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Incentiviamo gli acquisti

Incentiviamo gli acquisti

Massimo Blasoni – Metro

Non occorre essere una Sibilla Cumana per prevedere che nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (nel Def era prevista per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8% e invece dobbiamo registrare addirittura una decrescita del -0,3%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che anche l’anno prossimo il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto. Questo dato comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettivo conseguimento dei difficili obiettivi fissati dal governo Renzi: 15 miliardi dalla spending review e altri 3,8 miliardi dal contrasto all’evasione fiscale. Se poi il Pil dovesse ulteriormente calare, ci troveremmo di fronte a uno scenario ancora più drammatico per i nostri conti pubblici.
Intendiamoci: le misure contenute nella legge di Stabilità non sono tutte da censurare, anzi. L’abolizione dall’imponibile Irap del costo del lavoro così come la decontribuzione per 3 anni per i nuovi contratti a tempo indeterminato sono misure intelligenti, che vanno nella giusta direzione. Tuttavia, e lo abbiamo già visto con gli effetti nulli prodotti dagli 80 euro in più in busta paga, non è detto che siano decisive per la ripresa economica. Il rischio è semmai che, in un contesto dominato dall’incertezza, imprese e lavoratori decidano semplicemente di accantonare queste risorse. La stessa Bankitalia conferma una netta ripresa dei risparmi: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca ben 37,4 miliardi. Ecco perché sarebbe più utile ridurre le imposte indirette a quanti decidono di acquistare una casa o cambiare la propria auto e al tempo stesso ridurre le tasse alle aziende che effettuano investimenti, piuttosto che ridurre genericamente l’Irap.
Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Carlo Lottieri

Siena è una città bellissima, ricca di storia e monumenti, che conserva istituzioni e tradizioni uniche. Una città che conquista chi la visita e che è ancora oggi carica di potenzialità. Ma in questo tempo di scandali si tratta ormai di una realtà umiliata, piegata in due, smarrita, che vede venir meno ogni riferimento. Questo minuscolo capoluogo del mondo è sempre più una rappresentazione in scala ridotta del disastro italiano, un’esagerazione di quanto sta avvenendo nell’intera Penisola: sia per quanto esso è bello, sia per quanto è disperato. La folle vicenda del Monte dei Paschi è solo l’ultimo episodio di una disfatta. Negli scorsi anni si era assistito anche al progressivo declinare del sistema turistico e alberghiero, con molti esercizi costretti a chiudere, e soprattutto allo sfaldarsi dell’università, che sotto il rettorato Tosi ha infoltito oltre ogni ragionevolezza gli organici – specie nel settore amministrativo – e si è lanciata in spese difficilmente giustificabili, accumulando una quantità impressionante di debiti. Ora l’ateneo sta provando a risalire la china, ma deve fare i conti con una pesante eredità.
Siena è un piccolo gioiello magnifico che si trova ora a fare i conti con un recente passato pieno di errori, un presente che l’ umilia e un futuro davvero a rischio. E le ragioni di questa situazione sono chiare. A Siena è trionfato quel mix di ideologia e cinismo che è uno tra i tratti più caratteristici dello statalismo nazionale. Non soltanto l’Italia è il Paese che per anni e anni ha avuto il partito comunista più forte dell’Occidente, ma qui si è anche elaborato un interventismo “di relazione” che è basato sul favore e sul’appartenenza. La contrada, la loggia, la sede di partito, la parrocchia o qualsiasi altra cosa sia in grado di creare un legame faccia-a-faccia è in grado di permettere il raggiungimento di obiettivi altrimenti fuori portata.
Se l’ideologia ha voluto fornire una giustificazione “alta” a ogni forma di intervento pubblico, la relazione para-familiare ha gestito nei fatti il giorno dopo giorno di questo progressivo ampliamento del numero delle prebende e dei privilegi. A Siena ci si rivolgeva a questo o a quello per andare a lavorare in Mps, e quasi ogni altro ambito cittadino rispondeva a questo tipo di logiche. La banca faceva comunque da cassa un poco per tutti, dalle associazioni alle imprese, offrendo lavoro e finanziamenti con grande generosità e al di fuori di logiche di mercato.
Siena muore per la politica: a causa della politica. È una città in cui relazioni interpersonali anche di grande efficacia e tutt’altro che da demonizzare (si pensi al fenomeno formidabile delle contrade: una realtà che tutto il mondo ammira) sono state “imbastardite” da una progressiva pubblicizzazione di ogni ambito: con la conseguenza che quasi ogni comportamento ha finito per configurarsi come un favore a questo o quello.
Siena potrà rialzarsi se penserà che la propria tradizione bancaria è essenzialmente una tradizione di mercato, e che quanto è avvenuto negli ultimi decenni può diventare solo una (triste) parentesi. Siena può salvarsi se saprà riscoprire e valorizzare, con spirito competitivo, quanto ha di eccellente: in università e non solo (si pensi, ad esempio, a un’istituzione musicale ammirevole come l’Accademia Chigiana). La città uscirà da questo psicodramma che ormai dura da anni solo se tornerà a essere una città di imprenditori: nel turismo e in altri settori. Ma parlare di Siena vuol dire parlare dell’Italia. Il microcosmo toscano è in qualche eccessivo nel raffigurare tutto il bene e tutto il male della Penisola. Siamo tutti un poco senesi, in questo senso, e tutti dobbiamo allora riscoprire il meglio del nostro passato per poter presto dimenticare questo presente che ci offre davvero ben poco.
L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Il Documento di Economia e Finanza (modificato in seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere. C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club, pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i 10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT, holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso, anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare – non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24 ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito, con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del “Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Massimo Blasoni – Formiche

