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Debiti PA, i sindaci pagano a singhiozzo

Debiti PA, i sindaci pagano a singhiozzo

Valeria Uva – Il Sole 24 Ore

C’è un «tesoretto» da un miliardo e 700 milioni di euro destinato a saldare le imprese in arretrato, ma fermo nei cassetti. In parte perché alcuni enti locali si sono decisi a chiedere anticipazioni di liquidità per pagare i debiti solo negli ultimi mesi, in parte (ma la cifra non è quantificabile) perché si tratta di fondi che i Comuni hanno in realtà già pagato, ma che scontano problemi nella rendicontazione. Il risultato è che a oggi, secondo i dati diffusi dal ministero dell’Economia il 23 settembre, almeno il 21% delle risorse erogate ai Comuni non risulta ancora pagato ai privati (in linea, con la media nazionale del 19%). Dei 57 miliardi stanziati per l’operazione “sblocca debiti” ai Comuni sono già andati 8,2 miliardi, attraverso il canale dell’allentamento del patto di stabilità e quello delle anticipazioni di liquidità erogate in quattro tranche (si veda la cartina a fianco). Ne risultano, però, pagati solo 6,5 miliardi, con un buco di 1,7 miliardi. Una liquidità preziosa per i fornitori in attesa da anni. E che invece arriva con il contagocce.

I flussi di cassa
Sul fronte dell’allentamento del patto di stabilità 2013 mancano all’appello 524 milioni; il resto è rappresentato dalle anticipazioni di liquidità, veri e propri prestiti ricevuti da Cdp su cui i Comuni, peraltro, stanno già versando interessi. Che gli enti locali abbiano rallentato i flussi di cassa lo scrive anche il Mef nel comunicato stampa che fa il punto sull’operazione: «Negli ultimi mesi – si legge – le somme messe a disposizione degli enti vengono richieste e assorbite più lentamente, presumibilmente perché la quota maggiore di debito patologico è stata rimossa grazie ai primi finanziamenti». L’Economia cita il caso della terza tranche di finanziamento ai Comuni che «è stata da questi assorbita solo parzialmente: 1,3 su 1,8 miliardi disponibili». L’arretrato maggiore (circa 900 milioni) si riscontra nella ultima tranche erogata soltanto a partire da questa estate. Non stupisce, quindi, che in questo caso solo il 31% dei Comuni sia già riuscito a esaurire anche queste risorse. Ma colpisce, invece, un altro dato: esistono 89 Comuni con debiti 2013 – che hanno «chiesto aiuto» allo Stato solo con questa tranche e solo nell’estate scorsa. Enti anche grandi (Catania da sola ha chiesto quasi 200 milioni, Catanzaro 18 oltre agli otto del Patto di stabilità). Particolarmente critica la situazione nella città etnea che dichiara un tempo medio di pagamenti delle imprese nel 2013 di ben 469 giorni. Tra i Comuni capoluogo più indebitati risulta in affanno anche Reggio Calabria: è pari al 53% lo stato di avanzamento rendicontato. Il Comune attraversa una gravissima crisi di liquidità.

La rendicontazione
Alcune lentezze non sono riconducibili agli enti locali. Per Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, ad esempio, due aree formalmente a zero nei pagamenti, il nodo è tecnico: la rendicontazione fatta su base regionale non specifica le spese sostenute da ogni ente. Conferma l’assessore al bilancio di Aosta, Carlo Marzi: «I tre milioni che avevamo chiesto sono stati tutti utilizzati». Non sempre, però, la registrazione sulla piattaforma della Ragioneria per il monitoraggio del Patto va a buon fine. Ma il problema è più ampio. Parte di quel 20% di enti in affanno potrebbe in realtà aver già saldato ed essere “vittima” di un ritardo nel caricamento dei dati (soprattutto per l’ultima tranche). È il caso, ad esempio, di Torino, che secondo il Mef sarebbe al 90% mentre al «Sole 24 Ore» dichiara un adempimento totale, concluso negli ultimi giorni. O di Salerno, che vanta un 100% di pagamenti (contro il 65% “ufficiale”): «Abbiamo saldato tutto e rendicontato il 21 agosto – spiega l’assessore al Bilancio, Alfonso Buonaiuto – e con l’ultima tranche non abbiamo più debiti arretrati al 2013». Poi c’è Nuoro, che per il Mef risulterebbe ancora a zero. «E invece abbiamo già speso tutti gli spazi finanziari ricevuti e abbiamo rendicontato ad aprile scorso» dichiara l’assessore al bilancio, Salvatore Daga. Come Nuoro sono oltre 600 i Comuni, grandi e piccoli, che nell’ultimo aggiornamento risultano a zero. In controtendenza, infine, ci sono anche i super-adempienti: una manciata di enti che risultano aver pagato più del 100% di quanto ricevuto. Ma il mistero è più facile da svelare: qualche Comune è riuscito a dedicare all’operazione “sblocca-debiti” anche risorse proprie oltre a quelle assegnate dello Stato.

