Editoriali

Ma da solo il QE non può bastare

Ma da solo il QE non può bastare

Massimo Blasoni – Metro

Molte imprese non trovano credito perché spesso le banche non le ritengono in grado di restituire gli eventuali prestiti accordati. Un atteggiamento in parte comprensibile ma che tra il 2001 e il 2014 ha però comportato una riduzione del credito pari a circa 70 miliardi di euro. Il Quantitative Easing (QE) deciso dalla BCE potrà cambiare radicalmente questo stato di cose? Difficile.
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L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

Carlo Lottieri

I tamburi hanno rullato a lungo, annunciando una radicale inversione di tendenza. A seguito della grave finanziaria che dagli Usa (legata ai suprime e alle politiche monetarie) si è presto trasferita in Europa (dove è in relazione piuttosto con gli alti debiti pubblici), hanno finito per avere la meglio quanti hanno voluto rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e moltiplicarne la capacità d’intervento. Non è difficile capire il perché di tutto ciò. C’erano in gioco interessi, certamente, ma anche fattori culturali. Pure in quella remota provincia dell’Impero che è l’Italia, lontana dai centri nevralgici, moltissimi economisti si sono costruiti sulla macroeconomia keynesiana e per anni hanno sofferto in silenzio. Negli anni passati, infatti, ben pochi si erano rivolti a loro per avere indicazioni sul da farsi.
Ora siamo tornati a Keynes e le prospettive politiche dell’Europa – dalla Grecia di Syriza alla Spagna di Podemos – sembrano proprio legate al caratteristico illusionismo di chi pensa che si possa – al tempo stesso – spendere denaro pubblico e costruire un futuro di crescita. Avvisaglie ce n’erano già state e molte, ben prima che la sinistra radicale conquistasse la scena. Negli scorsi anni nel Regno Unito, di fronte alle difficoltà di un settore finanziario nella bufera, il governo londinese non aveva trovato niente di meglio da fare che nazionalizzare (si pensi alla Northern Rock) e anche negli Stati Uniti si sono seguite queste logiche. I maxi-salvataggi sono stati moltissimi e insieme alla volontà di tenere artificiosamente bassi i tassi di interesse – sulla scia di un Giappone che peraltro è in una crisi di cui non si vede la fine – hanno finito per radicalizzare difficoltà che, altrimenti, si sarebbero già superate.
In questi anni, insomma, si sono accantonati tutti i capisaldi dell’economia liberale: iniettando soldi pubblici nei mercati ed evitando il fallimento delle società malgestite. Oltre a ciò, si è pensato di deresponsabilizzare le varie economie, creando meccanismi di stabilizzazione monetaria che nei fatti scaricano sui virtuosi le cattive scelte di chi, invece, dovrebbe pagare il prezzo dei propri errori. Ora ad Atene si annuncia il blocco delle privatizzazioni e si innalza il salario minimo. Una demagogia antiliberale che in questi anni è stata spesso utilizzata anche dalla destra, si pensi a Sarkozy, ora è gestita con maestria dalle forse dell’altermondialismo entrate nella stanza dei bottoni. Non ne verrà nulla di buono.
Lo statalismo dei moderati (conservatori o laburisti) ha aperto la strada allo statalismo dei radicali: l’estrema sinistra in Spagna e Grecia, e forse l’estrema destra in Francia. E tutto questo mentre Mario Draghi ha deciso di abbandonare ogni politica di rigore monetario e punta di fatto a monetizzare progressivamente i debiti pubblici. Ma è ragionevole ritenere che un’iniezione di denaro pubblico emerso dal nulla possa aiutarci a uscire dal guado? Per nulla. Al contrario, bisogna ripartire dai fondamentali e ricreare quelle condizioni istituzionali che possono rimettere in sesto il mercato. E allora bisogna avere una moneta forte e stabile, una proprietà tutelata, una bassa tassazione, un ordine giuridico che tuteli i contratti e una burocrazia ridotta ai minimi termini. Ma non riusciremo a contenere l’espansione delle regole e dell’intrusione dei funzionari se non ridurremo la pressione fiscale. Poteri che sopravvivono sottraendo il 50% e più della ricchezza devono avere sotto controllo l’intera società. Non ci sarà “sburocratizzazione” dell’Europa senza la fine del fiscalismo selvaggio che oggi domina la scena.
Lasciare Keynes e tornare al mercato, per giunta, significherebbe rimettere in piedi un sistema sanzionatorio. In altre parole, è necessario che chi ha gestito malamente un’azienda fallisca. Ma è pure necessario che la Grecia si faccia carico dei propri errori, che gli italiani si guardino nello specchio. Perché solo se chi sbaglia ne risponde ed esce di scena, il sistema può risanarsi e indurre gli operatori a operare correttamente.
Il problema è che la risposta “più Stato” nasce da un’interpretazione erronea di quanto è successo nell’ultimo decennio. Come per la crisi del ’29, si ritiene di essere dinanzi ad una crollo del capitalismo, ignorando in tal modo il ruolo giocato dalla Fed e dalle politiche pubbliche.
Come hanno evidenziato i commenti successi al quantitative easing della Bce, pochi però sembrano consapevoli che se il costo del denaro non è definito dal mercato, ci sono da attendersi crisi a ripetizione. Qualcuno ricorda la bolla finanziaria, legata non all’immobiliare, ma alle dot-com informatiche? Anche allora si accusarono gli operatori finanziari (certo colpevoli di comportamenti imprevidenti), ma non si puntò il dito contro chi – la banca centrale americana – aveva tenuto una politica iper-espansiva e quindi aveva indotto a compiere quegli investimenti. Di qui all’Atlantico il guaio maggiore sta nel fatto che gli europei si sono innamorati del modello “renano” e del welfare State: dimenticando il micidiale differenziale della crescita che da decenni ci separa dall’America, e questo nonostante lo statalismo e gli errori di Kennedy e Nixon, di Bush e Obama.
L’Europa allora non è un modello, ma invece ha bisogno di ripensarsi alla svelta: ne va della possibilità di avere un futuro.
Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Massimo Blasoni – Senzafiltro

Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali).
Incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, il Centro studi “ImpresaLavoro” ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!).
Risultato? Il nostro stock di debito è rimasto sostanzialmente invariato, restando così il maggiore a livello europeo sia in termini nominali che relativi. Già dal 2010, l’Italia ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con la PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). Le conseguenze di questa situazione sono pesantissime: il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha infatti finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013.
L’onere complessivo a carico del sistema grava inoltre sul tessuto produttivo economico fino a coinvolgere imprese subfornitrici e dipendenti. In questi numeri non sono infatti ricompresi gli effetti legati ad altri aspetti comunque rilevanti quali i minori investimenti operati dalle imprese in conseguenza della minore disponibilità di capitale; la riduzione di dipendenti e quindi della distruzione di posti di lavoro; i costi del dissesto delle imprese che, per le conseguenze dei ritardi di pagamento della PA, si sono trovati in una situazione di insolvenza, fino ad arrivare (nei casi più gravi) al fallimento; i costi diretti ed indiretti a carico dei contribuenti. In merito a quest’ultimo aspetto va infatti ricordato che, a partire dal 1° gennaio 2013, il recepimento di una direttiva europea ha obbligato la Pubblica Amministrazione a versare gli interessi di mora sui ritardi, calcolati sulla base del tasso di riferimento BCE maggiorato di 8 punti percentuali su base annua. Tale misura non compensa del tutto il costo del capitale a carico delle imprese italiane ma grava comunque sui cittadini italiani per oltre 3 miliardi di euro all’anno.
Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Carlo Lottieri

Negli scorsi giorni due avvenimenti, peraltro strettamente collegati, hanno dominato la cronaca economica europea.
Il primo riguarda la Svizzera, dato che la Banca centrale elvetica ha deciso di non difendere più il cambio 1,20 tra euro e franco, con la conseguenza che la seconda valuta si è notevolmente apprezzata fino a raggiungere la parità con la moneta comune europea. La mossa è avvenuta un po’ a sorpresa, ma è pur vero che dal 2012 a oggi erano stati in molti a sostenere che un cambio tanto inadeguato prima o poi si sarebbe dovuto abbandonare. In un mondo caratterizzato da una forte domanda di franchi svizzeri, la difesa di quel livello avrebbe finito per rappresentare un costo troppo elevato per Berna.
Cosa però ha indotto gli svizzeri a cambiare strada? È chiaro che essi avrebbero difeso ancora per un po’ quel cambio del tutto artificioso, cedendo alle pressioni lobbistiche di operatori turistici ed esportatori, se non vi fosse stato l’annuncio di una massiccia azione espansiva da parte della Bce. Dinanzi al cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, che si apprestava a immettere – nel corso del tempo – più di mille miliardi di euro, la Bns ha preso atto della realtà e ha lasciato che il mercato dei cambi facesse il suo corso.
Sull’azione di Draghi si è registrato un (quasi) unanime consenso. Si è detto che – finalmente! – le autorità monetarie prendevano iniziative anti-recessione, che questo denaro fresco avrebbe potuto aiutare gli investimenti e le imprese, che in tal modo gli interessi sul debito pubblico potevano diminuire, con grande beneficio per i conti degli Stati gravati da debiti. E poi si è detto che c’era bisogno di contrastare la deflazione con una “buona” inflazione intorno al 2%. Credo che sia opportuno, invece, essere scettici.
Una buona moneta è una moneta stabile, che facilita gli scambi, permette un’efficace contabilità e viene accumulata in vista di investimenti futuri. Queste sono le funzioni essenziali della moneta, ma nessuna di queste è davvero preservata quando chi la gestisce pretende di manipolarla a piacere. Se nel corso della storia passata il processo evolutivo gestito dagli operatori di mercato ha selezionato l’oro, questo è avvenuto proprio perché si trattava di una moneta non facilmente moltiplicabile con una decisione arbitraria come quella assunta qualche giorno fa da Draghi.
Oltre a ciò, Draghi ha agito – come qualche commentatore tedesco ha evidenziato – a vantaggio dei Paesi meno virtuosi e più indebitati (Italia e Francia, in particolare) e a danno di quelli più virtuosi. Questo “premiare” chi fa debiti non soltanto è ingiusto, ma rappresenta un incentivo ad agire in maniera sconsiderata. Per giunta ora si entra in una fase inflazionistica che, dopo la fiammata iniziale, ci obbligherà a fare i conti con tutte le difficoltà che sono caratteristiche di un’economia con una moneta debole.
L’Europa si può in qualche modo permettere di fare questo, illudendosi che non vi sia un prezzo assai salato da pagare, perché è una grande realtà, che unisce centinaia di milioni di persone. Questo processo sarà distruttivo, ma i nodi verranno al pettine negli anni a venire. Al contrario, la dirigenza della banca centrale elvetica – che pure a lungo non si è mostrata più saggia delle dirigenze delle altre banche centrali (americana, europea, giapponese ecc.) – è stata costretta a invertire la propria direzione dalle limitate dimensioni dell’economia del Paese, che in definitiva conta solo otto milioni di abitanti.
Ancora una volta, la Svizzera ha tratto vantaggio dalla propria “piccolezza”. Se alla fine il buon senso ha prevalso e se ora – di conseguenza – gli svizzeri possono contare su un cambio più affidabile (che può orientare gli attori economici a reimpostare su basi maggiormente solide la loro struttura produttiva) è solo grazie al fatto che non hanno potuto diluire la responsabilità dei propri errori e non hanno potuto proseguire in quella politica monetaria dispendiosa e redistributrice che prima li portava ad acquisire euro.
È questa una buona lezione che, in qualche modo, dovrebbe anche indurci a riflettere maggiormente su cosa sta diventando l’Unione europea e sulle conseguenze negative derivanti dall’espansione del suo potere.
Cosa serve alle imprese

