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Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Salvatore Zecchini – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano, più a torto che a ragione, sembrava aver perduto agli occhi dei governanti e dell’opinione pubblica gran parte di virulenza ed attenzione. Fino a qualche giorno fa, se se ne parlava, era per la questione degli “esodati”, per i quali si cerca di trovare un avvicinamento alla pensione che costi poco alle casse dello Stato. Improvvisamente, dal 30 aprile la situazione è cambiata con la dichiarazione di incostituzionalità del congelamento dell’adeguamento all’inflazione dei trattamenti medi ed alti. Il Governo, dopo aver dichiarato col DEF e successivamente che non era intenzionato a intervenire, ora è costretto a reperire circa 17 miliardi (1% PIL al lordo della tassazione di ritorno) per coprire il nuovo buco di bilancio. Non si tratta soltanto di corrispondere quanto non versato, ma di evitare che negli anni avvenire la curva di proiezione della spesa pensionistica in rapporto al PIL si innalzi, compromettendo gli sforzi fatti per abbassarla nell’ultimo decennio. Visto che un nuovo aumento del peso del fisco è insostenibile, è quindi probabile che sarà necessaria una nuova riforma di sistema con tagli di spesa.
Perché i conti della previdenza non erano più visti come un problema tale da richiedere nuove, tempestive riforme? A parte le considerazioni di opportunità elettorale, la risposta sta negli esercizi di simulazione della spesa pensionistica fino al 2060 effettuati dalla Ragioneria Generale e confermati nel DEF 2015. Ne risulta che in rapporto al PIL la spesa, dopo aver raggiunto l’apice del 15,9% nel 2014, dovrebbe scendere al 15,8% quest’anno e continuare a flettere fino al 15,4% del 2019. Queste previsioni di sostenibilità del sistema non sembravano del tutto irrealistiche, pur scontando alcune ipotesi su cui è ragionevole nutrire dubbi. In particolare, una crescita reale di medio periodo del 1,5% annuo, un tasso d’occupazione di circa 10 punti percentuali più elevato che nel 2010, e un tasso d’incremento della produttività dell’1,5% annuo.
Sempre prima della sentenza della Consulta, la RGS riteneva che il rapporto Spesa pensionistica/PIL avrebbe continuato a scendere fino al 15% a circa il 2030 a causa dell’innalzamento dell’età minima di accesso alla pensione e dell’applicazione parziale del metodo contributivo, per poi risalire fino al 15,5% nel 2044 per effetto dell’aumento del rapporto pensionati/occupati, e successivamente ridiscendere fino al 13,7% nel 2060 a seguito dell’estesa applicazione del sistema contributivo e della riduzione del rapporto pensionati/occupati. Questi risultati ovviamente sono attesi se le regole del sistema rimangono stabili nel tempo, ma è evidente che il sistema non è stabile, perché è sotto il costante assedio di una massa di lavoratori che vedono come scopo principale della loro vita lavorativa quello di andare in pensione a spese di quanti restano a lavorare. Un chiaro esempio di parassitismo sociale!
Ma questo non è il solo motivo per preoccuparsi degli effetti del sistema attuale, perché ve ne sono altri ben più pressanti:
  1. L’impatto negativo del sistema pensionistico attuale sulla capacità di crescita dell’economia;
  2. le iniquità intragenerazionali ed intergenerazionali;
  3. il disincentivo implicito nel sistema nei confronti della previdenza complementare e l’alimentare distorsioni nella società verso un modello tendente all’inattività.
Ciascuno di questi punti richiede un breve commento per concludere con l’indicazione di qualche orientamento a cui dovrebbe ispirarsi il governante saggio.
Una spesa pensionistica nell’ordine del 15,5% del PIL può apparire sostenibile, ma è superiore di circa 3,5 punti alla media dell’eurozona, e lo è ancor più se il confronto è fatto con le economie più dinamiche dell’area OCSE. L’incidenza sul PIL risulta di circa 1 punto percentuale superiore a quella della Francia, di oltre 4 punti alla Germania e di 9 punti al UK. Questa forte incidenza si riflette in un prelievo per contributi sulle remunerazioni che dovrebbero andare ai lavoratori pari al 33%, mentre la media OCSE è del 19,6%. Questa imposizione inoltre grava per 23,8 punti percentuali sul datore di lavoro, appesantendo il costo del lavoro e scoraggiando la domanda di lavoro, con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione e sulla propensione ad investire nel Paese.
Appare altresì sproporzionato che questa spesa assorba attualmente il 34% della spesa pubblica primaria, percentuale che dovrebbe salire al 35,6% nel 2019.