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Roberto Mania – La Repubblica

Licenziati e poi reintegrati. Accade – sempre meno – in Italia, ma anche in tanti altri paesi europei: Austria, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Svezia e pure in Gran Bretagna, paese del common law. E il ritorno nel posto di lavoro non è del tutto escluso nemmeno in Francia, Finlandia, Spagna o Lussemburgo, in caso di licenziamento illegittimo. Insomma la reintegra, come la chiamano i giuslavoristi, «non costituisce un’anomalia tutta italiana». Così scrivono i ricercatori di “Italia Lavoro”, il braccio operativo del ministero nelle politiche attive per il lavoro, in un dossier, “La flessibilità in uscita in Europa”, che fa un’analisi comparativa dettagliata sulle regole dei licenziamenti individuali e collettivi nei paesi europei. Ne esce un quadro di tutele piuttosto estese sulla base di un principio sancito nella Carta sociale europea: i lavoratori licenziati senza valido motivo hanno diritto «ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».

Con il suo reintegro in versione ridotta dopo la legge Fornero (vale per i licenziamenti discriminatori e quelli camuffati da motivi economici) l’Italia è in buona compagnia nel prevedere la possibilità che un lavoratore ingiustamente licenziato possa tornare al proprio posto di lavoro. In genere spetta al giudice (anche questa non è un’anomalia italiana) decidere, ma sono previsti casi di ricorso ad un arbitro per la conciliazione (possibile pure da noi). Ciò che distingue molto l’Italia dagli altri paesi è, piuttosto, la durata dei procedimenti giudiziari: in media intorno ai due anni contro i quattro-cinque mesi della Germania, stando ad un’indagine dell’Ocse. È questo che genera incertezza per gli imprenditori. Ed è questa la ragione principale per cui il governo Renzi ha deciso intervenire nuovamente (la legge Fornero è di soli due anni fa) sull’articolo 18 dello Statuto. Non tanto per rendere più flessibile l’uscita dal mercato del lavoro, quanto per rendere più certo il quadro per le aziende che intendano investire in Italia. Perché più che il reintegro in sé, le imprese temono l’incertezza (per i tempi e per le imprevedibili conclusioni diverse da tribunale a tribunale) che può condizionare non poco la loro operatività. La strada dell’indennizzo verso il quale ha scelto muoversi il governo diventa sotto questo profilo più prevedibile.

In Germania, dove la cultura dei giudici è meno pro labour ma il sindacato è più forte e strutturato nelle aziende, prevale Nell’impianto legislativo la conservazione del posto di lavoro. Dunque è il tribunale che può ordinare il mantenimento del rapporto di lavoro in caso di licenziamento nullo o ingiustificato. Tra l’almo, durante il periodo in cui si svolge il processo, il lavoratore ha il diritto di continuare a prestare la sua attività. Queste regole valgono per tutti i lavoratori con un’anzianità di servizio di almeno sei mesi e nelle aziende con più di dieci dipendenti. Una soglia dimensionale che non ha impedito che in Germania si formasse un sistema produttivo caratterizzato dalla presenza delle grande imprese. Nello stesso tempo è questo un’argomento a sfavore di chi, in Italia, sostiene che il nanismo del capitalismo tricolore dipenda tra l’altro dallo Statuto dei lavoratori che si applica alle aziende con più di quindici dipendenti.

In Francia vige un sistema “misto”. C’è il reintegro in tutti i casi di licenziamenti discriminatori o nei casi di violazione di diritti fondamentali e di libertà pubbliche. Negli altri casi, decisamente più numerosi, di fronte al licenziamento senza giusta causa scatta un risarcimento monetario. In Irlanda, paese nel passato preso ad esempio per la sua flessibilità e non solo per il favorevole trattamento fiscale, prevale il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo. Reintegro previsto anche in Gran Bretagna che affida margini di discrezionalità molto ampi al giudice il quale può reintegrare il lavoratore adibendolo a mansioni diverse da quelle precedenti. È interessante il fatto che queste ipotesi non valgano per i lavoratori che hanno meno di due anni di servizio. Tortuoso anche il procedimento in Olanda dove l’imprenditore deve ottenere dall’autorità pubblica l’autorizzazione (con funzione di deterrenza) per poter licenziare. Il problema dunque non è l’istituto del reintegro più comune, sulla carta, di quanto si pensi, bensì l’efficacia dell’iter che porta alla conclusione dell’eventuale contenzioso.

Renzi batte il record delle tasse

Renzi batte il record delle tasse

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Renzi ha battuto tutti i record. Innanzitutto quello della velocità. Tanto rapido ad annunciare l’abbattimento delle tasse a cominciare da quelle sulle famiglie numerose, e tanto veloce a fare marcia indietro. Non solo. Il record di tutti i tempi messo a segno dal premier è quello del numero di nuove imposte in un arco di tempo estremamente ridotto. Una sorta di gara a fare meglio dei suoi predecessori, anche di quel campione del rigorismo che è stato Monti. Il Prof al confronto con Renzi sembra un pivellino per l’uso della leva fiscale che comunque Monti giustificava sempre indicando come mandante Bruxelles. Renzi invece non si dà nemmeno la cura di scusarsi con gli italiani e mentre getta fumo negli occhi, con le slide e i twitt, promettendo di sforbiciare privilegi e sacche di inefficienza, usa senza remore la clava delle imposte. Le randellate interessano tutti indistintamente, famiglie e imprese. La fantasia però non è il suo forte se nel mirino è entrata subito la casa, tradizionale fonte di gettito sicuro. Dopo soli sette giorni a Palazzo Chigi, nel primo Consiglio dei ministri, Renzi traduce in un decreto legge l’accordo fra governo Letta e Comuni sulla Tasi. Vediamo le tasse del premier.

