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Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Matteo-Pinocchio: imprese ancora senza soldi

Stefano Zurlo – Il Giornale

Non siamo in alto mare, ma la riva è ancora lontana. Per arrivare a terra e trasformare l’Italia, almeno su questo lato, in un Paese normale ci vorrebbero altri 35 miliardi di euro. Trentacinque miliardi che le imprese italiane, alle prese con i morsi di una crisi che non vuol passare, aspettano dalla pubblica amministrazione. Niente da fare. Matteo Renzi ha perso la sua scommessa. Qualcosa si è mosso, metà circa dei debiti, a spanne perché pure le cifre sono ballerine e cambiano a seconda di chi le stima, è stata pagata. Ma molto, moltissimo resta da fare. E i tempi della nostra burocrazia sono migliorati ma rimangono lenti. Terribilmente lenti per chi vorrebbe misurarsi con i parametri europei: ci vogliono 165 giorni per saldare il dovuto. Troppi se si tiene a mente che la direttiva dell’Ue indica un periodo che oscilla fra i 30 e i 60 giorni per soddisfare le richieste dei creditori.

È la Cgia di Mestre, l’agguerrita associazione delle piccole imprese venete, a fare due conti e a bacchettare il premier Pinocchio. All’appello mancano almeno 35 miliardi su un totale, quello conteggiato da Bankitalia, di 75 miliardi. Siamo in realtà, considerando anche la porzione di debiti stornata e ceduta agli istituti di credito, a metà, anzi un po’ meno, dell’arduo cammino. Renzi ha illuso gli italiani. La sfida viene lanciata la scorsa primavera quando il premier si presenta nel salotto di Bruno Vespa e azzarda: «Facciamo un contratto serio. Se il 21 settembre, giorno di San Matteo, noi abbiamo sbloccato i pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione lei va a Monte Senario a piedi da Firenze». Vespa ridacchia compiaciuto: «Se riuscite a pagare i debiti io vado in pellegrinaggio». San Matteo è arrivato, ma Matteo, fra una promessa e l’altra, non ha fatto il miracolo. Ha accorciato la distanza che separa lo Stato dalle industrie, ma la vergognosa zavorra che frena lo sviluppo è ancora lì. Fra un discorso e un comizio. I fuochi d’artificio non bastano per far guarire il malato Italia. E la Cgia aspetta al varco, sulla linea del calendario, il presidente del consiglio che non ha onorato il contratto stipulato davanti alle telecamere di Porta a porta. «Purtroppo – spiega il leader della Cgia Giuseppe Bortolussi – la promessa non è stata mantenuta».

I numeri sono impietosi: secondo i dati del ministero dell’Economia nel biennio 2013-14 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi. Entro il 21 luglio ne sono stati pagati 26,1. Non basta. A sentire il ministro Pier Carlo Padoan, dopo il 21 luglio la pubblica amministrazione ha versato altri 5-6 miliardi. Dunque, al momento, dovremo essere a quota 31-32. Un totale ragguardevole, ma lontano dalla meta fissata a quota 66,6. Siamo, sempre a spanne, a 35 miliardi di euro dal traguardo fissato appunto a 66,6 perché allo stock di 75 miliardi devono essere sottratti 8,4 miliardi di debiti girati dalle imprese alle banche e dunque fuori dal perimetro del mondo industriale. Certo, Renzi vedrà il bicchiere mezzo pieno, ma alla Cgia notano quel che manca: «Per azzerare complessivamente il debito accumulato con le aziende – prosegue implacabile Bortolussi – la pubblica amministrazione deve pagare, in linea di massima, ancora 35 miliardi». Il traguardo è ancora un miraggio. E Renzi a questo punto dovrebbe fare penitenza. «Se perdo io la scommessa – aveva detto a Vespa nel corso della trasmissione – potete immaginare dove mi manderanno gli italiani. Non sarà a Monte Senario».