Martedì è arrivato lo scontato “via libera” europeo alla manovra italiana: un dato atteso ma non banale perché costringe il nostro governo ad uno sforzo ulteriore per far calare il deficit strutturale dello 0,3% del Pil. In parole povere si tratta di reperire ulteriori 4,5 miliardi di euro che saranno in larga parte garantiti dal fondo nato per abbattere la pressione fiscale. Lo stesso ministro Padoan ha ammesso come si tratti tutto sommato del “male minore” e di una mossa che benché finisca per indebolire l’effetto espansivo della manovra, ci rimette in linea con i desiderata europei.
In questi anni la nostra adesione all’Unione ci ha garantito stabilità, un mercato libero e un progresso sociale e civile innegabile. Dal 2011 in poi, però, l’Eurozona ha iniziato a palesare alcuni suoi limiti politici: posti davanti alla sfida della Grande Crisi, forse anche peggiore di quella del ’29, gli organismi comunitari non sono stati capaci di liberarsi da una visione burocratica e tecnicista, rimanendo impigliati in numeri, percentuali, meccanismi probabilmente superati dal tempo straordinario che stiamo vivendo.
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Abolire la precarietà è abolire la vita

Abolire la precarietà è abolire la vita

Carlo Lottieri

Chiunque appaia in televisione o in un qualunque altro luogo atto a dibattiti e ponga sotto accusa la condizione precaria in cui si trovano le giovani generazioni è destinato ad avere la meglio: basta che parli della “dignità” della persona umana e metta atto accusa il sistema liberale, per definizione “spietato e senza regole”. Eppure – a ben guardare – la polemica contro la precarietà del lavoro è una battaglia contro la vita, il mutamento, lo sviluppo. Essa esprime la pretesa di costruire un mondo di impiegati delle poste, i quali gestiscono pacchi fermi nei depositi e cartoline mai arrivate a destinazione.  Sia chiaro: come avrebbe detto il comico Catalano quando spopolava con le sue ovvietà nel salotto di Renzo Arbore, “è meglio avere un posto di lavoro stabile e ben pagato piuttosto che uno insicuro e mal retribuito”. Bisogna però chiedersi se questo sia sempre possibile e a quali condizioni. Una riflessione sulla precarietà, per giunta, esige che ci si domandi per quale motivo in una società di mercato ogni status è instabile e suscettibile di essere spazzato via.