Tasi
La tassa sui servizi indivisibili (come l’illuminazione pubblica) s i rivela subito una batosta, peggio della vecchia Imu. Si dà libertà ai sindaci di alzare l’aliquota di un altro 0,8 per mille sulla prima casa, passando dal 2,5 al 3,3 per mille, oppure sulle seconde case, salendo dal 10,6 all’11,4 per mille. I soldi secondo il piano del governo dovrebbero servire a finanziare le detrazioni fissate dai sindaci. In realtà non c’è nessun obbligo a introdurre le detrazioni mentre per l’Imu erano stabilite in 200 euro sulla prima casa e 50 euro a figlio. Risultato: secondo la Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu.

Rendite finanziarie
Dopo circa un mese ecco che Renzi decide di colpire gli investimenti in Borsa e il risparmio. Il prelievo sale dal 20 al 26% e riguarda anche i conti correnti. Salvi, al momento, i titoli di Stato e i buoni fruttiferi postali. Anche i fondi pensione non sono stati risparmiati, con la trattenuta che versano allo Stato sui rendimenti maturati che passa dall’11 all’11,5%.

Quote Bankitalia
Anche le banche sono chiamate a stringere la cinghia. Raddoppia l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote Bankitalia.

Detrazioni Irpef
Tutti i lavoratori che avranno accumulato detrazioni fino a 4.000 euro nel 2013, dovranno aspettare il 2015 per vederseli riconosciuti. Inoltre l’accreditamento delle detrazioni non avverrà più direttamente ma si dovrà aspettare un bonifico dalla Agenzia delle Entrate. Vengono tagliate le detrazioni Irpef sopra i 55mila euro.

Passaporto
Aumenta il costo per il rilascio del passaporto che passa dai 40,29 euro ai 73,50 euro, a cui bisogna aggiungere il costo del libretto.

Sigarette
Dal 1° ottobre il pacchetto di sigarette aumenta di 1 euro.

Smartphone
Smartphone e tablet più cari. Le tasse sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale aumentano di circa il 500%. Quando si acquista uno smartphone o un tablet si pagano dai 3 (dispositivi fino a 8 Gb) ai 4,80 euro (32 Gb) per il diritto d’autore contro gli appena 0,9 previsti finora per i telefonini.

Benzina
Il decreto Irpef all’esame di palazzo Madama prevede clausole di salvaguardia che consentono al Tesoro di aumentare le accise su benzina, alcol e tabacchi qualora avesse bisogno di soldi.

Energie
Tassate le rinnovabili.

Successioni
In arrivo, secondo indiscrezioni, con la prossima legge di Stabilità un aumento dell’imposta sulle successioni. Il governo Berlusconi l’aveva abrogata nel 2011, il governo Prodi l’aveva reintrodotta nel 2006, ma prevedendo una franchigia di un milione di euro. Al di sopra di questa cifra, l’eredità viene tassata al 4%.

Scontrini elettronici e unica banca dati, così cambierà la lotta all’evasione

Scontrini elettronici e unica banca dati, così cambierà la lotta all’evasione

Luca Cifoni – Il Messaggero

La lotta all’evasione punta tutto sulla tecnologia. Utilizzo massiccio delle banche dati, ricorso alla fatturazione elettronica in tutte le transazioni, oltre ad un’ulteriore spinta alla smaterializzazione (e dunque alla tracciabilità) del mezzi di pagamento sono i cardini della nuova strategia di un fisco che vorrebbe essere allo stesso tempo più semplice ed efficiente ma anche più rispettoso delle esigenze del contribuente. La missione si presenta chiaramente non facile, anche perché mentre si progettano strumenti e procedure non viene certo meno l’urgenza del riequilibrio dei conti; e visto che il governo esclude nuove tasse, il contributo al miglioramento del bilancio pubblico ed al finanziamento delle misure per la crescita dovrà arrivare oltre che dalla revisione della spesa proprio dalla tendenziale chiusura del tax gap tra le basi imponibili e i gettiti effettivi.

Il nuovo approccio dovrebbe essere accompagnato da un’opera di radicale semplificazione, di cui sono state poste quanto meno le premesse con la legge delega (nelle prossime settimane dovrebbe essere pronto il decreto attuativo su questo specifico tema). E qualche ulteriore novità potrebbe essere inserita anche nella legge di Stabilità, a metà ottobre. In molti casi si tratta di estendere, potenziare, e mettere a fattor comune risorse tecnologiche che già esistono ma non sono sfruttate come potrebbero. È il caso ad esempio delle banche dati dell’Anagrafe tributaria, che a loro volta dialogano con quelle di altri colossi pubblici come l’Inps. Uno dei progetti più interessanti si chiama “Vista unica del contribuente”; ne ha accennato anche Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, nell’audizione di mercoledì davanti alla commissione parlamentare di vigilanza sull’Anagrafe tributaria.

