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Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Carlo Lottieri

Entro questa Europa che sta avvitandosi su se stessa, l’unica vera strategia può consistere nell’allargare gli spazi di libertà. Solo una fuoriuscita dal mito dallo Stato e, di conseguenza, dall’interventismo pubblico può ridare una chance alle popolazioni europee. E in questo senso, una spinta nella direzione giusta potrebbe venire dal TTIP, ossia da quel “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) che dovrebbe unificare le economie di Stati Uniti ed Europa.
De negoziati in atti, però, si parla assai poco e questo in promo luogo perché ben pochi credono che ampliare gli scambi sia un atto di civiltà e una scelta che favorisce la prosperità. In questo senso dovremmo imparare da chi, negli ultimi decenni (per giunta partendo da una situazione ben peggiore della nostra), ha saputo imboccare la strada giusta. Al riguardo può essere molto utile quanto scrissero Ning Wang e Ronald Coase – quest’ultimo scomparso lo scorso anno – in uno straordinario volume (il libro è stato tradotto in italiano da IBL Libri) volto a spiegare come e perché la Cina sia riuscita a diventare un Paese capitalista. Com’è successo che uno dei Paesi più statici, piegati dallo statalismo e distrutto da progetti folli quali la Rivoluzione Culturale e il Grande Balzo in Avanti abbia saputo mettersi sui giusti binari, tanto da crescere al ritmo del 10% all’anno? Mentre Europa e Nord America vanno perdendo sempre più dinamismo, com’è possibile che la Cina abbia invece imboccato la strada opposta?
Wang e Coase insistono su vari punti, ma in particolare su due. In primo luogo, essi sottolineano il carattere altamente decentrato della Cina, che è un autentico continente e che nel corso dei secoli non è mai stato gestito direttamente da Pechino, poiché nessun regime ha mai preteso tanto. Per giunta, lo stesso Mao evitò ogni dirigismo economico sovietico (basato su piani economici quinquennali) perché riteneva che una struttura di quel tipo avrebbe rafforzato i luogotenenti politici e avrebbe quindi rappresentato un pericolo per la sua leadership. Avere tanti capetti di livello locale era probabilmente meglio che non dotarsi di una tecnostruttura che disponeva dell’economia cinese.
Mao non aveva alcuna delle preoccupazioni che gli studiosi liberali hanno di fronte alla al dirigismo, ma perseguendo in modo assai machiavellico i suoi calcoli bloccò ogni eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani. L’altra questione su cui gli autori insistono è il ruolo che hanno avuto i cambiamenti “ai margini”. In definitiva la Cina collettivizzata da Mao si è trovata a dover affrontare una povertà terribile e una disoccupazione di grandi dimensioni. In questo quadro drammatico e, spesso, a migliaia di chilometri dalla capitale, in varie circostanze quella che ebbe luogo fu una privatizzazione di fatto dei terreni che produsse ottimi risultati e poi venne presentata dal regime come l’effetto di una scelta strategia.
Anche nelle città, la nascita di imprese private ebbe luogo nell’illegalità. Non solo il regime comunista non organizzò in alcun modo i primi passi del sistema privato, ma neppure creò un quadro giuridico che favorisse tutto questo. L’afflusso nelle città di masse di disoccupati obbligò però molti ad arrangiarsi: e anche stavolta il Pcc si attribuirà i buoni risultati conseguenti. Il regime subì i cambiamenti, anche se ebbe la furbizia di non ostacolarli una volta che le cose ebbero avuto luogo e, anzi, si attribuì le trasformazioni quali effetti di decisioni “lungimiranti”.
Spesso s’insiste sul pragmatismo di cui diedero prova i comunisti cinesi e, in particolare, Deng Xia-ping, cui poco interessava se fosse meglio adottare Stato o mercato, perché l’importante era che l’economia crescesse. Questo è cruciale per capire l’apertura al mercato della Cina, ma anche Deng avrebbe potuto fare ben poco se – lontano dai centri potere – non ci fosse stata la coraggiosa iniziativa di chi ha osato, sfidando i pregiudizi e gli interessi consolidati. E oggi la partita cinese è assai più aperta – anche sotto il profilo politico – proprio grazie all’espansione di imprese che sfidano il mercato invece che rispondere a esigenze politiche.
Non lo si dice quasi mai, ma l’esperienza cinese è soprattutto quella di un potere che, un po’ alla volta, si è ridimensionato e ha finito per perdere il monopolio sulla società. Oggi – nonostante i molti problemi che persistono: dal partito unico alla situazione tibetana – la libertà individuale in Cina è assai più rispettata e il potere meno ramificato, perché le forze del mercato hanno creato spazi di autonomia e sparigliato le carte.
Se il coraggio d’intraprendere ha condotto entro un ordine capitalistico pure la Cina del marxismo in salsa maoista, perché non dovrebbe poter succedere lo stesso anche nella nostra Europa dominata da iper-regolamentazione, tassazione e redistribuzione? E se l’apertura del mercato cinese ha tanto aiutato quella società, perché mai questo non dovrebbe succedere anche sulle due coste dell’Atlantico?
Incentiviamo gli acquisti