Nondimeno non è solo la sproporzione, ma le iniquità del sistema che lo dovrebbero rendere poco accettabile ai lavoratori delle ultime generazioni. Mentre costoro si vedono sottrarre il 33% del loro reddito per sostenere i pensionati, il loro titolo alla pensione rappresentato dal tasso di sostituzione netto è destinato a scendere, ad esempio per un lavoratore dipendente, dall’83,2% nel 2010 al 77,3% nel 2020 e al 71,4 nel 2040. Queste percentuali peraltro nascondono la pochezza degli importi risultanti in valore assoluto, dato che esse si applicano a retribuzioni che tendono a crescere poco, che si collocano su livelli inferiori mediamente a quelli dei maggiori paesi UE, e che non si riferiscono a carriere di lavoro spezzettate. Le attese sono peggiori per chi lavora ad intermittenza, in quanto non può sperare di ricevere una pensione consistente nella vecchiaia, a meno che accetti di lavorare più a lungo o abbia goduto di retribuzioni medio-alte.
L’iniquità intergenerazionale del sistema pensionistico attuale si può cogliere anche sotto un altro profilo. Secondo le stime dell’OCSE, in media la ricchezza pensionistica netta data dal cumulo delle pensioni riferite all’arco di vita al netto delle imposte sulle pensioni stesse supera il salario medio annuale lordo di 9,5 volte per gli uomini e di 10,8 volte per le donne (contro 8,1 e 9,3 volte rispettivamente nella media OCSE). Questa ricchezza viene coperta dai contributi versati annualmente da chi resta al lavoro, oltre che dalle imposte.
L’iniquità non è soltanto intergenerazionale ma anche intragenerazionale. Tra i pensionati attuali sussiste infatti un’ampia differenziazione quanto al rapporto tra l’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa e il totale dei redditi da pensione durante la vita residua. Per una fascia abbastanza ampia, l’ammontare del trattamenti supera ampiamente il montante contributivo, sempre che si applichi interamente il sistema contributivo in vigore per il calcolo delle pensioni. Ne sono esempi i trattamenti accordati ai rappresentanti politici, ai ferrovieri e ad alcune categorie con fondi speciali. Questo squilibrio, contrariamente a un’opinione diffusa, non è impossibile da misurare, considerato che i dati sono disponibili dagli anni 90, mentre per i due decenni precedenti si conoscono le aliquote contributive e si possono ricostruire le retribuzioni a cui andavano applicate.
Il disincentivo al risparmio previdenziale complementare è un altro degli effetti deplorevoli del sistema. Per quanti possono contare su uno stabile lavoro remunerato mediamente, dato l’alto tasso di sostituzione, l’incentivo a risparmiare per crearsi una previdenza complementare si riduce significativamente. Solo con l’abbassamento del tasso di sostituzione e con il lavoro precario, o le retribuzioni relativamente basse l’incentivo aumenta, ma questi sono casi in cui le possibilità di risparmio sono ridotte. Non deve quindi sorprendere che solo 6,2 milioni di lavoratori su 22,2 milioni aderiscono alla previdenza complementare. Questa è anche penalizzata dal Quantitative Easing della BCE, che ha polverizzato i rendimenti obbligazionari, e dall’incremento della tassazione sui rendimenti.
Su questo sfondo è evidente che il Governo non ha scelta migliore che intervenire con l’ennesima riforma al fine di smorzare la dinamica della spesa pensionistica in rapporto al PIL e al totale della spesa pubblica, ridurre le iniquità e favorire la previdenza complementare. La motivazione principale è che per stimolare la crescita occorre anche ridurre la tassazione e potenziare le risorse per gli investimenti. In quest’azione il vincolo da tenere presente è la ricerca di una maggiore equità sia intergenerazionale che intragenerazionale.
Traducendo questi principi in poche parole, significa ridurre al tempo stesso i trattamenti a tutti i pensionati, facendo alcune distinzioni, e i prelievi contributivi per lasciare più risorse per investimenti, salari e future generazioni.
Nella riduzione dei trattamenti, non appare equo tendere a perequare tagliando genericamente tutte le pensioni medie ed alte. La pensione, infatti, rappresenta, anche per la Consulta, reddito differito del lavoratore, ovvero risparmio forzoso accumulato per fini previdenziali a copertura di consumi differiti al tempo in cui il lavoratore rimane inattivo per motivi di età o altra valida inabilità. Manovre di redistribuzione fatte con le risorse pensionistiche e non con le imposte sono la negazione del principio di previdenza. Si ritiene, invece, che il Governo debba usare come metro dei tagli la differenza esistente tra il montante dei contributi versati dal soggetto e quello delle pensioni che gli vengono corrisposte nell’intero arco della vita residua. È proprio su coloro che godono maggiormente di questa eccedenza che dovrebbero incidere i tagli che sono necessari per finanziare una nuova azione di stimolo alla crescita del Paese.
Le fabbriche delle pensioni