L’idea è sulla carta piuttosto semplice: concentrare tutte le informazioni sul contribuente in un formato facilmente consultabile e renderle accessibili con pochi clic. E soprattutto – questo è l’aspetto potenzialmente più dirompente – metterle a disposizione dello stesso interessato, che potrà consultarle con le stesse modalità semplificate. In altre parole i contribuenti avranno la possibilità di prendere visione di tutto quello che il fisco sa di loro. Proprio tutto: non solo i redditi (già sommati se provenienti da fonti diverse), ma anche i passaggi di proprietà ricavati dal registro, le varie utenze, i mutui, i rapporti bancari ed addirittura le spese sostenute, aggregate per tipologia di bene. Tutte informazioni che già affluiscono in varie banche dati le quali però non possono essere consultate in modo univoco perché i diversi archivi per lo più non comunicano tra loro. È evidente l’intento di stimolare quella che si definisce compliance, o adesione spontanea. Verificando i dati messi in fila dall’amministrazione fiscale, il contribuente potrà farsi un’idea anche delle possibili verifiche a cui rischia di andare incontro ed eventualmente regolarsi di conseguenza. Un approccio in qualche modo morbido, che però non esclude l’effettivo avvio dei controlli proprio sulla base di quei dati.

L’altro grande fronte è quello della fatturazione elettronica. Attualmente è in vigore l’obbligo nei rapporti tra imprese e pubblica amministrazione. Ma con la stessa infrastruttura tecnologica potrebbe essere usata per tutti i rapporti tra impresa e impresa: la completa tracciabilità renderebbe non più necessari una serie di gravosi controlli del fisco. E si punta ad un approccio del genere anche nei confronti del commercio, con l’estensione delle procedure di trasmissione telematica dei corrispettivi che oggi tocca solo il mondo della grande distribuzione: gli attuali registratori di cassa dovranno essere sostituiti da strumenti in grado non solo di registrare le transazioni ma di inviarle in tempo reale o quasi al fisco: anche gli scontrini diventeranno quindi elettronici.

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

Paolo Baroni – La Stampa

Certo l’articolo 18 e il nodo del reintegro. Il rischio di «scardinare» lo Statuto dei lavoratori contrapposto alla necessità di «aggiornarlo». Ma i punti «indigeribili» del pacchetto-Poletti per una larga fetta del sindacato, in primis la Cgil (e quindi anche per la minoranza Pd), sono molti. E sono tutti concentrati nell’articolo 4 della legge delega.

Primo scoglio, la «revisione della disciplina delle mansioni». Il governo parla di contemperare «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento». La Cgil invece denuncia esplicitamente il rischio di demansionamento, un’operazione «inaccettabile». Per questa via, sostiene l’ex sindacalista Giorgio Airaudo oggi deputato di Sel, si cerca solo di ridurre gli stipendi. Tutte accuse che l’ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd), uno dei registi della riforma, respinge evocando «mansioni flessibili» in relazione «ai nuovi modi di lavorare che richiedono comportamenti più duttili, autonomi e più responsabili». Mediazione possibile? Sì alla flessibilità, ma solo con l’accordo tra le parti e a salario invariato.

Altra scelta che rischia di aumentare la precarietà anziché ridurla è il comma che prevede la possibilità di estendere a tutti i settori produttivi, anche alzando la soglia massima di reddito, l’utilizzo dei voucher impiegato oggi per i lavori saltuari (stagionali, colf, baby sitter…). Anche in questo caso si paventa il rischio che, allargando le maglie, le imprese alla fine ne possano abusare. Quindi, per far passare la norma, la condizione è una sola: deve resta l’attuale soglia dei 5 mila euro di reddito.

Ancora un tabù, ancora un problema: il controllo a distanza dei lavoratori. Lo «Statuto» è nato quando Internet manco esisteva ed è chiaro che molte norme oggi risultano superate. Per questo il governo punta alla «revisione» di tutta questa distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore». Definizione forse un po’ generica, ma poi nemmeno troppo. Epperò la minoranza Pd fa muro anche su questo: «si controllino le macchine, non le persone». Per Sacconi invece, «la doverosa tutela della dignità del lavoratore», che ovviamente resta confermata in pieno, «non deve diventare motivo di inibizione per il migliore impiego delle nuove tecnologie, incluse le opportunità di telelavoro fin qui trascurate».

Quarto «scoglio», il riordino dei contratti. In seguito all’introduzione del contratto unico si punta a disboscare l’attuale selva fatta di 47 differenti modelli. La norma inserita nella delega è abbastanza chiara: parla esplicitamente di «abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato» e punta «eliminare duplicazioni» e «difficoltà interpretative e applicative». Ma anche questa formulazione, per la minoranza Pd , è troppo generica. Ma altrettanto generica però è la sua controproposta.

Infine, c’è il nodo dei soldi. Renzi punta a stanziare 2 miliardi nella prossima legge di Stabilità per estendere gli ammortizzatori sociali ai co.co.co: il sospetto di molti è che però si tratti degli stessi soldi oggi usati per la cassa in deroga e gli altri ammortizzatori. Vero? Falso? Certo è che così, alla vigilia della direzione Pd di domani e poi del confronto/scontro in Senato, la partita si complica ancor di più.

Lo strano caso di hostess e steward che vogliono restare cassintegrati

Lo strano caso di hostess e steward che vogliono restare cassintegrati

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

«Sindrome depressiva ansiosa reattiva»: richiamati al lavoro, uno steward e una hostess di Meridiana, invece di fare festa, giurano d’essere stati gettati nella più cupa depressione: preferivano la cassa integrazione. Così han fatto causa all’azienda chiedendo duecentomila euro di danni. Una storia piccola piccola. Ma che rivela in modo abbagliante i deliri di un sistema abnorme. Sia chiaro: il contesto è pesante. Con un braccio di ferro tra l’azienda e i sindacati che in questi giorni si è fatto durissimo.

