Il dilemma di Draghi
Stefano Micossi – Affari & Finanza
La Bce non può più rinviare la decisione di acquistare titoli a lungo termine dell’eurozona in gran quantità ( quantitative easing, o QE): perché l’inflazione mensile e annua in dicembre è diventata negativa, sta sotto l’1 per cento da ottobre 2013 ed è prevista scendere ancora; perché il suo bilancio si sta sgonfiando, invece di aumentare; perché il nuovo strumento di rifinanziamento delle banche ‘mirato’ alle imprese, il Tltro, non sta funzionando per la scarsa domanda di prestiti dall’economia.
La credibilità della Banca Centrale Europea è a rischio, le misure usuali delle attese d’inflazione nei principali paesi dell’eurozona puntano a zero. Se vuol esser creduta sull’obiettivo d’inflazione – il due o ‘vicino al’ due per cento – la Bce dovrà indicare un programma di acquisti adeguato. Può adottare un programma mensile open-ended – dunque potenzialmente illimitato – legato alla realizzazione dell’obiettivo d’inflazione, oppure continuare gli interventi fino al raggiungimento del target sulla dimensione del bilancio della Bce (i due ‘trilioni’ già decisi dal Consiglio direttivo). Se gli acquisti si fermassero a 500 miliardi, come qualcuno lascia trapelare, la credibilità dell’annuncio sarebbe in questione. Data la dimensione limitata del mercato delle obbligazioni private, inevitabilmente, gli acquisti dovranno includere ammontari consistenti di titoli pubblici.
Nell’intenso fuoco di sbarramento in atto contro il QE, molte voci ne negano l’efficacia, ma i loro argomenti non sono convincenti. L’intervento sosterrà l’attività economica sia spingendo al ribasso il cambio dell’euro (come già sta avvenendo per l’effetto annuncio, finalmente!), sia facilitando la riduzione dell’eccesso di debito (deleveraging) pubblico e privato attraverso la riduzione dei tassi a lunga – che a tal fine devono restare per molto tempo al di sotto del tasso di crescita nominale del pil. La discesa dei tassi sui debiti pubblici trascinerà al ribasso anche quelli sulle obbligazioni e i prestiti privati, dato che nelle condizioni attuali di segmentazione dei mercati finanziari il costo dei primi agisce come un ‘pavimento’ per quello dei secondi. Gli effetti espansivi saranno più intensi se finalmente la Commissione allenterà i vincoli del patto di stabilità per gli investimenti, come già indica la nuova comunicazione sulla ‘flessibilità’ pubblicata martedì scorso.
Due questioni cruciali da risolvere riguardano la scelta sui titoli da acquistare e la gestione dei rischi per il bilancio della Bce. Ogni acquisto di titoli da parte della banca centrale modifica anche lo spread tra i rendimenti dei titoli dei paesi dell’eurozona. Il processo di convergenza degli spread sarebbe più rapido se la Bce concentrasse i suoi acquisti sui titoli dei paesi più indebitati, ma avverrebbe anche se la Bce comperasse solo Bund tedeschi. Infatti, la nuova liquidità finirebbe comunque per affluire sul mercato dei titoli più rischiosi, che garantiscono rendimenti più elevati. Nella visione della Bundesbank, però, la riduzione degli spread è fonte di azzardo morale, attenuando l’incentivo a correggere gli squilibri di bilancio nei paesi spendaccioni; ma una politica monetaria espansiva che non modifica i prezzi relativi delle attività finanziarie semplicemente non esiste.
La soluzione più lineare e meno controversa per la Bce è di acquistare i titoli dei paesi dell’eurozona in proporzione data da una chiave non controversa, come le quote dei paesi membri nel capitale della Bce o nel pil aggregato dell’Eurozona. È importante che allo stesso tempo i paesi indebitati mantengano l’acceleratore pigiato sulle riforme economiche, che resta il miglior viatico per la capacità di Draghi di convincere i colleghi del Consiglio direttivo a espandere. La Bce ha gli strumenti per aumentare la pressione su chi eventualmente perdesse la direzione (Grecia post-elezioni inclusa).
La seconda questione cruciale è come gestire possibile perdite della Bce sul suo portafoglio titoli. Nel caso di una banca centrale nazionale, il rischio degli interventi di mercato aperto ricade automaticamente sul bilancio pubblico, che è il garante ultimo dell’offerta di moneta e delle passività della banca centrale. Nel caso della Bce, invece, un back-stop fiscale non esiste; peggio, se la Bce assumesse tali perdite a seguito dell’insolvenza di un debitore sovrano dell’eurozona, ciò configurerebbe secondo alcuni una violazione del divieto di bail out previsto dall’articolo 125 del Trattato di Lisbona.
La soluzione logica sarebbe di guardare per questa funzione di back-stop al bilancio del Meccanismo europeo di stabilità, che già costituisce il nucleo di una futura capacità fiscale dell’eurozona, ma per i tedeschi per ora questa è una bestemmia. Se ogni stato garantisse le perdite sui suoi titoli, l’effetto sui tassi dei paesi indebitati potrebbe attenuarsi fino a scomparire; superare il problema facendo acquistare da ogni banca centrale i titoli del suo paese equivarrebbe ad annunciare la fine della politica monetaria comune. In pratica, il problema è meno intrattabile di quel che sembra: con ogni probabilità all’inizio la Bce registrerà consistenti guadagni in conto capitale sui titoli acquistati, man mano che i tassi scenderanno. Questi guadagni costituiranno un cuscinetto più che adeguato per coprire eventuali perdite su alcuni dei titoli in portafoglio. In effetti, già in occasione della ristrutturazione del debito greco, nell’estate del 2011, la Bce compensò le sue perdite con guadagni realizzati in precedenza.