Cosa serve alle imprese

Massimo Blasoni – Metro

Il nostro Paese decresce dello 0,4% nel 2014, andando peggio di quanto il Governo avesse stimato a inizio anno. Nel frattempo negli Usa la crescita è pari al 5%, un abisso legato sia alle politiche espansive americane che a un problema specifico della nostra economia. L’Italia è l’unico tra i principali Paesi europei ad avere un Pil reale che si è ridotto di dieci punti dall’inizio della crisi. La via d’uscita per il rilancio dell’economia sono le attività imprenditoriali, ma è difficile fare impresa in Italia. Lo studio annuale della Banca Mondiale ci pone agli ultimi posti tra i Paesi in cui è più facile fare affari e il peso complessivo delle imposte sulle imprese sfiora il 65%. Burocrazia, tempi della giustizia, cuneo fiscale: tutto concorre a frenare il rilancio. Concentriamoci su appena due delle tante critiche che si potrebbero muovere al Governo Renzi sul tema aziende.
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Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Massimo Blasoni – Panorama

In Italia non mancano le imprese virtuose, che ottengono ottimi risultati e incrementano l’occupazione. Quello che manca sono semmai il sostegno della politica e la fiducia nella loro capacità di far ripartire il Paese. Per rendersene conto è sufficiente analizzare uno dei principali provvedimenti contenuti nella Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap. Una misura sostanzialmente lineare che si applica a tutte le imprese con dipendenti a tempo indeterminato: certamente utile per le aziende «labor intensive» ma che sconta l’errore di non finalizzare l’intervento a beneficio di chi ha il coraggio di fare investimenti.
Per capire quanto questa misura rischi di essere debole basta analizzare il suo impatto concreto sulle nostre imprese. Il beneficio fiscale sarà nell’ordine di 400 euro annui a lavoratore. Larga parte delle imprese italiane occupano oggi fino a tre dipendenti (fonte Istat): ciò significa una minore pressione fiscale annua di 1200 euro ad azienda, circa 100 euro al mese. È evidente che si tratta di una cifra né in grado di stimolare investimenti né di salvare aziende in difficoltà.
Da imprenditore rimango convinto che una vera spinta alla crescita si otterrebbe soltanto rendendo beneficiari della misura unicamente coloro che effettivamente investono in innovazione, ristrutturazioni e ampliamento delle aziende. Certo si ridurrebbe la platea dei beneficiari ma si otterrebbero effetti reali sulla crescita. L’intervento pubblico (anche se in forma di riduzione delle imposte) va indirizzato con certezza allo sviluppo, altrimenti si rivela soltanto un inutile dispendio di risorse: gli effetti degli 80 euro, al di là di ogni teoria economica, sono lì a dimostrare proprio questo.
C’è un ultimo aspetto: lo sgravio Irap produrrà effetti sul bilancio delle aziende solo nel 2015, dunque sulle imposte pagate a giugno e novembre 2016. Gli interventi in economia hanno un senso soltanto se immediati e invece da qui al 2016 potrebbe ricambiare tutto: anche le regole del gioco. Non sarebbe purtroppo la prima volta. L’attuale abbattimento Irap assorbe e cancella la riduzione del 10% già prevista dal cosiddetto “DL Irpef” di Aprile 2014. Un provvedimento, quest’ultimo, che come molti altri è stato solo un annuncio: prima approvato e poi eliminato senza che nessuno avesse la possibilità di beneficiarne.