Le fabbriche delle pensioni

Giuseppe Guttadauro – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

L’obiettivo del mio intervento è di stimolare una riflessione sulla situazione del sistema previdenziale italiano ripercorrendo brevemente le tappe principali che hanno portato alla riforma del 2011, conosciuta come riforma Fornero e cercherò di farlo analizzando in modo particolare quanto di buono sia stato fatto, al contrario del pensiero di molti, per mettere il sistema in sicurezza ma quanto ancora si debba fare.
Attualmente siamo in un sistema a ripartizione nel quale se le entrate contributive non sono sufficienti, la spesa pensionistica è garantita con trasferimenti dalla fiscalità generale. Nel 2013 l’Inps ha evidenziato un buco di 25 miliardi di euro nonostante la “gallina dalle uova d’oro” rappresentata dalla Gestione Separata dove il numero dei pensionati è di gran lunga inferiore ai lavoratori attivi e nel 2014 le cose non sono andate meglio per la perdita di quasi un milione di posizioni attive. E’ del tutto evidente allora che la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare attraverso una seria politica di incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e di conseguenza delle entrate contributive..
Le riforme che si sono succedute a partire dal 1992 hanno messo mano a un sistema che per decenni non ha saputo controllare la spesa pensionistica che è cresciuta anno dopo anno sino a raggiungere nel 2014 il 16,3% del PIL. Abbiamo persone che percepiscono la pensione da quando avevano 40 anni di età, abbiamo importi di pensione completamente slegati dai contributi realmente versati, abbiamo avuto fino a pochi anni fa gestioni pensionistiche che garantivano trattamenti di favore a molte categorie di lavoratori dipendenti generando pensionati di serie A e di serie B. Tutto questo è stato pagato a caro prezzo con interventi sempre più restrittivi introdotti dalle principali riforme, Amato, Dini e Maroni mentre il saldo, probabilmente, è stato versato con la recente riforma Fornero definitivamente approvata con la legge 22 dicembre 2011 n. 204. Una riforma approvata a larga maggioranza dalle forze politiche che sostenevano il governo Monti e con il sostegno delle parti sociali, una riforma resa necessaria per dare un’immagine di credibilità e di tenuta del nostro Paese all’interno della U.E.
Suona davvero strano che da più parti (Governo, Parlamento, Sindacati) vengono annunci o si assumono iniziative per attuare una sorta di “contro riforma” in modo particolare per quanto riguarda l’età pensionabile le cui regole sono considerate troppo elevate e rigide, suona strano perché queste iniziative sono portate avanti proprio dagli stessi partiti che qualche anno prima avevano approvato la riforma, tutto questo non sembra proprio una garanzia di serietà. In ogni caso qualche giorno fa un risultato devastante per le casse dello Stato e, di conseguenza per le tasche degli italiani, è stato raggiunto: una sentenza della Consulta che ha sbloccato l’adeguamento al costo della vita per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo (1.443,00 euro mensili) nel periodo 2012 – 2013, dichiarando incostituzionale il blocco attuato dalla riforma Fornero..
Secondo un’indagine svolta dall’Ordine dei dottori commercialisti di Napoli il risultato di questa sentenza farà sì che un pensionato con 20 mila euro lordi di pensione, si vedrà restituire circa 1.134 euro lordi, con 50 mila euro di pensione il rimborso ammonterà a circa 2.518 euro lordi e infine chi riceve 100 mila euro annui di pensione avrà diritto a una restituzione di circa 4.700 euro lordi. Nulla è invece dovuto al pensionato che percepisce una pensione lorda sino a 19 mila euro annui. L’onere a carico dello Stato è stimato intorno ai cinque miliardi di euro! E’ doveroso anche ricordare che la mancata rivalutazione delle pensioni superiori a 1.450,00 euro mensili ha permesso di evitare il blocco per le più povere e che nel 2007 il governo Prodi attuò il blocco delle rivalutazioni per le pensioni superiori a 3.700,00 euro mensili, senza che la Consulta avesse da obiettare.
Nel 2011, da un punto di vista finanziario, la situazione dell’Italia puntava pericolosamente in direzione della Grecia ed è stato anche grazie alla riforma Fornero che fu possibile evitare il default.
Adesso non è possibile tornare indietro, al di là di tutti gli slogan elettorali non possiamo non fare i conti con una aspettativa di vita media che nel 2014 è stata di 79,40 anni per gli uomini e di 84,82 per le donne e con un debito pubblico tra i più alti in Europa che ha toccato lo scorso anni i 2.167 miliardi, il 132,50% del PIL!
Nel 2007, prima dell’inizio della crisi, l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL era di circa il 14%, adesso siamo al 16,3% ma senza quella riforma saremmo ad un livello inaccettabile del 18%, e nel 2060 scenderà al 13,9%.
Qualunque azienda per risanare i conti può agire sul fronte delle entrate e/o delle uscite, la riforma Fornero ha scelto di agire su entrambi, introducendo per tutti il sistema di calcolo contributivo dal 2012 e una novità assoluta per il nostro sistema previdenziale: l’adeguamento dell’età pensionabile e dei coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione alle aspettative della speranza di vita. In futuro il traguardo della pensione sarà sempre più lontano e l’importo della pensione sempre più basso.
Per fare un esempio concreto, nel 2009 a fronte di un montante contributivo pari a 200.000,00 euro maturava una pensione annua lorda di 12.272,00 euro, oggi con lo stesso montante la pensione sarebbe pari a 10.870,00 euro annui, circa il 12% in meno. A quanto ammonterà l’assegno tra 20 anni?
Dobbiamo essere tutti consapevoli che in futuro la pensione dei nostri figli non potrà più essere quella dei nostri genitori.
Una proposta interessante potrebbe sicuramente essere quella di agire sull’età pensionabile che già oggi è per molti giovani fissata in 70 anni e 3 mesi, introducendo una flessibilità in uscita fissando un’età minima e lasciando al lavoratore la possibilità di decidere quando andare in pensione. Il maggior numero di anni pensionabili sarebbe compensato con una riduzione proporzionale del relativo coefficiente di trasformazione senza dover cercare le coperture finanziarie. Una sorta di ritorno alla riforma Dini che appunto questo meccanismo già prevedeva prima che la riforma Maroni lo abolisse.
In ultimo, lo Stato dovrebbe garantire una corretta informazione previdenziale al cittadino, garantendo il decollo definitivo della previdenza complementare, perché essere informati significa avere consapevolezza e la consapevolezza porta alla ricerca di una soluzione.
E desidero chiudere questo intervento facendo qualche riflessione anche sulla previdenza complementare diventata indispensabile per poter garantire un adeguato tenore di vita in età pensionabile, soprattutto dopo l’introduzione del sistema di calcolo contributivo.
In Europa la media di chi ha una pensione complementare è di circa il 91%, in Italia è di circa il 28% (poco più di 6,5 milioni), un differenziale troppo elevato sul quale è necessario riflettere per capire quali errori sono stati fatti.
Un dato su tutti è l’età media degli aderenti: i lavoratori con meno di 35 anni di età rappresentano solo il 18%, il 25% ha un’età compresa tra 36 e 44 anni e oltre il 30% sono quelli tra i 54 e i 64 anni. Un basso numero di adesioni e con età vicine al pensionamento, qualcosa non funziona. Forse l’incentivo fiscale non è la motivazione principale per chi avrebbe invece più bisogno di pensare al proprio futuro pensionistico e non dispone delle risorse necessarie. E chiudo con una provocazione: il risparmio previdenziale in gestione ammonta a circa 126,3 miliardi e la deduzione dei contributi non consente al fisco di incassare ogni anno circa 3,5 miliardi di imposte. Perché non provare a pensare di abolire la deduzione dei contributi e utilizzare questa cifra come incentivo pubblico per i giovani, magari per i primi anni di adesione, che decidono di aderire alla previdenza complementare? Forse che questo potrebbe contribuire al decollo della previdenza complementare per chi ne ha veramente bisogno?
Verso un sistema previdenziale europeo