Insomma, l’annuncite del premier rischia, col passare del tempo, di trasformarsi in un boomerang. In una somma impresentabile di sconfitte, ritardi, riforme arenate. E il malcostume non è solo un retaggio del passato. «I debiti – attacca Bortolussi – potrebbero aumentare ulteriormente a seguito del perdurare dei ritardi con cui lo Stato paga i fornitori». Siamo intorno ai 165 giorni. Meglio di prima, ma lontanissimi dalle tabelle europee. «Se in questo ambito – è la conclusione – anche le pubbliche amministrazioni di Grecia, Cipro, Serbia e Bosnia sono più efficienti della nostra, vuol dire che il lavoro da fare è ancora molto». Altro che Monte Senario.

Gli italiani tagliano anche la benzina

Gli italiani tagliano anche la benzina

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’economia non è una scienza esatta, ma un suo postulato pressoché inconfutabile recita che in periodi di recessione non si possono applicare politiche di bilancio estremamente restrittive (tipo aumentare le tasse sperando di fare meno deficit) perché altrimenti la crescita non ritornerà per molto tempo. L’Italia ha spesso ignorato questa semplice regola e, dopo 7 anni di vacche magre, i risultati sono sempre più modesti.

Un esempio lampante viene dal Centro Studi Promotor (Csp) che ha analizzato i consumi di carburanti nei primi otto mesi del 2014. Ebbene, l’utilizzo di benzina e gasolio è diminuito dell’1,4%, la spesa per il loro acquisto è calata del 2,8%, mentre il gettito fiscale ha subito solamente un leggero decremento dello 0,5% annuo a 23,5 miliardi di euro. Questi dati, secondo il presidente di Csp Gian Primo Quagliano, dimostrano che «è stato superato il limite oltre il quale l’aumento dei prezzi deprime i consumi». I prelievi fiscali record sui carburanti – con il continuo aumento delle accise (ed è in arrivo un’altra mazzata) unito a quello dell’Iva – hanno creato questa situazione paradossale: si preferisce lasciare il mezzo di locomozione fermo o si cerca di risparmiare al massimo. «È venuto il momento di ridurre la tassazione», conclude Quagliano sottolineando che anche il bilancio dello Stato ne avrebbe beneficio, poiché più consumi equivalgono a maggiori entrate. Non è un caso che tra il 2007 e il 2013 le vendite di benzina e di gasolio abbiano registrato una contrazione del 20 per cento.

La stessa immagine, riferita però ad altri settori merceologici, viene restituita dal Codacons. Dal periodo pre-crisi (sempre il 2007) a oggi i consumi in Italia sono diminuiti di 80 miliardi di euro. Ciascuna famiglia – in questi sette anni – ha ridotto mediamente gli acquisti per oltre 3.300 euro. La riduzione dei consumi ha superato i 1.300 euro pro capite, neonati compresi. Tra i settori più colpiti dai tagli di spesa operati si evidenziano i trasporti (-23% e il calo dei consumi petroliferi lo conferma), abbigliamento e calzature (-17%), mobili per la casa ed elettrodomestici (-12%). Si riducono anche i consumi primari, con gli alimentari che scendono in 7 anni dell’11,5 per cento. Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, ha individuato nel raddoppio del tasso di disoccupazione (dal 6,1% del 2007 all’attuale 12,6%), che ha determinato un incremento dei senza lavoro di 1,7 milioni di unità, una delle cause principali della débâcle. «Sono anni che gli allarmi sullo stato economico disastroso delle famiglie lanciati dal Codacons rimangono inascoltati dalle istituzioni», ha commentato Rienzi aggiungendo che «il governo, con il bonus da 80 euro, ha gettato solo una goccia nel mare, del tutto insufficiente a risollevare i bilanci familiari».