Da una parte la compagnia fondata nel ‘63 dall’Aga Khan con il nome di Alisarda, la quale dice di non farcela più coi conti a causa di tragici errori di gestione del passato (esempio: otto tipi diversi di aerei su una flotta di 27 e cioè otto diversi stock di pezzi di ricambio, otto diversi gruppi di manutentori, otto diverse autorizzazioni…) e di un decreto del Tribunale che nel 2010 «impose l’assunzione di 600 persone stabilizzate dopo due stagioni di lavoro part-time» col risultato che, accusa l’amministratore delegato Roberto Scaramella, «lavoriamo con mille dipendenti e 1.600 sono in più». Dall’altra parte i sindacati che, accusati d’avere indetto nel 2014 «un’agitazione ogni tre settimane con due o otto dipendenti ufficialmente in sciopero e un diluvio di certificati medici», accusano a loro volta la società di «fare i soldi» con la «nuova» Air Italy (per la proprietà «più moderna, più competitiva, meno costosa») basata a Malpensa e di scaricare le perdite sulla «vecchia» Meridiana e sui lavoratori . Peggio: i vertici del gruppo si sarebbero arroccati al punto di «blindare la palazzina con filo spinato e lastre di acciaio». Uno scontro frontale. Sul quale stanno mediando la Regione Sardegna e i ministri del Lavoro e dei Trasporti, Giuliano Poletti e Maurizio Lupi. Che hanno strappato la revoca per 1.600 dipendenti della mobilità prevista a ottobre. Per ora. Poi si vedrà.

Va da sé che, in momenti così, ogni dettaglio dello scontro assume un valore decuplicato. Come, appunto, la causa giudiziaria di cui dicevamo. Partiamo dall’inizio. Maria e Donato, chiamiamoli così, vengono assunti da Eurofly, oggi Meridiana Fly, nel 1998. Ruolo: assistenti di volo. Dopo un po’ diventano rappresentanti dell’Usb, una delle dieci (dieci!) sigle sindacali della compagnia aerea. Nel giugno 2011, coi bilanci a picco, Meridiana, governo e sindacati (tranne l’Usb e i piloti) siglano un accordo che concede la Cigs, cioè la Cassa integrazione guadagni straordinaria, a zero ore volontaria. Maria e Donato, come scriveranno nel ricorso, accettano. Lei dal gennaio 2012, lui dall’aprile. Fino al 2015. Solo che qualche mese dopo i due, moglie e marito, «venivano richiamati in servizio (…) mentre si trovavano negli Usa alla ricerca di una nuova occupazione lavorativa, dopo aver ottenuto la Green Card all’esito di un dispendioso e snervante iter burocratico che ha coinvolto l’intera famiglia composta dagli stessi, quali coniugi, e dai tre figli minori». Convinti di esser stati richiamati a lavorare «senza alcuna reale e concreta necessità e solo per carattere punitivo, ritorsivo e illegittimo», i due erano dunque tornati ma, si legge nel ricorso, «al loro rientro in Italia si sono recati dal medico di base e successivamente presso il Policlinico Umberto I di Roma ove è stata loro diagnosticata una “sindrome depressivo ansiosa reattiva” alla quale è seguita la sospensione delle licenze di volo da parte dell’Istituto di medicina legale, con blocco lavorativo di quattro mesi, oltre al mese prescritto dal medico di base». Non bastasse, insisteva il ricorso, l’azienda aveva mandato per tre volte il medico fiscale a controllare il loro stato di salute. Chiedevano dunque al magistrato di dichiarare «la natura discriminatoria dei comportamenti descritti attuati dalla compagnia aerea nei loro confronti, con ordine di cessazione dei comportamenti antisindacali, discriminatori e vessatori» e il ritorno, «a chiusura della malattia», in cassa integrazione. Pari all’80% dell’ultimo stipendio. Che a volte, nei periodi di punta, grazie al numero di ore di volo, può schizzare fino a 4.000 euro.

Il giudice avrebbe dovuto dunque condannare l’azienda «al pagamento delle differenze retributive» pari per quei mesi a «4.000 euro e 4.800 euro, oltre a interessi legali» nonché «del danno biologico e da riduzione della capacità lavorativa sofferti rispettivamente per complessive 92.715,97 euro e 94.363,38 euro, o altra somma, tenuto conto del diniego di rinnovo della licenza di volo». Che loro stessi, peraltro, avevano forzato con la «sindrome depressiva ansiosa reattiva». Macché: il giudice del lavoro Francesca La Russa ha dato loro torto. Su tutto. Non solo era «legittimo il richiamo» al lavoro anche per le «positive ripercussioni sul piano sociale per i minori costi ricadenti sulla collettività», cioè per i cittadini italiani che stavano pagando alla famigliola il soggiorno in America. Non solo era insensata la lagna su questo ritorno al lavoro perché «semmai dovrebbero dolersi i lavoratori il cui rapporto di lavoro non viene ripristinato». Ma erano «pienamente legittime» le visite del medico fiscale «per la verifica della comune malattia dei ricorrenti». Risultato finale: ricorso respinto. Resta, a tutti gli italiani, una curiosità: esiste un altro Paese al mondo dove dei lavoratori possano pretendere di restare in cassa integrazione e chiedano i danni per il rientro al lavoro? O c’è, da noi, qualche regoletta eccentricamente mostruosa?