Verso un sistema previdenziale europeo

Giuseppe Pennisi – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo specialmente in conto le esigenze delle giovani generazioni? Il tema, centrale a questo seminario, è anche una chiave per la sopravvivenza dell’unione monetaria e della stessa Unione Europea (UE). Infatti, l’unione monetaria è stata concepita come un percorso a tappe obbligate per giungere a quella che gli economisti chiamano un’‘area valutaria ottimale’, caratterizzata da effettiva mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), oltre che di beni e servizi. Anche ove si superassero difficoltà linguiste e culturali, tale effettiva mobilità è impedita, per il lavoro, – ora che si sono superate quelli attinenti strettamente al diritto del lavoro– a sistemi previdenziali profondamente differenti in termini di accesso, livello, ed amministrazioni delle prestazioni (per non citare che gli aspetti più salienti). Sono il frutto di percorsi storici e sistemi di sicurezza sociale molto diversi. Esiste è vero una rete (o meglio una ragnatela od un labirinto) di accordi bilaterali per le pensioni ‘statali’ o comunque pubbliche ed una direttiva europea per facilitarne in attuazione. Tuttavia se un lavoratore dell’UE in caso di difficoltà di occupazione , per la sua professione. in uno Stato dell’UE e richiesta, invece, n altro, si spostasse dove c’è domanda (come avviene , ad esempio, negli Stati Uniti) subirebbe molto probabilmente una perdita secca (ed anche forte) in termini di tutela previdenziale. Quindi, la sua mobilità verrebbe frenata. Con un costo, in termini di occupazione e reddito per l’individuo e di produttività, per l’intera UE.
Come uscirne? Da circa dodici anni , la strada è stata tracciata in una conferenza internazionale, organizzata dalla Banca mondiale e dall’istituto di previdenza sociale svedese (nonché con folta ed attiva partecipazione di esperti italiani), e tenuta nell’isola di Sandhamn, nell’arcipelago baltico a circa un’ora di navigazione da Stoccolma.
Il percorso è quello di una graduale convergenza dei vari Stati dell’UE verso quello che, in gergo tecnico viene chiamato un sistema Notional Defined Contribution (NDC), in effetti un sistema contributivo figurativo, modellato su quelli messi in atto da Italia e Svezia, quasi contemporaneamente, pur se distintamente (e senza consultazioni o coordinamento) nella primavera del 1995. E da allora adottato gradualmente da oltre una ventina di Stati, tra cui gran parte dei nuovi aderenti all’UE.
Il sistema NDC può essere il veicolo per dare uno zoccolo duro comune alla previdenza europea tramite la graduale armonizzazione dei sistemi vigenti nei vari Stati (alcuni Stati, ad esempio la Francia, sono particolarmente ostili al cambiamento). Ma non può compiere miracoli: se l’economia reale non torna a tassi di crescita soddisfacenti (almeno a quelli degli Anni Ottanta) e se i mercati di lavoro non forniscono agli europei sbocchi occupazionali continuativi e ben remunerati, le giovani e le nuove generazioni avranno sempre le prospettive di trattamenti previdenziali bassi e di cui potranno fruire solamente in età molto avanzata. E’difficile stimare quali saranno i livelli, anche perché dipendono dai criteri attuariali adottati. Ad esempio, uno studio d’impatto qualitativo condotto per conto della Commissione Europea ha prodotto nel 2013 ben 7.700 scenari possibili, successivamente ridotti a 18 (diminuendo le variabili attuariali) al fine di disporre di uno strumento utile per la formulazioni di politiche. In questo secondo (e ridotto) studio di impatto solamente la Svezia e la Norvegia avevano sistemi sostenibili . Ci si approssimava molto l’Olanda, ma anche Stati che sembravano avere sistemi ben equilibrati (come il Regno Unito, la Repubblica Federale Tedesca, l’Irlanda e le Francia) esponevano disavanzi crescenti delle loro previdenze pubbliche nel medio e lungo periodo. Preoccupante il quadro degli Stati mediterranei, anche dove è in vigore un sistema NDC (come in Italia) perché lunghe fasi di recessioni e stagnazione incidono fortemente (in senso negativo) sui conti previdenziali.
