Editoriali

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

di Massimo Blasoni – Formiche.net

Se malauguratamente ci tocca un ricovero in una città che non è la nostra scopriamo che gli ospedali non dialogano informaticamente tra loro, nemmeno in una stessa regione. Eppure cartelle cliniche condivise potrebbero salvarci la vita. Difficilmente in Italia potremo prenotare in via telematica i nostri esami o riceverne a casa l’esito.

Il basso livello di digitalizzazione non riguarda solo la sanità e nemmeno solamente la Pubblica Amministrazione. L’Aci ad oggi tiene aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico che contiene informazioni sulle nostre vetture mentre allo stesso compito attende il ministero dei Trasporti attraverso la Motorizzazione. I due archivi gestiscono informazioni analoghe senza comunicare e con un’evidente sovrapposizione. Solo il 10 per cento delle imprese italiane vende anche online i propri prodotti e siamo tra gli ultimi per quanto riguarda l’informatizzazione aziendale.

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Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

di Massimo Blasoni – Libero

In materia fiscale lo Stato ha peccato di presunzione. Dal 1993 ha presunto infatti di conoscere il reddito dei lavoratori autonomi grazie al confronto delle loro dichiarazioni fiscali con i famigerati studi di settore. Il risultato di questa politica è a tutti noto: chi non rientrava in quei parametri spesso astratti di coerenza e congruità andava trattato senza alcun riguardo come un truffatore, mentre agli evasori fiscali era sufficiente dichiarare redditi formalmente in regola con le stime decise a tavolino dallo Stato.

Nel decreto fiscale in corso di approvazione, gli studi di settore vengono ora sostituiti da indici sintetici di affidabilità di ciascun contribuente. Si chiameranno indicatori di compliance e saranno in buona sostanza una pagella stilata dallo Stato, beninteso sulla base di regole e relative punizioni decise dallo Stato. Al netto dell’ennesimo anglicismo, non sembra un gran cambiamento. E se per una volta cambiassimo paradigma? Pensate a cosa succederebbe se fossero invece i contribuenti a poter stilare una valutazione dell’indice di affidabilità delle singole pubbliche amministrazioni, insomma fossero possibili sanzioni per quei dirigenti e funzionari pubblici che lavorano male, con ritardi inaccettabili, di fatto ostacolando l’attività delle imprese e dei lavoratori autonomi.

Non credo di esagerare: in fin dei conti come ricordava Margaret Thatcher «non esistono i soldi pubblici, piuttosto soldi dei contribuenti». La Pubblica amministrazione impiega in media 131 giorni prima di pagare i suoi fornitori privati (ha ancora debiti per 61,1 miliardi) e impone mediamente 227 giorni di attesa per il rilascio di una concessione edilizia. Ci sono aziende sanitarie in Calabria che saldano i propri debiti abitualmente dopo un anno. La giustizia civile richiede mediamente 590 giorni per un esito in primo grado e certo non è finita li. Non sono rari i fallimenti causati da questi ritardi.

Ribadisco: così non può funzionare. Anche perché se un cittadino non paga una qualche tassa scattano (giustamente, sia chiaro) multe severissime, mentre lo Stato paga o giudica quando vuole senza che vi sia nessuna possibilità di sanzione per i suoi ritardi. Dunque per migliorare il rapporto di fiducia fra Stato e imprese perché non affiancare agli indicatori di affidabilità fiscale anche quelli di efficienza per la PA?

Spesa pubblica e risparmi

Spesa pubblica e risparmi

di Massimo Blasoni – Metro

C’è una sola via per la contrazione drastica e strutturale della spesa pubblica che nemmeno la manovra di quest’anno affronta: occorre che lo Stato riduca il suo campo di azione e, gravati da meno tasse, siano i cittadini e le imprese a occupare quegli spazi. Non è frutto di un ordine necessario che lo Stato gestisca, in via quasi esclusiva, pensioni, scuola, sanità.

I risultati in tema di riduzione della spesa pubblica sono stati in questi anni assai lontani dagli obiettivi che si erano ripromessi i vari commissari alla spending review. Diminuire la spesa è problematico perché significa toccare situazioni di cui molti beneficiano: ridurre privilegi ma anche servizi. Essendo difficile decidere chi scontentare, i tagli di norma sono lineari oppure si tratta di spese differite all’anno successivo. Poco o nulla di strutturale, quindi. Peggio, si tende a tagliare la spesa per investimenti, quella di cui ci sarebbe bisogno in un Paese carente di infrastrutture fisiche e soprattutto digitali, tanto da essere agli ultimi posti in Europa per capacità di innovazione.