L’innovazione industriale è tutta un flop, i fondi restano nel cassetto

L’innovazione industriale è tutta un flop, i fondi restano nel cassetto

Carmine Gazzanni – La Notizia

Inizialmente il fondo previsto era addirittura di 990 milioni di euro. Tra accantonamenti e tagli vari si è ridotto a 668 milioni. Ma, di questi, concretamente erogati sono poco più di 51. Stiamo parlando del clamoroso flop del fondo, gestito dal ministero dello Sviluppo Economico, creato nel 2007 con la finalità di sostenere e lanciare le imprese indirizzandole verso scenari più competitivi e tecnologici. Non a caso il nome: Progetti di Innovazione Industriale.

Un programma di tutto rispetto che, negli intenti, avrebbe dovuto essere indirizzato a interventi in ben cinque aree tecnologiche considerate strategiche: “efficienza energetica”, “mobilità sostenibile”, “made in Italy”, “tecnologie della vita” e “beni e attività culturali e turistiche”. Il sistema era relativamente semplice: il ministero mette a disposizione i soldi, il privato presenta progetti che la struttura burocratica preposta vaglia, infine viene concesso il finanziamento. Qualcosa, però, non deve aver funzionato. Anzi, più di qualcosa. Cominciamo dal finanziamento. Tramite decreto ministeriale dell’11 luglio 2007, si decide di investire, e tanto, con uno stanziamento da 990 milioni di euro. Una montagna di soldi. Ma ben venga se serve a lanciare l’industria. Peccato però che, causa crisi, il fondo viene drasticamente ridotto. Secondo il rapporto trasmesso proprio in questi giorni dal MiSE al Parlamento, i soldi realmente messi a disposizione sono calati, come detto, a 668 milioni. Poco male, si penserà: parliamo sempre e comunque di un bel gruzzoletto.

Ma ecco il punto: dal 2007, con ben 5 macroaree a disposizione, quante erogazioni effettive saranno state fatte? Il dato emerge dal citato dossier: i soldi concretamente concessi alle imprese private arrivano, nel giro di sette anni, a soli 51 milioni. Briciole, insomma. Basti questo: rispetto al fondo iniziale previsto (990 milioni) parliamo del 5% erogato. Ma non è finita qui. Dei 232 progetti ammessi al fondo, ad oggi, al netto di sospensioni e rinunce, rimangono in vita solo 174. Un po’ pochini. Soprattutto se si considera che, in sette anni, due delle cinque macroaree non sono mai partite: stiamo parlando di “Tecnologie della vita” e “Tecnologie per i beni e le attività culturali e turistiche”. Partiranno prima o poi? Ce lo dice lo stesso rapporto: “permangono fondate perplessità sulla futura concreta attuazione dei due PII non ancora adottati”. Evviva.

Di chi le responsabilità, difficile dirlo. Fatto è che negli anni si sono alternati una serie di enti di controllo: Ipi, Cilea, Invitalia e comitati ministeriali vari. Fino al 2010 (a tanto arriva il rapporto) sono costati 35 milioni. È facile supporre che nel giro di ulteriori 4 anni, i costi di funzione siano perlomeno raddoppiati. Insomma, un fondo bruciato il cui costo di gestione è stato maggiore a quanto erogato. Chiamasi “innovazione industriale”.

Ai minimi la fiducia delle imprese

Ai minimi la fiducia delle imprese

Luca Orlando – Il Sole 24 Ore

Scegliete un dato, uno qualunque. Perché sia che si tratti di prodotto interno lordo o produzione industriale, di domanda interna o export, di erogazione di credito o investimenti, le conclusioni sono pressoché identiche: l’economia italiana va male. Si può discutere sui dettagli, aggrapparsi a qualche zero virgola di differenza nelle stime sul Pil 2014, ma il senso delle statistiche offre in realtà un quadro omogeneo e negativo, rimandando a data da destinarsi ogni possibilità di ripresa.

In un quadro fosco l’ottimismo diventa merce rara. E così, per il secondo mese consecutivo, la fiducia delle imprese ingrana la retromarcia tornando a ridosso dei livelli di inizio anno, a quota 86,6. Ancora peggio il dato della manifattura, dove l’indice arretra per la quarta volta di fila: per trovare un livello più basso occorre tornare ad agosto 2013. Una discesa corale dove cedono terreno industria e servizi, commercio e costruzioni, accomunati dalla debolezza della domanda. Alla cronica assenza del mercato interno si aggiunge infatti ora anche la stasi dell’export, capace di generare nei primi sette mesi dell’anno un magro progresso dell’1,3%, quasi certamente da ritoccare al ribasso alla luce dei pessimi dati extra-Ue di agosto.