Incentiviamo gli acquisti

Massimo Blasoni – Metro

Non occorre essere una Sibilla Cumana per prevedere che nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (nel Def era prevista per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8% e invece dobbiamo registrare addirittura una decrescita del -0,3%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che anche l’anno prossimo il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto. Questo dato comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettivo conseguimento dei difficili obiettivi fissati dal governo Renzi: 15 miliardi dalla spending review e altri 3,8 miliardi dal contrasto all’evasione fiscale. Se poi il Pil dovesse ulteriormente calare, ci troveremmo di fronte a uno scenario ancora più drammatico per i nostri conti pubblici.
Intendiamoci: le misure contenute nella legge di Stabilità non sono tutte da censurare, anzi. L’abolizione dall’imponibile Irap del costo del lavoro così come la decontribuzione per 3 anni per i nuovi contratti a tempo indeterminato sono misure intelligenti, che vanno nella giusta direzione. Tuttavia, e lo abbiamo già visto con gli effetti nulli prodotti dagli 80 euro in più in busta paga, non è detto che siano decisive per la ripresa economica. Il rischio è semmai che, in un contesto dominato dall’incertezza, imprese e lavoratori decidano semplicemente di accantonare queste risorse. La stessa Bankitalia conferma una netta ripresa dei risparmi: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca ben 37,4 miliardi. Ecco perché sarebbe più utile ridurre le imposte indirette a quanti decidono di acquistare una casa o cambiare la propria auto e al tempo stesso ridurre le tasse alle aziende che effettuano investimenti, piuttosto che ridurre genericamente l’Irap.
Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Carlo Lottieri

