiventare un museo. Sarebbe invece improprio, mentre si ridiventa un museo, credersi ancora un Paese all’avanguardia e rivendicare primati che non esistono più.