Il lavoro che verrà

Ettore Livini – La Repubblica

Banchiere del tempo. No, meglio nanomedico. Oppure, per amor di natura, agricoltore verticale. C’era una volta l’Italia dove i bambini sognavano di fare i calciatori, le ballerine o i pompieri. C’era una volta perché oggi quell’Italia e quel mondo non ci sono più. La rivoluzione digitale sta cambiando i lavori del futuro a ritmi più rapidi di un corso di laurea. Azzeccare quello giusto (nanomedici & C. sono scommesse del think-tank Fastfuture) è impresa da Mago Otelma. «Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo», riassume Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, la più importante banca dati dei laureati in Italia, consultata da enti ed imprese. A guidare il cambiamento – più che medici o avvocati – sono algoritmi, formule fisiche e nuvole informatiche. E l’America, locomotiva globale dell’hi-tech, ha deciso di giocare tutte le sue carte sui campioni dello Stem – l’acronimo sta per science, technology, engineering e math – le facoltà tecnico-scientifiche su cui la Casa Bianca ha concentrato i piani di incentivazione allo studio (con 2,6 miliardi di investimenti solo nel 2014) e dove le iscrizioni negli ultimi anni sono cresciute del 48%. Fabbriche di lavoro certo e ben remunerato, promette l’amministrazione Usa. Ma soprattutto il volano educativo grazie a cui gli States contano di mantenere la loro leadership tecnologica nei prossimi decenni.

L’era degli Stem
Le classifiche, in questo caso, rischiano di sviare. Buona parte delle professioni che creeranno più posti da oggi al 2022 – per l’invecchiamento e per la legge dei grandi numeri – sono legate alla salute. In testa alle graduatorie ufficiali del ministero del lavoro Usa ci sono gli infermieri per l’assistenza sanitaria a domicilio. Brillano pure fisioterapisti e consulenti genetici, esplode (+53%) la domanda per psicologi aziendali. E persino per i muratori (+43%), un omaggio alla concretezza della old economy , è previsto un inatteso revival. L’apparenza però inganna. E la scommessa della Casa Bianca guarda a un dato d’insieme ben più significativo: «Il 27% del totale dell’occupazione generata nei prossimi tre anni in America arriverà da discipline legate a scienza, tecnologia, ingegneria o matematica », come calcola una ricerca della Economic Modelling society. Competenze destinate a condizionare in modo pervasivo il lavoro di tutti, dagli infermieri in corsia fino ai carpentieri in cantiere. Il 47% dei posti di lavoro negli States – calcola una ricerca dell’Università di Oxford – è a rischio sostituzione con i computer. Cifra che in Europa (Fondazione Bruegel) sale al 50%. E la Stem-generation sarà il carburante che darà un colpo d’acceleratore decisivo per colmare questo gap. La rivoluzione è già iniziata e il boom delle iscrizioni è solo la punta dell’iceberg: i laureati tecnico-scientifici trovano lavoro in metà tempo rispetto agli studenti di altre discipline e guadagnano da subito in media 65mila dollari l’anno contro i 49mila degli altri corsi per il National Center for education statistics. Il tasso di crescita dell’occupazione nei loro settori è al 17% contro la media nazionale del 9,8%. L’80% dei laureati (dati Pew Research) dice di trovare lavori legati a filo doppio al corso di studi. E uno studente straniero su tre che sceglie di iscriversi a un corso di laurea Usa – grazie ai piani di attrazione di cervelli del governo – finisce inevitabilmente per occuparsi di scienza, tecnologia, ingegneria o matematica.

L’esperienza italiana
L’Italia, su questo fronte, viaggia con il freno a mano tirato ma non fa eccezione. I dati dicono che dalle nostre parti, quanto a professioni con un futuro, vale ancora la regola dell’”usato sicuro”: nel 2013, a cinque anni dalla laurea il 96,7% dei medici (dati Almalaurea) aveva un posto, come il 91,9% degli ingegneri e il 91% dei diplomati in economia. Classici del genere. Scontati come l’elenco delle Cenerentole: nella zona bassa della classifica arrancano geo-biologi e reduci da facoltà letterarie. Soldi e occupazione, visto che piove sempre sul bagnato, vanno a braccetto: un lustro dopo la tesi, un ingegnere guadagna 1.708 euro netti al mese in media, un medico 1.646 mentre chi ha in curriculum un cursus honorum umanista si deve accontentare di mille euro. I piccoli germogli Stem nel nostro Paese – dove resistono le molte baronie a prova di tecnologie e dove la disoccupazione giovanile è al 44% – si stanno però già confermando come promettenti fabbriche di lavoro. «Noi siamo in piena occupazione a un anno dalla laurea – assicura Marco Taisch, delegato del Rettore al Politecnico di Milano per il placement – Succede anche in settori come la computer science che sembravano passati di moda». Lo stesso vale per il Politecnico di Torino e per i corsi ad alto contenuto innovativo che stanno iniziando a spuntare lungo tutta la penisola.

Tra conoscenze e competenze
Il boom degli Stem e l’addio a postini, centralinisti, agricoltori e stenografi – le professioni a rischio estinzione per l’Us Labour of statistics – non significa in assoluto il trionfo dell’hi-tech e dei guru di Silicon Valley. Qualche Cassandra fuori dal coro sostiene che la spinta dell’amministrazione Obama sugli Stem rischia di inondare il mercato del lavoro di troppa offerta da qua a pochi anni. Molti economisti e accademici puntano invece il dito contro l’eccesso di specializzazione cui si sta arrivando. «Il problema – dice persino un neo-keynesiano come il Nobel Ned Phelps – è non aumentare indefinitivamente i laureati in discipline scientifiche». Padroneggiare algoritmi e data-flow non è tutto. Anzi. In un mondo dove le tecnologie nascono e muoiono alla velocità della luce «la tecnica va puntellata con le soft skills umanistiche e figlie di storia, filosofia e letteratura necessarie a sviluppare lo spirito critico e di iniziativa necessari per gestire il cambiamento», aggiunge l’economista. «Oltre alle conoscenze, oggi servono le competenze», ammette anche Cammelli. Capacità di far gruppo, di avere la mente aperta alla formazione continua e al cambiamento. Più che una virtù, una necessità. La generazione Erasmus sa benissimo che il lavoro del futuro, per sfuggire all’etichetta facile di “bamboccioni” un po’ “choosy” (copyright Elsa Fornero), devi inseguirlo all’estero o nelle aree dove si fa davvero innovazione. Londra ha importato un milione di abitanti in dieci anni. Il 50% del business alla Silicon Valley è generato da gente che non è nata e cresciuta lì. Ben 94mila giovani italiani – il doppio dell’anno precedente – ha lasciato nel 2013 il Belpaese per cercare un posto oltrefrontiera. Le università hi-tech si sono già adeguate. Inserendo accanto alle lezioni 100% Stem più tesine e lavori di gruppo per sviluppare i soft skills degli studenti. E potenziando i master dove ormai il 50% dei partecipanti sono persone che già lavorano e devono aggiornare conoscenze scientifiche invecchiate nel giro di una breve stagione. La realtà, oggi, obbliga a un sano esercizio di pragmatismo. Altro che fantasticare di fare i calciatori o i pompieri. L’unico sogno consentito ancora oggi, a non voler davvero tenere i piedi per terra, è quello di fare gli astronauti. Il decollo dei voli orbitali privati – altra disciplina molto Stem – è già una realtà, assicura il dipartimento al lavoro Usa. Il lavoro c’è. Basta cercarlo nello spazio.