Siena è una città bellissima, ricca di storia e monumenti, che conserva istituzioni e tradizioni uniche. Una città che conquista chi la visita e che è ancora oggi carica di potenzialità. Ma in questo tempo di scandali si tratta ormai di una realtà umiliata, piegata in due, smarrita, che vede venir meno ogni riferimento. Questo minuscolo capoluogo del mondo è sempre più una rappresentazione in scala ridotta del disastro italiano, un’esagerazione di quanto sta avvenendo nell’intera Penisola: sia per quanto esso è bello, sia per quanto è disperato. La folle vicenda del Monte dei Paschi è solo l’ultimo episodio di una disfatta. Negli scorsi anni si era assistito anche al progressivo declinare del sistema turistico e alberghiero, con molti esercizi costretti a chiudere, e soprattutto allo sfaldarsi dell’università, che sotto il rettorato Tosi ha infoltito oltre ogni ragionevolezza gli organici – specie nel settore amministrativo – e si è lanciata in spese difficilmente giustificabili, accumulando una quantità impressionante di debiti. Ora l’ateneo sta provando a risalire la china, ma deve fare i conti con una pesante eredità.
Siena è un piccolo gioiello magnifico che si trova ora a fare i conti con un recente passato pieno di errori, un presente che l’ umilia e un futuro davvero a rischio. E le ragioni di questa situazione sono chiare. A Siena è trionfato quel mix di ideologia e cinismo che è uno tra i tratti più caratteristici dello statalismo nazionale. Non soltanto l’Italia è il Paese che per anni e anni ha avuto il partito comunista più forte dell’Occidente, ma qui si è anche elaborato un interventismo “di relazione” che è basato sul favore e sul’appartenenza. La contrada, la loggia, la sede di partito, la parrocchia o qualsiasi altra cosa sia in grado di creare un legame faccia-a-faccia è in grado di permettere il raggiungimento di obiettivi altrimenti fuori portata.
Se l’ideologia ha voluto fornire una giustificazione “alta” a ogni forma di intervento pubblico, la relazione para-familiare ha gestito nei fatti il giorno dopo giorno di questo progressivo ampliamento del numero delle prebende e dei privilegi. A Siena ci si rivolgeva a questo o a quello per andare a lavorare in Mps, e quasi ogni altro ambito cittadino rispondeva a questo tipo di logiche. La banca faceva comunque da cassa un poco per tutti, dalle associazioni alle imprese, offrendo lavoro e finanziamenti con grande generosità e al di fuori di logiche di mercato.
Siena muore per la politica: a causa della politica. È una città in cui relazioni interpersonali anche di grande efficacia e tutt’altro che da demonizzare (si pensi al fenomeno formidabile delle contrade: una realtà che tutto il mondo ammira) sono state “imbastardite” da una progressiva pubblicizzazione di ogni ambito: con la conseguenza che quasi ogni comportamento ha finito per configurarsi come un favore a questo o quello.
Siena potrà rialzarsi se penserà che la propria tradizione bancaria è essenzialmente una tradizione di mercato, e che quanto è avvenuto negli ultimi decenni può diventare solo una (triste) parentesi. Siena può salvarsi se saprà riscoprire e valorizzare, con spirito competitivo, quanto ha di eccellente: in università e non solo (si pensi, ad esempio, a un’istituzione musicale ammirevole come l’Accademia Chigiana). La città uscirà da questo psicodramma che ormai dura da anni solo se tornerà a essere una città di imprenditori: nel turismo e in altri settori. Ma parlare di Siena vuol dire parlare dell’Italia. Il microcosmo toscano è in qualche eccessivo nel raffigurare tutto il bene e tutto il male della Penisola. Siamo tutti un poco senesi, in questo senso, e tutti dobbiamo allora riscoprire il meglio del nostro passato per poter presto dimenticare questo presente che ci offre davvero ben poco.
L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Il Documento di Economia e Finanza (modificato in seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere. C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club, pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i 10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT, holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso, anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare – non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24 ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito, con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del “Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Le vere risposte che l’Italia doveva dare a Bruxelles

Massimo Blasoni – Formiche

Martedì è arrivato lo scontato “via libera” europeo alla manovra italiana: un dato atteso ma non banale perché costringe il nostro governo ad uno sforzo ulteriore per far calare il deficit strutturale dello 0,3% del Pil. In parole povere si tratta di reperire ulteriori 4,5 miliardi di euro che saranno in larga parte garantiti dal fondo nato per abbattere la pressione fiscale. Lo stesso ministro Padoan ha ammesso come si tratti tutto sommato del “male minore” e di una mossa che benché finisca per indebolire l’effetto espansivo della manovra, ci rimette in linea con i desiderata europei.
In questi anni la nostra adesione all’Unione ci ha garantito stabilità, un mercato libero e un progresso sociale e civile innegabile. Dal 2011 in poi, però, l’Eurozona ha iniziato a palesare alcuni suoi limiti politici: posti davanti alla sfida della Grande Crisi, forse anche peggiore di quella del ’29, gli organismi comunitari non sono stati capaci di liberarsi da una visione burocratica e tecnicista, rimanendo impigliati in numeri, percentuali, meccanismi probabilmente superati dal tempo straordinario che stiamo vivendo.
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