La radice di tutto è la libertà umana. Se non vengono coartati o rinchiusi in un guLag, gli uomini tendono a decidere sulla base delle loro preferenze. Il susseguirsi dei giorni e delle settimane ci vede compiere scelte assai diverse e – ad esempio – se un tempo ci piaceva un dato gruppo rock, è possibile che poi ci appassioni alla musica barocca. E lo stesso si può dire per ristoranti, barbieri o fruttivendoli. Per questo motivo sul libero mercato nessuna impresa può essere sicura che esisterà tra un anno, dato che il perdurare di ogni attività è strettamente connesso al mutevole favore espresso dai clienti (spesso condizionato dallo stesso evolvere delle tecnologie e dall’arrivo di soggetti più abili nell’intercettare le attese del pubblico). Se le imprese che costruivano valvole sono state soppiantate da quelle che hanno realizzato i transistor, e queste ultime a loro volta da altri ancora, è chiaro che quei posti di lavoro non esistono più. Ma quando un’impresa entra in crisi e si pensa di salvare l’occupazione ricorrendo a strategie assistenzialiste, si finisce per distruggere ricchezza e dirottare risorse verso un’impresa sconfitta perché incapace di andare incontro alle attese dei consumatori.

Certamente vi sono settori sottratti al precariato, e i retori anti-mercato guardano a quel mondo come ad un modello da imitare. I pezzi di “socialismo reale” della società italiana (sanità, università, magistratura, scuola, enti locali, ecc.) garantiscono ai loro dipendenti un posto stabile e per sempre. Non è necessario che un ospedale soddisfi i clienti e guarisca i malati perché sia finanziato – anche contro la loro volontà – dai contribuenti.

Ovviamente, ognuno di noi malsopporta le incertezze della vita, tende a limitare il rischio e è anche pronto a sacrificare una parte del proprio reddito per avere una prospettiva futura più lineare. Ma in un certo senso gli imprenditori esistono proprio per questo, dato che in molti casi si fanno carico quasi completamente degli imprevisti del mercato e scelgono di corrispondere ai dipendenti una retribuzione fissa, sottratta agli alti e bassi di ogni economia reale; e magari garantita per un dato numero di anni. Quando questo avviene è perché il dipendente riceve una retribuzione che sconta la quota di “rischio” sopportata dal datore di lavoro.

Nell’instabile mondo abitato dagli uomini liberi il rischio può quindi essere gestito o minimizzato, ma sicuramente non può essere eliminato. D’altra parte, sul piano individuale come su quello di un’intera società, il miglior modo per contrastare la precarietà nei suoi aspetti peggiori consiste nel crescere ed essere sempre più efficaci. Chi lavora bene, infatti, è ricercato: se perde un lavoro ne trova un altro, e gli è anche più facile ottenere contratti a lunga scadenza. Ma lo stesso vale per la società nel suo complesso, che quando è in espansione è caratterizzata da una cronica carenza di forza-lavoro (con il risultato che i lavoratori finiscono per avere, sul mercato, una maggiore forza contrattuale).

Perché una società progredisca davvero bisogna però tagliare le spese e licenziare i dipendenti pubblici, abbassare le tasse ed eliminare regole ed inciampi. Né bisogna dimenticare che le amare sorprese che può riservare il mercato rappresentano un dato caratteristico di ogni esistenza non pianificata. In una società costretta ad operare come un esercito inquadrato, in cui ognuno agisce obbedendo agli ordini e il cammino è comunque fissato dai generali, il precariato può anche essere abolito perché la libertà stessa è negata. A quanto processano le incertezze del mercato tutto ciò potrà piacere, ma non ci si chieda di condividere una prospettiva tanto illiberale.