Per la prima volta dall’inizio del 2013 i giudizi sui ricavi oltreconfine sono negativi mentre le attese volgono al peggio, appesantite senza dubbio non solo dal rallentamento del commercio mondiale indicato dalla Wto ma anche dai focolai di guerra e dalle tante crisi che si sviluppano attorno a noi, a cominciare da quella aperta con Mosca. Fiducia in calo soprattutto perché osservando il portafoglio ordini le aziende continuano a vedere nero, soprattutto in casa: a considerare “alto” il livello degli ordini nazionali è una sparuta pattuglia, il 5% del campione tra le realtà manifatturiere, mentre all’estremo opposto, insoddisfatte del livello attuale delle commesse interne sono ben 43 imprese su 100. Appena un poco meno sbilanciato il dato se la domanda riguarda l’economia nazionale, vista in crescita da sei aziende su 100, in calo da 28.

Sulla manifattura pesa come un macigno il rallentamento della produzione industriale, tornata dopo otto mesi di oscillazioni esattamente sugli stessi livelli di un anno fa. Risultato poco brillante per chi deve recuperare un 25% di gap rispetto ai valori pre-crisi, anche se forse su una crescita “zero” altri comparti metterebbero la firma. A cominciare dalle costruzioni, la cui fiducia scende per il secondo mese consecutivo dopo un timido tentativo di rimbalzo estivo. Del resto si tratta del comparto che forse più di altri ha pagato il crollo della domanda, per definizione solo interna, con una caduta produttiva che ancora procede a doppia cifra, giù del 10,2% a luglio. Rispetto al 2010 manca all’appello il 27% del mercato e a cascata questo provoca ondate telluriche sui tanti settori legati al mattone: dalle caldaie alle piastrelle, dagli infissi ai rubinetti, iniziando ovviamente dal cemento. I cui consumi a fine anno dovrebbero scendere in Italia al di sotto dei 20 milioni di tonnellate, un livello che non si vedeva nel Paese dall’inizio degli anni ’60.

Ottimismo in fase calante anche nel settore del commercio al dettaglio dove ormai l’unico canale a resistere è quello dei discount. Ed è proprio qui, tra i commercianti, che si verifica l’arretramento maggiore dell’indice, un calo di oltre cinque punti che riporta indietro le lancette di quasi un anno. Un dato brutto, quello di settembre, che secondo l’economista di Intesa Sanpaolo Paolo Mameli non solo rende ora «molto probabile» un calo del Pil italiano nel terzo trimestre ma mette anche a rischio la previsione di una ripresa dell’attività economica nell’ultima parte dell’anno.

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Roberto Giovannini – La Stampa

«L’articolo 18? Stiamo discutendo di un tema che riguarda 3mila persone l’anno in un Paese che ha 60 milioni di abitanti», ha detto nei giorni scorsi il premier Matteo Renzi. Si sbaglia: secondo i dati ufficiali del ministero del Lavoro, solo nel gennaio-giugno 2014 ha riguardato 8537 persone. Potrebbero essere 15-16 mila per l’intero anno in corso.

Pochi, tanti? Noi abbiamo cercato di rispondere alla seguente domanda: quante persone vengono effettivamente licenziate per «giustificato motivo oggettivo» (sono i cosiddetti «licenziamenti economici» di cui si sta discutendo) nelle aziende con oltre 15 dipendenti? La risposta esatta a questa domanda è impossibile darla, per una serie di paradossi legislativi, amministrativi e statistici. Consultando gli unici dati disponibili, quelli del ministero del Lavoro, possiamo dire soltanto che dall’agosto del 2012 (data di entrata in vigore della riforma Fornero del mercato del lavoro) fino al giugno 2014, 39.405 lavoratori sono passati per i meccanismi giudiziari previsti dalla legge. Tanti sono i lavoratori che hanno ricevuto la comunicazione del loro datore di lavoro di volerli licenziare. Non siamo in grado di dire esattamente quanti di costoro abbiano perso il posto: ragionevolmente, si può stimare che almeno tre su quattro (dunque 30 mila circa) alla fine abbiano lasciato la vecchia azienda in cambio di una somma di danaro.

Facciamo un passo indietro. La riforma Fornero del 2012 ha già intaccato in modo significativo l’articolo 18, rendendo possibile (ad alcune condizioni) il licenziamento individuale in una azienda con più di 15 dipendenti. Ricordiamo anche che il licenziamento senza reintegro è possibile anche per «giusta causa» (se il dipendente ruba) e per «giustificato motivo soggettivo (se non lavora). E ci sono i licenziamenti collettivi in caso di crisi aziendale. Quando un datore di lavoro vuole fare un «licenziamento economico», in base alla legge deve avviare una procedura obbligatoria di conciliazione presso la direzione provinciale del Lavoro. Se l’ufficio non risponde in sette giorni il licenziamento è valido (è successo a 490 persone nel primo semestre 2014). Questo tentativo di conciliazione può sfociare in una causa giudiziaria se le parti non si mettono d’accordo (2563 su 8047 sempre nel primo semestre). Oppure in un accordo (4310 situazioni): il lavoratore accetta dei soldi e se ne va (la stragrande maggioranza dei casi) o l’azienda rinuncia al licenziamento (solo 428 casi). In conclusione, certamente degli 8537 lavoratori «pre-licenziati» nei primi sei mesi dell’anno, 4372 hanno finito per perdere il posto. A parte 1174 casi indicati misteriosamente come «altro», del destino dei 2563 andati in tribunale non sapremo mai esattamente nulla. Perché, come spiegano gli esperti, per una strana dimenticanza non è stato assegnato un «codice amministrativo» a questo tipo di cause. Che dunque non sono rilevate statisticamente. Secondo le rilevazioni della Cgil, considerate attendibili, nel 2013 nell’80-90% il giudice avrebbe dato ragione al lavoratore, reintegrandolo nel posto di lavoro. Ma due terzi dei lavoratori reintegrati avrebbe scelto comunque di lasciare il vecchio posto in cambio di un’indennità, maggiore di quella che avrebbe spuntato inizialmente.