In Italia, come esaminato da chi mi ha preceduto, sarebbe errato non partire dal complesso di riforme già in atto per vedere come meglio tararle alle esigenze dei giovani. I suggerimenti e le proposte non mancano. Ne sono state presentate organiche, nel 2011, dal Center for Research on Pension and Welfare Policies (CeRP) del Collegio Carlo Alberto dell’Università di Torino. Il documento prende l’avvio dalla situazione immediata delle preoccupazioni (anche europee) per la finanza pubblica italiana e ricorda che la riforma del 1995 non sarà completata, a normativa vigente, prima del 2050.
Tali misure possono essere anche l’avvio di un riequilibrio intergenerazione. Da un lato, quanto minore è il fardello totale tanto minore può esserlo per chi in un sistema “a ripartizione” è chiamato a portarlo. Da un altro, con pochi ritocchi alle proposte CeRP si può fare molta strada in materia di equità tra generazioni.
In primo luogo, dopo una fase di riforme, occorrono regole che siano immodificabili per i prossimi 15-20 anni in modo da dare un buon grado certezza a tutti – elemento essenziale per programmare il proprio futuro (programmare la terza età è il principale “diritto” di tutti); ciò può, anzi deve, essere blindato nella legge. In secondo luogo, le regole della previdenza pubblica devono essere uguali per tutti dato che il passato ci insegna che nell’eccessiva differenziazione delle regole si annidano privilegi e ingiustizie. Infine, per il buon funzionamento delle riforme serve l’informazione. È essenziale che l’Inps (e gli altri enti previdenziali) inviino rendiconti periodici ai cittadini in cui siano riportati, per ciascuna posizione previdenziale, la quota di pensione giustificata – in base a criteri attuariali – dalla contribuzione previdenziale effettuata lungo la vita lavorativa e la quota eccedente tale misura. Quest’ultima parte evidenzia infatti quello che può essere considerato il “contributo” della collettività (incluse le generazioni future) alla loro pensione individuale.
Tuttavia, il messaggio principali delle maggiori organizzazioni internazionali ed anche del CeRP è che , pure basate sullo NDC, le pensioni statali o comunque pubbliche solo solamente una promessa che non potrà essere soddisfatta se il quadro economico non migliora in misura significativo , sempre in balia di Governi e Parlamenti che guardano a riforme delle pensioni anche (ove non principalmente) per ‘fare cassa’.
Tale promessa, alle prese con un costante ‘rischio politico’, deve essere affiancata da fondi pensione anche essi gradualmente europei, soggetti sì al ‘rischio finanziario’ ma se sufficienti grandi e diversificati in grado di minimizzarlo, Cosa che non possono di fare i 700 lillipuziani fondi pensione nostrani, tra quelli di ‘vecchia’ e quelli di nuova generazione. Per di più, tali fondi andrebbero incoraggiati fiscalmente non penalizzati (come si è fatto di recente) per essere in linea con standard, criteri e direttive europea (una seconda direttiva europea sulla previdenza complementare è in avanzata fase di preparazione).
L’Italia è stato uno dei primi due Stati a mettere in atto un sistema previdenziale NDC. Ha l’opportunità di avere un ruolo importante nella costruzione di un sistema previdenziale NDC europeo se effettua i correttivi necessari per incoraggiare la previdenza privata.
Ovviamente, tenendo, come avviene nel resto del mondo, i conti previdenziali, pubblici o privati, da spese assistenziali per anziani non capienti- che per loro natura devono essere a carico della collettività non di contribuisce alla previdenza per la tarda età.
Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Davide Giacalone – Libero

Chi si contenta gode, ma chi s’illude implode. È stato accolto e rilanciato come positivo un pessimo giudizio di Standard&Poor’s. L’agenzia di rating conferma che l’Italia resta a un solo gradino dalla spazzatura, ci basta scendere un pelo sotto il confermato BBB­, cui siamo stati declassati all’inizio dell’anno, perché i titoli del nostro debito pubblico sprofondino all’inferno della non negoziabilità. Ed è stato festeggiato come promettente l’outlook, ovvero la previsione, “stabile”. Come se la stabilità di quel giudizio fosse l’opposto dell’instabilità, quindi di una condizione precaria. È vero il contrario: prevedono che noi si resti esattamente dove ci troviamo, senza peggiorare (cadendo nel baratro), ma anche senza migliorare. Mi è ignoto cosa ci sia da festeggiare.