Ovviamente, il crollo dei consumi non è sintomatico di una povertà diffusa e galoppante. Certamente la condizione reddituale di molte famiglie italiane è peggiorata e confina con l’indigenza. Tuttavia si è verificato quel fenomeno che accade ogniqualvolta le politiche economiche dei governi tendono a creare una situazione di insicurezza peggiorando, come detto, il clima recessivo: non si spende perché si ha paura di diventare poveri o si teme di non poter far fronte a un episodio imprevisto. La mancata spesa diventa risparmio che comunque è ricchezza della nazione. Come ha evidenziato il Censis, nei sette anni della crisi contanti e depositi bancari sono aumentati del 9,2% raggiungendo i 1.209 miliardi di euro a marzo scorso dai 975 miliardi di fine 2007. La propensione al risparmio è salita del 10% negli ultimi due anni nonostante il reddito disponibile sia diminuito dell’1,2 per cento. Più risparmi meno consumi perché il timore è proprio quello di finire in povertà per un italiano su tre. Il premier Matteo Renzi tutto questo lo sa e forse lo dimentica tra una Tasi qui e un’accisa là.

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Debiti PA, il governo manca l’obiettivo: restituiti soltanto 31 miliardi

Roberta Amoruso – Il Messaggero

L’ultimo giorno d’estate è arrivato. E Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo: non dovrà andare a piedi da Firenze a Monte Senario. Perché il premier Matteo Renzi non ha mantenuto la promessa. Gli ormai famosi 57 miliardi di debiti della pubblica amministrazione non sono stati pagati fino all’ultimo euro entro il giorno di San Matteo, il 21 settembre, come aveva firmato e sottoscritto il premier, seppure soltanto a parole, nella ormai storica puntata di «Porta a Porta» del 13 marzo scorso. Non solo. Per la verità non è una questione di spiccioli. Mancano all’appello ben 26 miliardi a fronte dei 57 miliardi di risorse messi già a disposizione dai governi a fronte di debiti della Pa stimati intorno a 60 miliardi alla data del 31 dicembre 2013.

Certo, sono stati pagati più debiti della Pa di quelli rimasti ancora in sospeso visto che lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha fatto sapere nei giorni scorsi che ai 26 miliardi di euro di debiti certificati e già pagati secondo il sito del Mef andrebbero aggiunti almeno altri 5 miliardi (per arrivare a circa 31 miliardi). Ma la promessa di Monte Senario è diventata ormai un simbolo, soprattutto perché nella stessa puntata nel salotto di Vespa lo stesso Renzi ricordava una frase storica di Walt Disney: «La differenza tra un progetto e un sogno è la data». E dunque le date contano, ricordano da Confartigianato e dalla Cgia di Mestre. Ma non perde l’occasione per un tweet anche Renato Brunetta, capogruppo Fi alla Camera: «Domani è 21 settembre (San Matteo): il Mef aggiornerà il sito? Saranno stati pagati tutti i 68 miliardi di debiti Pa promessi da Matteo Renzi?».

A questo punto sarà difficile mettere sul tavolo una nuova data. Ma fonti vicine al Mef parlano di poche settimane, forse un paio di mesi, per portare a termine un percorso già avviato anche per i restanti 26 miliardi. Una buona fetta di debiti sarebbe infatti già in fase di istruttoria. Un passaggio obbligato, questo, con un tempo di 30 giorni per le verifiche, che scatta non appena le imprese fanno domanda di certificazione dei crediti. Il punto è proprio questo infatti per il Mef. Se arriveranno in fretta tutte le richieste di certificazione, ingorghi permettendo, il saldo dei debiti arriverà. Seppure con un rinvio sulla tabella di marcia. Insomma, le risorse stanziate per gli anticipi di liquidità agli enti locali ci sono (circa 57 miliardi appunto). Ma per usufruire delle garanzie dello Stato c’è tempo fino a ottobre e molte imprese si sarebbero mosse in ritardo, a quanto pare. Di qui lo slittamento. Si spera che nel frattempo non si siano accumulati altri debiti. Ma anche su questo, il meccanismo introdotto con l’obbligo di certificazione elettronica (introdotto dal decreto 66) sembrerebbe mettere al riparo da nuovi accumuli.