Gli scarni dati disponibili consentono di sviluppare alcune considerazioni. Si conferma che in testa alla classifica delle «comunicazioni obbligatorie» ci sono le Regioni dove maggiore è l’attività economica, come la Lombardia, il Lazio e il Veneto. Come fa notare l’ex sindacalista e parlamentare Giuliano Cazzola – sulla base di un recentissimo documento dell’Isfol – «appena approvata la riforma Fornero c’è stata da parte dei datori di lavoro più fortemente motivati a licenziare una immediata attivazione. Questo, insieme alla forte crisi congiunturale a cavallo tra 2012 e inizio 2013, ha fatto sì che inizialmente i numeri dei licenziamenti economici siano stati più importanti».

Alla fine quasi 40 mila casi di avviato licenziamento nelle imprese con più di 15 dipendenti in 24 mesi (se il trend sarà costante, potrebbero essere 17 mila nel 2014) non sono obiettivamente moltissimi. Ma neanche così pochi, dicono in casa Cgil. Primo, perché non sarà mai possibile misurare (finiranno nell’elenco delle «dimissioni volontarie») tutte le situazioni in cui il lavoratore, informato più o meno garbatamente della volontà del suo datore di lavoro di licenziarlo in cambio di soldi, accetta l’assegno e si licenzia. Dunque, dicono i sindacalisti, anche con l’articolo 18 riveduto e corretto da Elsa Fornero, i licenziamenti individuali con indennizzo (tra quelli «nascosti» e quelli ufficializzati con la comunicazione) esistono eccome. Togliere il potere deterrente dell’articolo 18 servirà solo a diminuire l’importo dell’assegno per il lavoratore che perde il suo impiego. E a favorire la cacciata dalle aziende dei lavoratori che verranno considerati, caso per caso, «problematici».

Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Se lo Stato cattivo debitore ti fa licenziare 70 persone

Chiara Merico – Avvenire

«La mia azienda è in liquidazione, anche se vanta un credito verso lo Stato di 4,7 milioni di euro: per questo chiedo al presidente del Consiglio di sederci intorno a un tavolo e trovare una soluzione». Alberto Ricciardi rivolge il suo appello al premier Matteo Renzi, attraverso una petizione lanciata sulla piattaforma Change.org: l’imprenditore toscano è titolare dal 1982 della Fermet, azienda che si occupa della lavorazione di rottami in ferro e della fornitura di materiali metallici per le più grandi acciaierie d’Italia, come l’Ilva o la Lucchini.

«Noi siamo il tramite tra le acciaierie e i piccoli fornitori di questi materiali: lavoriamo con oltre 2mila subfornitori perché in Italia, a differenza di Francia e Germania, il mercato è molto frammentato», spiega l’imprenditore. «Nel 2011 è emerso che alcuni di questi subfornitori avevano acquistato materiale in nero: la Guardia di Finanza è venuta da noi e ha emesso un verbale da 30 milioni di euro, di cui 18 di tasse». La vicenda è stata poi chiarita: già nel 2012, spiega Ricciardi, «l’Agenzia delle Entrate ha emesso una circolare in cui si stabiliva che non spettava a noi il compito di controllare che i subfornitori acquistassero il materiale con regolare fattura». Una seconda procedura di accertamento del Fisco è stata anch’essa ritirata: attualmente la Fermet deve all’erario 200mila euro di sanzioni, che comunque, sottolinea il titolare, «decadranno perché nel relativo procedimento penale lo stesso Pm ha chiesto l’assoluzione, perché il fatto non costituisce reato».

Nel frattempo, però, l’azienda di Ricciardi ha accumulato un credito Iva di 4,7 milioni di euro. «Il blocco dei rimborsi Iva ci ha ucciso: la nostra azienda fatturava circa 250 milioni di euro all’anno, ma nel settore dell’acciaio la marginalità e minima, nell’ordine del 2-3%. Il blocco dei rimborsi, unito all’investimento di 13 milioni che avevamo sostenuto nello stesso anno per costruire un nuovo stabilimento, ci è stato fatale». Così la Fermet ha dovuto chiedere la procedura di concordato. Ma il titolare non ci sta: «Se avessimo incassato quei 4,7 milioni, avrei potuto continuare l’attività: ma non posso ottenerli, perché lo Stato chiede di garantire l’incasso dei rimborsi Iva superiori a 500mila euro con una fidejussione bancaria. Ma quale banca è disposta a garantire un’azienda in liquidazione?» Cosi Ricciardi si è rivolto al presidente del Consiglio – che aveva promesso entro il 21 settembre il saldo dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese – chiedendo che venga eliminato l’obbligo della garanzia bancaria per ricevere i rimborsi. «Serve una proposta di legge in questo senso. Per quale motivo devo tenere l’azienda chiusa, e 70 famiglie senza lavoro, senza contare l’indotto?», si chiede l’imprenditore. «Uno Stato serio deve affrontare il problema».