Siamo stati collocati sul ciglio del burrone, progressivamente degradando il giudizio sulla nostra affidabilità, quando gli spread crescevano all’inverosimile. Considerai quella valutazione ingiusta e troppo punitiva, perché il divaricarsi dei tassi d’interesse, relativi ai debiti pubblici, non andava attribuito a una nostra colpa, ma ai difetti strutturali dell’euro, all’incompiutezza istituzionale della moneta unica e all’inerzia della Banca centrale europea. Ma da allora a oggi le cose sono cambiate, la Bce ha preso ripetutamente (e con successo) l’iniziativa, tanto che, immutate tutte le altre condizioni, gli spread si sono molto ridotti (anche se il nostro rimane costantemente e negativamente più alto di quello spagnolo). Perché, allora, siamo considerati ancora sul ciglio del burrone?

Perché tutto quel che di buono è accaduto non è dipeso da noi. La spesa pubblica per interessi si riduce, ma solo grazie alla Bce. Il prodotto interno lordo sarà positivo, quest’anno, dopo tre anni di recessione, ma la nostra crescita è inchiodata alla metà della media dell’eurozona (S&P prevede, per noi, un +0,4, quindi meno di quel che immagina il governo, sicché a una distanza ancora più marcata dagli altri europei). La svalutazione dell’euro è una buona cosa, per un Paese esportatore, ma, anche questo, un effetto di scelte fatte altrove. Per non dire del prezzo del petrolio. I tagli alla spesa pubblica restano una litania inconcludente.

La pressione fiscale cresce e crescerà, anche secondo le previsioni del governo, che a chiacchiere dice il contrario, quindi farà ancora da ostacolo alla ripresa. La Corte costituzionale ci ha messo anche la ciliegina, che poi è un cocomero capace di schiacciare la torta che il pasticcere governativo confezionò togliendo ai pensionati quel che la legge garantiva loro. Insomma, tutto quel che dentro al cortile italico fa titolare sul ritorno del segno positivo e sulla svolta economica cambia significato, visto da una prospettiva comparata: continuiamo a perdere competitività. Tutte cose che qui abbiamo avvertito per tempo, sebbene parlando al muro. In quanto alla filastrocca delle riforme, presentate come rivoluzioni, quel che ci viene detto è: fateci vedere come funzionano e quali benefici portano, altrimenti, sulla parola, restano solo parole.

Non cambio opinione con il cambio delle stagioni, né climatiche né politiche: le agenzie di rating restano l’incarnazione di un colossale conflitto d’interessi, e resta pericoloso far dipendere i mercati dal loro giudizio. Così come ribadisco che quello sull’Italia è ingeneroso. Ma osservo che quel che prima veniva letto come una bocciatura senza appello, adesso lo si legge come una promozione con lode e incoraggiamento. Non è chiaro quale sia il confine fra propaganda e illusione. Lo è, invece, il capovolgimento della realtà. Che porta male.

Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Giuseppe Pennisi – Formiche

Le pensioni scottano. Specialmente in questi giorni in cui il Consiglio dei Ministri deve decidere che risposta dare alla sentenza della Corte Costituzionale sulla perequazione, a quella sui contributi di solidarietà attesa per giugno ed alla marea di ricorsi che si annunciano. In passato, anche gli avversari, hanno riconosciuto al Presidente del Consiglio una grande capacità di trasformare momenti di crisi in opportunità. Adesso, la “crisi previdenziale” gli offre un’occasione d’oro. I suoi solerti collaboratori hanno certamente portato alla sua attenzione il saggio di Karen Anderson e Michael Kadeing “European Integration and Pension Policy Changes: Variable Patterms of Europeanization in Italy, the Netherlands and Belgium” uscito nelVol 563 N.2 (ppa.231-253) del British Journal of Infustrial Relations.

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Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Panorama 14 maggio 2015 (1)  Panorama 14 maggio 2015 (2)

 

 

 

 

Gianni Zorzi* – Panorama

La recente sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato lo stop all’adeguamento al costo della vita introdotto dal decreto Salva Italia del 2011 ha riacceso il dibattito sul tema della spesa pensionistica, e in particolare sulla sua sostenibilità. Nel nostro Paese, infatti, la spesa per le pensioni, anziché diminuire, è aumentata, e l’Italia è ora al primo posto tra i Paesi Ocse sia se si considera l’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica complessiva (il 31 ,9 per cento, quasi il doppio della media Ocse di 17,6) , sia in rappono al Pil (14,9 per cento, oltre una volta e mezza la media Ocse di 9,5). Nel 2050, inoltre, salirà al 15,7 per cento del Pil e il dato potrebbe peggiorare se vi saranno ancora ritardi nella crescita economica.

La situazione peggiore è quella dei giovani, che si ritrovano minori probabilità di garantirsi un reddito elevato e stabile, e hanno tuttora anche il problema della mobilità nell’Unione europea: se lavorano in Paesi diversi, ai fini pensionistici ancora non hanno strumenti agili di armonizzazione diversi da quelli farraginosi determinati dagli accordi bilaterali ora in essere. Le discontinuità nei rapporti di lavoro e nelle carriere lavorative, comunque, possono costituire il problema principale per i nostri giovani, e del resto si riverberano già oggi in un più basso livello di reddito e di patrimonio, ancor prima che di risparmio pensionistico. I dati pubblicati da Banca d’ltalia mostrano che gli under 35, un tempo depositari di oltre il 17 per cento della ricchezza finanziaria delle nostre famiglie (dati 1991), ora ne detengono solo il 4; nello stesso periodo la ricchezza concentrata tra gli over 65 è invece aumentata dal 21 al 34 per cento.