Intanto, però, i conti non tornano e oltre 20 miliardi rimangono nel limbo. Secondo il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti, mancano all’appello 21,4, vale a dire il 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014, se si considera che al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, stando al sito del Mef. Lo stesso Merletti riconosce gli sforzi fatti negli ultimi due anni «con un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti della Pa (il 3,3% del Pil)». Restano da saldare altri 24-25 miliardi, invece, secondo i conti della Cgia di Mestre che parte dai 56,8 miliardi messi a disposizione dei governi negli ultimi due anni. La cifra è sottostimata, avverte però la Cgia: se dallo stock dimensionato dalla Banca d’Italia (75 miliardi di debiti commerciali) si tolgono gli 8,4 miliardi ceduti pro soluto a intermediari finanziari, la Pa deve pagare ancora 35 miliardi».

Carrello in crisi, dopo la carne addio le uova

Carrello in crisi, dopo la carne addio le uova

Filippo Caleri – Il Tempo

Nella fase economica nella quale si è impantanata l’Italia non vale nemmeno più il detto: «Meglio un uovo oggi, che una gallina domani». Sì, a leggere con attenzione l’analisi della Coldiretti sui comportamenti degli italiani quando fanno la spesa. il dato sul consumo di albume e tuorlo, in calo del 3% nei primi sei mesi dell’anno, è uno di quei messaggi di malessere che arriva dalle famiglie italiane e che dovrebbero fare pensare chi ha in mano la responsabilità del Paese.

Negli anni scorsi, quelli che partono dalla grande crisi del 2008, infatti, l’indicatore della mutazione dei consumi era la terza settimana del mese. In quel momento si registrava statisticamente una diminuzione dell’acquisto di carne, e dunque di proteine animali nobili, e si intensificava quello di uova. La scarsezza di mezzi finanziari iniziava a impone la ricerca del surrogato. E siccome nel tuorlo ce ne sono comunque abbondanti e a un prezzo minore del filetto o delle semplice fettina, molti nuclei familiari impauriti e con l’idea di creare i primi argini alla recessione, hanno cambiato la lista della spesa nell’ultima parte del mese. Un riflesso condizionato di un Paese povero fino a 60 anni fa. Ora però dopo circa sei anni di crisi, di emorragia irreversibile di posti di lavoro e dunque dal complessivo impoverimento della classe media italiana, si comincia a intravedere un’ulteriore peggioramento delle attitudini di consumo degli italiani. Molti hanno, cioè, hanno eliminato o comunque ridotto anche il consumo di uova. Uno scricchiolio impercettibile che segnala il rischio di un autentico crollo.

Certo non si può creare una relazione diretta tra l’uovo e la guerra atomica come faceva in un memorabile sketch del film culto “Febbre da Cavallo” Gigi Proietti, ma nemmeno sottovalutare il fatto che le rinunce nel carrello della spesa un tempo potevano essere legate a stili di vita imposti dalla pubblicità, oggi non più. Sempre secondo l’analisi della Coldiretti, infatti, i consumi alimentari hanno toccato il fondo nel 2014 e sono tornati indietro di oltre 33 anni sui livelli minimi del 1981. Gli italiani nei primi anni della crisi hanno rinunciato soprattutto ad acquistare beni non essenziali, dall’abbigliamento alle calzature, ma poi hanno iniziato a tagliare anche sul cibo riducendo al minimo gli sprechi e orientandosi verso prodotti low cost. Nel primo semestre del 2014 il carrello della spesa degli italiani si è ulteriormente svuotato e pesa l’1,5% cento in meno rispetto allo steso periodo dell’anno precedente, secondo il dati Ismea/Gfk. Si accentua la flessione nel reparto dei lattiero-caseari (-5%),e l’ortofrutta (-2%), nonostante la generale riduzione dei prezzi. A cambiare è anche la qualità dei prodotti acquistati con un calo generalizzato (-0,5%) per tutte le forme di distribuzione alimentare tranne che per i discount, in crescita del 2,4% a maggio. Un segnale confermato dal fatto che più di otto italiani su dieci (81%) non buttano il cibo scaduto con una percentuale che è aumentata del 18% dall’inizio del 2014, secondo il rapporto 2014 di Waste watcher knowledge for Expo. Una leggera inversione di tendenza positiva è attesa per la seconda parte del 2014 perché – conclude la Coldiretti – sarà proprio la spesa alimentare, che rappresenta la seconda voce dei budget familiari, a beneficiare maggiormente del bonus di 80 euro al mese per alcune categorie di lavoratori dipendenti.