La spesa corrente al netto di interessi è passata, in valori assoluti, da 671 a 702 miliardi tra il 2012 e il 2016. Quella per investimenti nell’ultimo quinquennio è scesa di 7,8 miliardi: l’opposto di quello che è successo in Inghilterra. Che ne è stato del taglio delle partecipate? Chi ha novità sulle liberalizzazioni e privatizzazioni per lo più naufragate? Anziché discettare di buona spesa pubblica e di tagli, senza metterli in pratica, occorrerebbe un cambio di prospettiva.

Non è detto che molte delle cose di cui si occupa la pubblica amministrazione non possano essere fatte, e meglio, dai cittadini. Chi spende per se stesso spende con attenzione, diversamente da quello che accade spesso nella PA. Un esempio: il denaro che versiamo per le nostre future pensioni non è ben amministrato dallo Stato. Perché non dovremmo ricorrere al mercato? L’Inps registra passivi pesantissimi anche a causa di evidenti inefficienze e ha uno sterminato patrimonio immobiliare acquistato spesso a prezzi esosi e poi locato per importi magari risibili. Fatta la tara a tutte le indubbie complessità e alle esigenze sociali, qualcuno ha dubbi sul fatto che ognuno di noi gestirebbe meglio quel denaro se potesse farlo, almeno in parte, direttamente?

Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

di Massimo Blasoni – Il Fatto Quotidiano

Confindustria e diverse altre organizzazioni si schierano apertamente per il Sì al referendum, sostenendo che questa riforma sarà in grado di velocizzare il processo normativo e creare le condizioni per una stabile ripresa economica. Sono un imprenditore anch’io – una realtà che occupa 2.000 persone – tuttavia non sono d’accordo e provo a spiegarne le ragioni.

Primo: le leggi non devono essere approvate velocemente ma semmai scritte bene e in maniera chiara affinché la loro applicazione non venga poi vanificata o ritardata da una pletora di ricorsi. D’altra parte il bicameralismo perfetto, che ora si vuole abolire, non ha mai impedito l’approvazione rapidissima di leggi considerate prioritarie (magari perché utili agli stessi partiti): a dettare i tempi in Parlamento è sempre e soltanto la volontà politica. Non hanno senso poi senatori dopolavoristi e non eletti direttamente.

Secondo: l’economia cresce se si consente agli imprenditori di creare ricchezza e dare lavoro. Non voglio fare il benaltrista, ma credo che sarebbe stato molto più utile modificare l’articolo 41 della Costituzione. Al primo comma recita che «L’iniziativa economica privata è libera». Un principio liberale fondamentale che purtroppo viene subito contraddetto al terzo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». È stata proprio l’osservanza a questo principio ideologico dell’indirizzo statalista che prefigura il “coordinamento” pubblico a costruire un eccesso di regole che frenano lo sviluppo delle aziende, trasformando la burocrazia in un micidiale ostacolo alla crescita economica. Già nel 2010 l’allora ministro Tremonti propose di sostituire quel comma con una frase semplice ma rivoluzionaria: «È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Una formulazione che avrebbe introdotto, ad esempio, la totale autocertificazione per le Pmi e le imprese artigiane, spostando ex post il momento dei pur necessari controlli e verifiche dei requisiti richiesti per legge. Non se ne fece nulla allora, non se ne è discusso nemmeno questa volta. Ecco perché, al netto di molte altre ragioni, il 4 dicembre voterò no. Con buona pace di Confindustria.

La crescita può attendere

La crescita può attendere

di Massimo Blasoni – Panorama

Diciamolo con chiarezza, i tre anni di governo Renzi sono stati contraddistinti da previsioni di crescita puntualmente smentite – purtroppo in negativo – come le correlate previsioni su deficit e debito. È significativo che il deficit di bilancio resti sostanzialmente inalterato: era il 2,6% nel 2015, pressoché tale è rimasto quest’anno in barba a ogni impegno preso con il Fiscal Compact. Non riusciamo peraltro a uscire dalla spirale perversa di un debito pubblico che ci ripromettiamo di ridurre e che invece continua a crescere.