Se i giovani sono meno ricchi e hanno un reddito più incerto e basso, non stupisce che il tasso di adesione alla previdenza complementare in Italia sia molto più elevato per i soggetti vicini alla pensione: ai fondi e ai piani pensionistici è iscritto più di un terzo dei lavoratori over 55, mentre non vi partecipa nemmeno un quarto degli under 45. Le agevolazioni fiscali previste per le forme complementari, del resto, si fondano soprattutto sulla deducibilità ai fini Irpef dei contributi volontari entro il limite dei vecchi 10 milioni di lire annui. Tale sistema di incentivi, che comunque pesa sulla fiscalità generale per oltre 3,5 miliardi di euro all’anno, risulta più vantaggioso, paradossalmente, per chi della previdenza complementare avrebbe oggi meno bisogno, ossia i più ricchi e i più anziani dal punto di vista lavorativo (che sfruttano la deduzione ad aliquote Irpef più alte, e sono i più prossimi all’età pensionabile). Ci si chiede dunque se questo rneccanismo di deducibilità dei contributi volontari sia ade­ guato a incentivare e rendere conveniente l’adesione dei più giovani alla previdenza complementare, oppure se sia da ripensare, ed eventualmente sostituire in favore di altri interventi più utili alla produttività e alla crescita, come quello di un alleggerimento del cuneo fiscale.

Una ricerca del Centro studi Impresalavoro ha inoltre stimato che il recente aumento delle tasse sui guadagni della previdenza integrativa e sulla rivalutazione del Tfr deprimerà le «pensioni di scorta» di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un ulteriore importo compreso tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre la liquidazione del Tfr subirà un taglio aggiuntivo a fine carriera compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento. Non solo, dunque, i nostri giovani si ritrovano già oggi un carico generazionale pesante e un debito pensionistico elevato sulle loro spalle, ma il sistema fiscale continua a penalizzarli, e sembra pure che «le buone notizie» ­ quando arrivano ­ non li riguardino.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro (ha collaborato il professor Giuseppe Pennisi)

Una bomba pronta a scoppiare – Massimo Blasoni*

La “bomba previdenziale” che rischia di esplodere nei prossimi anni non è figlia soltanto della sentenza della Corte Costituzionale entrata a gamba tesa sulla “riforma Fornero”. Il nostro sistema pensionistico sconta infatti due grandi crisi, diverse e complementari, che imbrigliano l’Italia: quella demografica e quella economica. Siamo un Paese sempre più anziano e con una popolazione attiva in costante diminuzione, anche perché mancano serie politiche di sostegno alla natalità e alla famiglia (per le quali investiamo molto meno dei nostri partner europei: solo l’1,4 del Pil). Poi c’è la perdurante crisi economica. Senza un deciso cambio di rotta l’incidenza sul Pil della nostra spesa pensionistica è destinata a crescere: il numeratore della spesa per pensioni aumenterà lentamente ma inesorabilmente, mentre il denominatore del Pil rischia di vivere una nuova stagione di bassa crescita e di stagnazione. Così il sistema non è sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita economica oppure servirà una nuova, pesante, riforma della previdenza.

* presidente del centro studi ImpresaLavoro

Lavoriamo in troppo pochi e non ne usciremo coi “bonus”

Lavoriamo in troppo pochi e non ne usciremo coi “bonus”

Davide Giacalone – Libero

Il lavoro è uno scrigno, ma se ne parla così tanto da trasformarlo in un bidone. È energia (sprecata) per lo sviluppo, ma lo usiamo per sparare dati a casaccio. Quello che conta è uno solo: in Italia lavoriamo in troppo pochi. Meno che da noi solo in Grecia e Croazia. Così s’avviluppa il cane che si morde la coda: una crescita economica che si ferma alla metà della media europea non potrà mai generare nuova occupazione in misura superiore che altrove; una partecipazione al lavoro troppo bassa non potrà favorire la crescita di competitività e ricchezza. Smettiamola di prenderci in giro e guardiamo la fotografia del lavoro. Da lì si capisce cosa si può e si deve fare, per rompere l’incantesimo.

I disoccupati non sono quelli che non hanno lavoro, ma quelli che lo cercano. I non occupati che non cercano lavoro non li trovate in statistica. I nuovi contratti di lavoro non sono necessariamente nuovi posti di lavoro, come ieri ha chiarito Maurizio Belpietro, ma possono essere sostitutivi di altri, sicché non aumentare l’occupazione né diminuire la disoccupazione. I nuovi contratti a tempo indeterminato non sono posti fissi senza scadenza, perché la riforma ha cancellato questo concetto. Semmai sono tempi determinati senza limite temporale. I nuovi contratti sono favoriti dalla decontribuzione, il che comporta la contrazione di un debito futuro. Che giusto ci mancava, quel genere di lungimirante politica. Posti questi paletti, veniamo a quel che c’impala: la partecipazione al lavoro, per i cittadini fra i 20 e i 64 anni, è ferma al 59,9%. Lavora un italiano su tre. Peggio di noi solo Grecia (53,3) e Croazia (59,2). Ma noi siamo la seconda potenza industriale europea!