In attesa di tempi migliori anche quelli che hanno qualche disponibilità in più la tengono ben conservata in banca sotto forma di liquidità. Il valore di contanti e depositi bancari è aumentato di 234 miliardi di euro negli ultimi sette anni. Le consistenze sono passate dai 975 miliardi di euro del 2007 a 1.209 miliardi nel marzo 2014, con un incremento del 9,2% in termini reali. Lo dice il Censis che spiega come questo sia il risultato dell’incertezza, della paura e della cautela.

“Tutto sul conto corrente”, con la sfiducia boom di risparmi

“Tutto sul conto corrente”, con la sfiducia boom di risparmi

Giuseppe Bottero – La Stampa

Paradossi della recessione: il denaro è poco e gli italiani che temono di impoverirsi si tengono sempre più stretti i loro risparmi. Risultato: i soldi depositati in banca lievitano e i consumi crollano. Dall’inizio della crisi la liquidità delle famiglie è cresciuta di 234 miliardi arrivando – nel marzo di quest’anno – a 1209 miliardi di euro dai 975 del 2007. È il trionfo (amaro) delle formiche, spiega un’analisi del Censis: i risparmiatori ormai sono l’azienda più liquida d’Italia.

È l’effetto della paura: dal secondo trimestre del 2012, infatti, si è registrato una inversione di tendenza nella creazione di risparmi, che dopo anni hanno ripreso un trend crescente, passando da 20,1 miliardi a 26 miliardi di euro nel primo trimestre del 2014, con un incremento del 26,7% in termini reali. La propensione al risparmio è salita dal 7,8% al 10%, pure a fronte di una riduzione, nello stesso periodo, dell’1,2% del reddito disponibile e nonostante la bassa inflazione abbia attenuato la caduta del potere d’acquisto.

Meno redditi, meno investimenti: il trend fotografato dal Censis allontana la data del rilancio. I soldi servono a fronteggiare difficoltà inattese e sentirsi tranquilli, ma il timore di cadere, dicono i ricercatori, «rischia di diventare paranoia». Il 33% degli italiani teme di diventare povero, e solo il 30% sente di avere le spalle coperte dal sistema di welfare, mentre la percentuale sale al 58% in Spagna, 61% nel Regno Unito, 73% in Germania e 74% in Francia. In un contesto cosi difficile, con investimenti e occupazione che non ripartono, gli italiani pensano sia essenziale proteggersi in caso sopravvenga una malattia, la perdita del lavoro o semplicemente un imprevisto. Il 44% risparmia per far fronte ai rischi sociali, di salute o di lavoro, il 36% perché è il solo modo per sentirsi sicuro, il 28% per garantirsi una vecchiaia serena.