La crisi economica è globale ma vi sono in Italia aspetti peculiari le cui colpe vanno ascritte al nostro governo. Non si sono infatti ottenuti risultati significativi sul fronte della riduzione della spesa, peggio, si è contratta quella per investimenti mentre è cresciuta quella corrente. Eppure avremmo un gran bisogno di investimenti in infrastrutture fisiche e soprattutto digitali. Per capirci, mentre nel Regno Unito tra il 2010 e il 2015 la spesa per investimenti saliva da 58,6 a 68,1 miliardi, nel nostro Paese è scesa da 46,7 a 37,4 miliardi. Per converso la nostra spesa corrente, al netto degli interessi sul debito, è salita dai 671 miliardi del 2012 ai 701 del 2016. Nel Regno di Sua Maestà, invece, nello stesso periodo si è registrata minor spesa per più di 50 miliardi.

Non induca in errore il fatto che i trasferimenti agli enti locali – comuni e regioni – sono stati ridotti dal nostro governo, perché per contraltare si è ampliata la voragine dei conti INPS e si sono incrementate numerose altre voci di spesa. Nemmeno sul tema lavoro il governo merita la sufficienza. Il Jobs Act funziona poco e, ridotta la decontribuzione, l’occupazione a tempo indeterminato sta calando mentre resta preoccupante il dato relativo ai giovani. La disoccupazione giovanile oggi è 17 punti percentuali superiore a quella del 2007, peggio di noi fa solo la Grecia. Peraltro si investe poco sul futuro: restiamo tra gli ultimi in Europa per numero di laureati, capacità digitale e di innovazione. I vari bonus, partendo dagli 80 euro, non hanno sortito effetti visibili tanto che i consumi domestici languono e la povertà cresce. Nel 2015 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni e 598 mila, il valore più alto registrato nell’ultimo decennio. I primi dati sull’anno in corso purtroppo sono anche peggiori. Infine le tasse: molto si può dire ma il dato oggettivo è che le entrate erariali a luglio di quest’anno erano di circa nove miliardi superiori a quelle incassate dallo Stato nello stesso periodo dell’anno scorso.

Sia chiaro, questo stato di cose – non siamo gufi – non è frutto di un ordine necessario e irreversibile. Abbiamo citato la spending review inglese, potremmo ricordare la crescita spagnola. Per conseguire risultati occorre però un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa e sindacato. Un’evoluzione che Renzi non è stato in grado di indurre, troppo preso da interventi in chiave elettorale e poco capace di intuire il tempo a venire. L’attuale legge di Bilancio ne è un esempio: pochi investimenti e troppa attenzione al consenso.

PIL, gli sbagli del Governo

PIL, gli sbagli del Governo

di Massimo Blasoni – Metro

Preoccupa davvero che il ministro dell’Economia Padoan, nel replicare alle accuse di eccessivo ottimismo mossegli da Bankitalia (e non solo), abbia definito «ambizioso ma realizzabile» l’obiettivo di una crescita dell’1% del nostro Pil. Col risultato surreale di spacciare come un successo un eventuale “+ zero virgola qualcosa” quando tutti i nostri partner europei sono ormai da molto tempo ritornati ai livelli pre-crisi (con l’eccezione della Spagna, che pur senza un governo cresce comunque a una velocità tripla della nostra). A suscitare più di un interrogativo è poi la sostanziale inaffidabilità di questo tipo di previsioni: un dato che accomuna il governo Renzi a quelli che lo hanno preceduto.

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La sicurezza del Mef e gli errori (ripetuti) del passato

La sicurezza del Mef e gli errori (ripetuti) del passato

Il Tempo – di Massimo Blasoni

Nel replicare alle critiche mossegli in particolare da Bankitalia, il ministro dell’Economia Padoan ha difeso le previsioni di crescita messe nero su bianco nella nota di aggiornamento del Def, sostenendo che «le previsioni sul Pil non sono una scommessa». Sarà pure, ma la sua difesa imbarazzata non può certo appigliarsi sui numerosi precedenti in materia.

ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica dei governi che si sono succeduti dal 2002 al 2016. Quindi le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse e con le previsioni per l’anno in corso contenute nella nota di aggiornamento del Def. Risultato? Quattordici errori su quindici, con 12 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto (2006 e 2010). Eccezion fatta per il 2007, anno in cui è stata centrata la previsione, la cruda realtà dei fatti si è insomma incaricata di smentire l’ottimismo di Palazzo Chigi e dintorni, non fondato ma utilissimo a rassicurare una preoccupata opinione pubblica.