La Filosofia dell’auto (d’epoca) distrutta dalle tasse

La Filosofia dell’auto (d’epoca) distrutta dalle tasse

L’industria automobilistica italiana ha espresso una vera e propria visione del mondo in perfetta sintonia col patrimonio artistico nazionale. L’automobile italiana articolava una filosofia estetica quando l’Alfa Romeo studiava soluzioni tecniche che tenevano le auto incollate alla strada e linee accattivanti come quelle di Giulietta, Alfetta e poi Alfa 75. Ma pensiamo anche alle Lancia Thema che venivano utilizzate dai politici degli anni ’80 ’90 ed erano ammirate in tutto il mondo. C’era persino una Lancia Thema col motore della Ferrari. Oggi con la politica attuale di casa Fiat, questa filosofia è morta. Non sto a discutere sull’ovvietà che questo sia un male da tutti i punti di vista (il trend delle vendite che sono crollate lo dimostra, oltre al fatto che le nostre aziende chiudono e si lavora in America, per importare “cassoniamericani”); se è un male l’aver fatto morire la “filosofia dell’auto italiana”,  ancora peggio è se un governo cerca di distruggerne anche la memoria.
Tale sembra esser l’intendimento di questo governo, che pensa di recuperare altri soldi per le Regioni, tassando le auto d’epoca. Tassare le auto sopra i vent’anni come se fossero nuove significa non solo arrivare a impedire di circolare a persone che uniscono la passione alla necessità del risparmio, perché non ce la fanno più con le spese, ma anche causare l’eliminazione di un intero parco auto storiche, cancellando una memoria automobilistica che era l’orgoglio italiano.
Ma la cosa più stupida è che si andrà a demolire un intero comparto di business: infatti, chi possiede due o tre automobili di vent’anni, ma ben funzionanti, trovandosi a pagare centinaia di euro per i bolli e migliaia per l’assicurazione, sarà costretto a disfarsi dei mezzi, con una perdita di capitali privati: ma neppure lo Stato, che oggi percepisce bolli ridotti, guadagnerà qualcosa se tutti si disfarranno dei propri mezzi. I raduni storici saranno relegati solo a chi si può permettere auto oltre i trent’anni (molto più costose da comprare e da mantenere), in più, verrà cancellata una categoria di auto (da 20 a 30 anni) che oggi dà lavoro a riparatori, artigiani, ricambisti.
Un’altra mazzata sul mondo degli artigiani e dei piccoli ivestitori che hanno investito comperando auto che sarebbero state di sicura rivalutazione.  La federazione Auto Storiche Italiane ha già fatto il conto che per incassare ipoteticamente 56 milioni di euro si andrebbe a perdere un mercato di 650 milioni di euro. Quindi il solito gettito fiscale più alto nei primi mesi cui segue il crollo dovuto alla distruzione di un indotto. Altri 12 milioni di euro si perderebbero sul fronte turistico a causa della morte dei classici raduni.
Cito il documento redatto dall’Asi in merito al provvedimento legislativo contenuto nella Legge di stabilità 2015, all’art. 44 comma 28, con cui si abrogano i commi 2 e 3 dell’art. 63 Legge 342/2000: “A questa perdita si aggiungerebbe quella turistica pari a circa € 12.500.000 annui che nasce da una media di 2.500 raduni per un costo unitario medio di € 5.000. Ed è chiaro che a queste perdite si aggiungono quelle della perdita di posti di lavoro nella Segreteria Asi e nei Club federati che sono 270 …In molti altri casi il nostro Governo ha assunto decisioni populistiche contro auto sportive, di lusso, di grande cilindrata o altri beni, quali barche o aeromobili, con il solo risultato di ridurre l’attività economica del privato, senza incrementare le entrate per l’erario. Sembra ancora una volta che gli errori del passato, in Italia, non insegnino nulla per il presente o per il futuro. Mai come oggi, ogni giorno sentiamo parlare di calo dell’economia, dell’occupazione e della necessità di introdurre provvedimenti per ovviare a tali negatività, in concreto poi i provvedimenti adottati vanno contro corrente e determinano ulteriori danni. Non si può poi dimenticare che il veicolo storico è stato beneficiato dal legislatore perché il pregio culturale superava la perdita per l’erario, e tale particolare e giusta considerazione ha favorito la sua crescita numerica e patrimoniale, che ora di punto in bianco viene annullata senza contropartita. Con un’ulteriore perdita non facilmente valutabile, ma certo non lontana da oltre 1,5 miliardi di Euro.”
Cito la pagina Facebook creata da Mauro Simonini Presidente del Club Alfissima: “Non importa se sia una Panda o una Ferrari, a loro modo tutte le auto rappresentano la storia del nostro paese, dei nostri ricordi. Tutto quello che volete, ma tutti devono avere la possibilità di vivere la propria passione automobilistica. Auto di venti anni e oltre, hanno pagato nella loro vita più del valore d’acquisto da nuove, e raggiunti i venti anni meritano di essere esentate per essere salvate e restaurate per il futuro senza il rischi dell’estinzione di una fetta di storia automobilistica. Specialmente ora, in tempi di crisi rischierebbero di essere comprate da appassionati stranieri, o peggio, finire sotto la pressa privando il nostro paese di un futuro patrimonio storico. L’abrogazione di storicità darebbe inoltre un altro colpo di scure all’economia, perché solo noi appassionati sappiamo quanto hanno bisogno di cure, quindi riparazioni e ricambi, questa scellerata scelta porterebbe a far dimezzare il lavoro di molti. E’ vero, molti si sono approfittati di queste facilitazioni, anche colpa dei tempi di crisi, questo non significa voler fare i furbetti ma cercare di sopravvivere alle vessazioni di questo stato ingordo, con accise sui carburanti direi da rapina, passaggi di proprietà che spesso hanno un costo superiore al valore stesso dell’auto costi assicurativi da pagare a rate, e alla fine tutti i nostri soldi succhiati dall’automobilista per avere strade , se così si possono chiamare, tanto che dai crateri che hanno sembrano la superficie lunare. I furbetti con la Fiat Uno o Panda non esistono, mentre esistono furbi che viaggiano in auto blu, e noi li andremo a trovare con le nostre vecchiette a Roma”. Speriamo solo che ci ripensino in tempo prima di causare nuove perdite di posti di lavoro.
Contributo inviato a ImpresaLavoro da Francesco Corsi
Una condotta inaccettabile