La crisi di fiducia – ragionano dal Censis – spinge a usare i soldi a scopo precauzionale, cosi vince la difesa dalle insidie inattese, piuttosto che lo slancio verso l’investimento che rende nel tempo o l’immissione nel circuito virtuoso dei consumi. Avere liquidità disponibile ha continuato ad essere la scelta primaria di tutti, anche di chi, a caccia di buoni rendimenti, è tornato progressivamente a mettere soldi nel risparmio gestito e nelle azioni, dopo il crollo degli interessi sui titoli del debito pubblico. Le consistenze delle quote dei fondi comuni hanno ricominciato ad aumentare dal secondo trimestre del 2012: +82 miliardi di euro al marzo 2014, con una crescita in termini reali del 31%. Le azioni, invece, sono ripartite un anno dopo, dal secondo trimestre del 2013: +140 miliardi di euro al marzo 2014, con una crescita del 17%.

Le “supercazzole” di Matteo. L’ultima è sul 730

Le “supercazzole” di Matteo. L’ultima è sul 730

Riccardo Scarpa – Il Tempo

Quando lo scorso marzo Matteo Renzi si presentò con le famose slides e con il «venghino signori, venghino…» non pochi ebbero la sensazione che palazzo Chigi si fosse improvvisamente trasformato in un supermercato del prendi tre e paghi due. Ma il giovanotto, che da pochi giorni aveva fatto fuori Enrico Letta, riscosse simpatia e forse anche tenerezza. Vuoi vedere che questa volta svoltiamo veramente? Eravamo, e siamo, talmente con il sedere a terra che un po’ tutti diventammo speranzosi in un miracolo improbabile. Quattro riforme in quattro mesi, 80 euro in busta paga, nuova legge elettorale, abolizione delle province, lotta agli sprechi, un simbolico calcio nel deretano dei burocrati europei, gliela faccio vedere io alla signora Merkel. E ieri l’ultima «trovata»: ai cittadini arriverà il 730 precompilato. Tutto facile? No, perché per le detrazioni delle spese mediche bisognerà per forza modificarlo. Quindi rimetterci le mani.

Renzi si presentò a Strasburgo come Telemaco che ha ritrovato il padre Ulisse, pronto con lui a infilzare i Proci che avevano dissipato le sue ricchezze e insidiato la fedele consorte, in questo caso l’Italia. Da presidente di turno della Ue si è ritrovato con la Mogherini commissaria per gli affari esteri, carica del tutto ininfluente nelle decisioni che contano, ma è costantemente sotto gli sguardi severi dell’Europa che decide davvero e che con ipocrita, ma fermissima eleganza, gli ricorda ormai quotidianamente di fare meno chiacchiere e finalmente più fatti. È così che l’annuncite di Renzi è diventata il brand di un governo che promette molto, ma realizza poco.

Quando si scivola nell’annuncite? Quando difetta la coerenza, si fanno fuochi d’artificio. Un giorno Jobs Act, quello dopo riforma del Senato, l’altro ancora riforma della scuola, ma senza un programma di sistema. Tra hashtag, proclami e minacce di ricorso al voto, sono passati sei mesi da quel 22 febbraio in cui nasceva l’esecutivo del segretario Pd e adesso è il momento dei primi bilanci. Il rottamatore ha incassato il decreto Irpef e la riforma del Senato, ma i problemi arrivano quando si parla di numeri: dalla crescita al Jobs Act tutto da definire. E poi i debiti della Pa, il piano scuole e il deficit. Renzi ha azzardato numeri e date. Come quando disse di poter toccare una crescita del 2%. Fondo Monetario, Ocse e agenzie di rating gli hanno fatto sapere che se nel 2015 il pil italiano crescerà dello 0,5 per cento, sarà il grasso che cola che Renzi vorrebbe prosciugare nei bilanci dei vai ministeri con i prossimi tagli, molto lineari, come quelli di Tremonti.