Dal 2011 ad oggi, infatti, l’esecutivo italiano, in sede di predisposizione del Documento di Economia e Finanza ha sempre sbagliato le sue previsioni, sovrastimandole per cifre che vanno dallo 0,4% di quest’anno al 4,1% del 2012. Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che purtroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 15).

Preoccupa che Padoan definisca «ambizioso» l’obiettivo della crescita del Pil all’1% ma ancor di più che da sei anni di fila, sistematicamente, sovrastimiamo il tasso di sviluppo della nostra economia. Su queste ipotesi si basano infatti le simulazioni di sostenibilità sia del nostro debito pubblico sia del nostro sistema previdenziale nel medio-lungo periodo. Se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?

Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Consigli e dati per affrontare la rivoluzione del lavoro fuori dai vecchi schemi

Il Foglio – di Massimo Blasoni

I risultati ottenuti nell’ultimo biennio in tema lavoro nel nostro Paese sono positivi? Non è semplice rispondere atteso il balletto mensile di cifre che ci viene proposto e che si presta a diverse e talvolta capziose letture. Oggettivamente il numero degli occupati è salito anche se bisogna dire che restiamo al di sotto del 2007, ultimo anno pre crisi. Va riconosciuto tuttavia che al di là del dato strettamente congiunturale alcune previsioni del Jobs Act, quali il superamento dell’articolo 18, sono significative e cambiano in parte il nostro modo di concepire il lavoro. Superare l’idea di job property è fondamentale per un Paese dove risulta ancora difficile premiare il merito, assumere e licenziare e le relazioni sindacali sono troppo rigide e complesse. Il World Economic Forum ci classifica 126esimi su 144 Paesi per efficienza del mercato del lavoro. Dunque che fare? Occorre innanzitutto comprendere le profonde evoluzioni che si profilano.

Punto numero uno: una volta i tempi del lavoro li dava sostanzialmente la catena di montaggio: la prestazione dei singoli operai era tutto sommato resa omogenea. Oggi non è così. In una società, improntata ai servizi più che alla manifattura, il fatto che l’operatore del call center ovvero l’assicuratore ci dedichino maggiore o minore attenzione e siano più o meno competenti sortisce effetti estremamente diversi. I nostri contratti di lavoro, troppo rigidi, considerano la quantità di tempo impiegata dal lavoratore e non il numero e l’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo.

Secondo: per il nostro sindacato il tema delle garanzie resta prioritario, quasi totalizzante. Tuttavia per un enorme numero di disoccupati – soprattutto giovani – il dato dirimente è lavorare o non avere un lavoro. Questo non vuol dire che dobbiamo puntare a una flessibilità selvaggia ma serve a comprendere perché in tema di occupazione gli effetti della decontribuzione sulle nuove assunzioni non sono stati esaltanti. Insomma, l’impresa non assume (malgrado gli incentivi) se ritiene che i costi siano troppo alti e che gli impegni presi siano indeterminati nel tempo.

Terzo: secondo uno studio del Labour Department degli Stati Uniti il 65% dei bambini che oggi vanno alle elementari faranno in età adulta un lavoro che oggi nemmeno esiste. Aggiungiamo: il lavoro del futuro per molti non verrà svolto in ufficio, non solo perché esiste Skype, ma soprattutto perché la connettività superveloce garantisce una sorta di ubiquità. Le prestazioni diventano “on demand” ed è possibile lavorare da casa per committenti fisicamente lontani e senza il vincolo di un orario prefissato. Non solo: l’attuale rivoluzione tecnologica incrementa produzione e innovazione ma ha bisogno di meno posti di lavoro.

Uno studio del World Economic Forum sostiene che entro cinque anni cinque milioni di persone rischiano di essere sostituite da automazione e automi e per il centro studi di Ubs nei prossimi vent’anni la tecnologia soppianterà metà delle attuali professioni. Peraltro l’aver studiato non basterà. Questo perché chi frequenta oggi un qualsiasi corso di informatica sa da principio che sta incamerando informazioni che saranno già superate entro la fine del suo percorso di studi. Negli ultimi tre anni sono state introdotte decine di applicazioni per i nostri iPhone o tablet che certo gli studenti non hanno trovato sui libri di studio. Se si parla di qualcosa che nemmeno esiste si deve avere anche l’umiltà di ammettere che non basta una trasmissione di nozioni statica e in ogni caso incompleta. Occorre piuttosto formazione permanente e che l’apprendimento non sia più una fase circoscritta della vita. Infine siamo di nuovo a chiederci: siamo preparati a queste evoluzioni del mercato? Come detto, pare di no.