Combiniamo i dati raccolti dalla Commissione europea con quelli dell’Istat. Ecco l’orrore: nel 2017 la partecipazione al lavoro, in Italia, dovrebbe salire al 62,4%. Evviva? Un corno, perché in Germania sarà al 77,7 e in Francia (Paese malato, non una tigre asiatica) al 69,8. Sembra impossibile, ma c’è di peggio: gli obiettivi comunicati dai singoli governi e discussi con Bruxelles fissano al 67% la partecipazione al lavoro degli italiani entro il 2020. Peggiori del nostro ci sono solo gli obiettivi di Croazia e Malta (62,9). Vuol dire che abbiamo già messo nel conto di perdere ulteriormente competitività, lasciando che gran parte degli italiani non faccia nulla. Dopo avere letto questi dati si capisce meglio il livello di certe discussioni, sugli zero virgola e sulle trasformazioni dei contratti: da imbriachi. Per capire l’inganno basti leggere l’ipocrisia dei giornaloni, a cominciare dal Corriere della Sera, che a pagina uno suona la tromba dei nuovi “contratti” e a pagina tre annuncia che non ci sono nuovi posti di lavoro. Eppure questi dati contengono un valore. C’è un nesso evidente fra il lavorare poco e il crescere poco. Ce n’è fra il non lavorare e il lievitare dell’insicurezza.

In queste condizioni è saggio aprire il mondo del lavoro a tutte le forme di coinvolgimento di nuove forze, senza perdere tempo in inutili chiacchiere sulle garanzie. Un reddito assicura fiducia e autonomia più di nessun reddito. E sebbene sia evidente che l’ottimo e avere un lavoro ricco e garantito a vita, assistito da accumulazioni previdenziali, è altrettanto evidente che inseguendo quel mito abbiamo creato le condizioni per stroncare le gambe alla nostra potenza industriale, dove chi non lavora soffre l’esclusione e chi produce soffre una insensata pressione fiscale, con l’alibi che serva a soccorrere gli esclusi. Il cane, in questo modo, non si morde più la coda, si mangia direttamente il fegato. Pompando la Repubblica dei bonus si potranno anche prendere dei voti, ma solo ove gli elettori credano ancora sia da furbi farsi prendere per allocchi. Il lavoro, in Italia, è un giacimento di ricchezza che c’incaponiamo a non sfruttare, piuttosto blandendolo nel mentre lo si tiene fuori dalla produzione.

Voci di un altro salvataggio da 50 miliardi

Voci di un altro salvataggio da 50 miliardi

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Anche se un bonifico di 757 milioni di euro è partito dal Tesoro greco (grazie all’apporto di enti locali e di depositi di istituti di credito) per il Fondo monetario internazionale (evitando il temuto default), le cifre fanno accapponare in ogni caso la pelle: entro metà luglio Atene dovrà trasferire al Fondo altri 3 miliardi di euro e farsi rifinanziare 11 miliardi in scadenza, nonché inviare alla Banca centrale europea 6,7 miliardi di euro. Se le casse sono vuote, il pagamento di stipendi e pensioni è a rischio, con la prospettiva di nuovi disordini sociali. Gli altri creditori di Atene – lo si mormorava nei corridoi della riunione dell’Eurogruppo – hanno ingoiato la pillola di accettare una dilazione dei pagamenti (e forse anche una riduzione). Fmi e Bce, invece, non possono ritardare e tanto meno ridurre i pagamenti a loro dovuti a ragione della ‘sa- cralità’ delle istituzioni finanziarie internazionali: si tratta infatti di creditori privilegiatissimi che devono costantemente avere la fiducia dei mercati e collocare, nell’interesse di tutti, le loro obbligazioni. In questo quadro, discettare su un eventuale referendum greco sull’euro è un’inutile distrazione. Il nodo è come fare fronte alla scadenze e inoltre trovare capitali stranieri (molti di quelli greci sono in fuga) per riattivare l’economia. Secondo stime elaborate da diversi centri studi americani, sarebbe necessario entro l’estate un nuovo salvataggio. Di ben 50 miliardi di euro.

Nessun vuole scottarsi ancora una volta le dita. Allo stesso tempo, però, nessuno vuole che la Grecia vada a picco. Non lo vogliono neanche gli USA, in quanto temono sia lo spappolamento dell’eurozona sia una liaisons dangereuses tra Atene e Mosca.

Si sta affacciando una nuova strada: varare per la Grecia un programma analogo a quello che è stato attuato dal 1990 al 2010 con successo per i Paesi più poveri e più indebitati. In breve, parte dei crediti bilaterali (come quelli dell’Italia) verrebbero non solo dilazionati, ma anche ‘rimessi’. Entrerebbe in gioco la Banca mondiale (che non fa prestiti dal 1979 alla Grecia a ragione del reddito pro-capite allora raggiunto) con operazioni a lungo termine (25 anni) per rimborsare Fmi e Bce e riattivare investimenti. Un’operazione basata su un programma di politica economica concordato e monitorato attentamente, nel caso, da una missione Banca mondiale e Fmi residente ad Atene. La Grecia deve complessivamente all’Italia tra i 30 ed i 40 miliardi: ciò equivale a dieci volte circa l’impatto (al netto delle imposte) sui conti pubblici, della sentenza della Corte Costituzionale sulla perequazione delle pensioni.