Una condotta inaccettabile

Davide Giacalone

Mettiamo, per pura ipotesi teorica, che la Ragioneria generale dello Stato abbia avuto ragioni per non “bollinare” la legge di stabilità, non convalidandone le coperture, o che il Quirinale, dopo l’attento esame promesso, ne abbia rilevato le incongruenze e ne chieda la riscrittura. A quel punto il governo italiano dovrebbe ritirare il testo inviato alla Commissione europea, totalizzando una continentale figura barbina. Uscendo dall’ipotetico e dal teorico, quindi, se qualche aggiustamento dovrà essere fatto si dovrà procedere quasi di soppiatto, per evitare di danneggiare l’Italia.
Ciò significa che l’invio temerario, l’esposizione scoppiettante, l’integrazione nelle trasmissioni televisive innescano un pericoloso conflitto istituzionale, mettendo la Ragioneria e il Colle nelle condizioni di dovere rinunciare al proprio ruolo (più la Ragioneria, per la verità, perché questa storia che al Quirinale si debbano sempre rifare i conti e rivedere tutto è fuori dai binari costituzionali, è un allargamento smisurato della prudenza che volle la firma del Colle).
In altre parole, sono con le spalle al muro: o validano o ci espongono a pericoli eccessivi. Proprio per ragioni di convenienza, nel braccio di ferro che si è determinato nell’intera Unione europea, era stato suggerito al governo italiano di anticipare la legge di stabilità. Di presentarla ben prima della scadenza ultima (15 ottobre). Hanno preferito attendere l’ultimo minuto. Per essere precisi, però, lo hanno sforato, perché è vero che il testo è stato spedito entro i termini, ma, come si dimostra, privo dei necessari visti. Senza contare che il dibattito pubblico, da una settimana, si sviluppa senza che esista un testo da leggere e studiare, ma solo slides e interviste da commentare. Non è semplice malcostume. È una condotta inaccettabile.