Il nostro Paese è agli ultimi posti per numero di laureati, ricerca e innovazione; la velocità media di un download in Italia è di 8 mega per secondo, contro i 29 del Regno Unito. Secondo l’indice Desi siamo 25esimi su 28 Paesi in Europa per capacità digitale. Uscire da questa situazione non è impossibile ma occorre promuovere ancor di più un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa, e sindacato e potenti investimenti in conoscenza e innovazione. I giovani che se ne vanno all’estero nel 2005 erano 25mila, nel 2014 sfioravano i 52mila. Un’emorragia che non possiamo permetterci.

Pensioni, giovani dimenticati

Pensioni, giovani dimenticati

di Massimo Blasoni – Metro

L’intesa sulle pensioni siglata tra Governo e sindacati non fa che perpetuare una cattiva abitudine: occuparsi dei pensionati e dei pensionandi a breve termine, dimenticando giovani che una pensione rischiano di non averla mai. La riforma Dini e i suoi successivi aggiustamenti immaginano purtroppo un mercato del lavoro che non esiste più. Per moltissimi il contratto a tempo indeterminato e la regolarità contributiva sono infatti una chimera: oggi si inizia a lavorare tardi e la condizione di precariato costringe a rapporti interrotti e discontinui. Si spiega così il caso dei contributi silenti, quelli che in centinaia di migliaia hanno versato e versano all’INPS ma in misura insufficiente a garantire loro un assegno previdenziale. Tutti soldi che non saranno loro restituiti e che vengono tranquillamente inghiottiti nel disastrato bilancio dell’Istituto.

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Tagliate l’assegno a chi ha versato pochi contributi

Tagliate l’assegno a chi ha versato pochi contributi

Libero – di Massimo Blasoni

In questi giorni si fa un gran parlare dell’introduzione del meccanismo dell’Ape per consentire una costosa, anticipata riscossione dell’assegno previdenziale. E così discorrendo si continua a eludere la questione centrale di un sistema pensionistico iniquo che verrà fatto ricadere sulle spalle dei giovani, molti dei quali rischiano di non avere mai la pensione. Ammettiamolo una buona volta: non esistono pensioni troppo basse o troppo alte, magari da sforbiciare in ragione di un astratto principio di solidarietà. In realtà esistono pensioni giuste (perché proporzionate ai contributi versati) e pensioni ingiuste, perché calcolate con il sistema retributivo e in molti casi maturate da quanti – grazie a leggine compiacenti – hanno potuto andare in pensione in tenera età. Tutta gente che da tempo ha riavuto indietro l’intero monte contributivo versato e che per molti anni ancora continueremo a mantenere.

Da molti anni la spesa per pensioni rappresenta la voce più importante dell’intera spesa pubblica italiana: nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi, pari al 31,5% dei complessivi 826 miliardi di euro. Nel tentativo di contenerne la crescita – dovuta all’invecchiamento della popolazione e al basso tasso di occupazione – le diverse riforme previdenziali hanno via via ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Si tratta di un sistema alla lunga sostenibile? A prendere per buone le ottimistiche previsioni del Mef, la spesa pensionistica su Pil potrà rimanere all’incirca al livello attuale, scendendo di 1,9 punti percentuali da qui al 2060. Queste stime sembrano però basarsi su assunti tutt’altro che solidi: perché possano avverarsi la produttività del nostro Paese – rimasta quasi ferma negli ultimi 20 anni – dovrebbe infatti tornare “miracolosamente” ai tassi di crescita degli anni Settanta e Ottanta. Non solo: il tasso di occupazione, da sempre a livelli molto bassi in Italia, dovrebbe allinearsi molto rapidamente agli standard europei. Diciamolo con chiarezza: occorrono misure coraggiose per la crescita, ma anche provvedimenti che correggano retroattivamente gli eccessi del passato, riducendo le pensioni dove la sproporzione tra i contributi versati e quanto si riceve è troppo alta. Altrimenti condanneremo le future generazioni a pensioni incerte e misere.