Il Jobs Act, che sta prendendo corpo in queste ore e che dovrà affrontare non poche tempeste, se va bene non sarà operativo prima della metà 2015. La burocrazia, intanto, incaglia i debiti della Pa. Si è scoperto che dei 29 miliardi di euro saldati alle imprese creditrici dello Stato, circa 27 furono erogati dal governo di Enrico Letta. I 68 miliardi promessi sono restati un miraggio. In tema di edilizia scolastica, lo scorso marzo, mese di slides, il presidente del Consiglio aveva annunciato un piano per la scuola da 3,5 miliardi, assicurando che già dall’estate del 2014 sarebbero stati aperti 7 mila cantieri, per un valore di 2,2 miliardi. Per ora, i soldi spendibili ammontano a soli 550 milioni. La cassa in deroga doveva finire, ma è stato necessario rifinanziare gli ammortizzatori, perché i soldi erano già stati spesi. E i sussidi universali? Rinviati a data da destinarsi. Sembra il gioco delle tre carte, anzi una serie di «supercazzole»: spostare i soldi da una parte all’altra in una rincorsa all’emergenza che non conosce fine. Certo, qualcosa è stato fatto. Il ddl Del Rio ha modificato le Province, anche la sforbiciata sul costo dell’energia per le imprese è arrivata, l’addio al bicameralismo perfetto è più vicino, pur se la strada è ancora lunga e impervia, ma i risultati sono lo stesso insoddisfacenti, perché Renzi continua ad annunciare, senza mai sostituire il «faremo» con lo «stiamo facendo». Un po’ come Berlusconi, che pure delle ragioni le aveva, accerchiato com’era in Italia e in Europa. Renzi le ragioni se le costruisce da solo, ma non conclude lo stesso.

Cosicché, tutta l’insorgente delusione che ormai si fa strada negli italiani, è riassumibile nella slide delle auto ministeriali messe in vendita lo scorso febbraio. L’imbonitore Renzi ne voleva vendere 85, ne ha piazzate due o tre. Gli italiani incassano tutto, ma chiedere loro di acquistare dei catorci blindati che bevono due litri di benzina solo con la messa in moto, è davvero troppo.

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Paolo Russo – La Stampa

Il caro-casa non conosce stagioni. Finito con l’estate il balletto sulla Tasi, ecco con l’autunno arrivare la stangatina sull’immondizia. Che secondo la Uil politiche territoriali, che ha elaborato per La Stampa i dati sulla tassa rifiuti, sommata proprio alla Tasi e alle addizionali comunali Irpef – ovunque in salita – si sarebbe già portata via, a chi li ha presi, gli 80 euro messi dal Governo in busta paga. Presentata sotto la nuova sigla Tari, la tassa sull’immondizia nel 2014 continua infatti a lievitare in larga parte d’Italia, nonostante già lo scorso anno siano stati registrati veri e propri maxi-aumenti.

Le rilevazioni della Uil dicono che la tassa rifiuti scenderà di poco quest’anno a Cagliari (-2,9%) e Napoli (-2,8), rimarrà sostanzialmente stabile a Milano e Venezia, ma è ancora una volta in salita a Roma (+3,8%), Torino (+8,8) Genova (8,2), Trieste (+16,3), Bologna (11,1) e Alessandria (+3,3). In valori assoluti l’aumento maggiore sarà pagato da chi abita a Trieste, dove per una famiglia con 4 componenti che abita in un appartamento di 80 metri quadri, quest’anno si pagheranno oltre 44 euro in più, che portano l’assegno da versare per lo smaltimento dei rifiuti alla bella cifra di 318 euro, mentre a Genova la stessa famiglia pagherà 24 euro di sovrapprezzo arrivare a un totale di 321, a Bologna 22 euro ma con un esborso complessivo di soli 221 euro, mentre a Torino per i rifiuti se ne andranno quasi 20 euro in più, per un totale di 245. Pur con un aumento contenuto a poco meno di 13 euro, tra le dieci città esaminate dall’indagine è Alessandria a detenere il record del caro-immondizia, con un versamento che si attesta addirittura oltre i quattrocento euro (sempre per la famiglia di riferimento considerata dai tecnici della Uil). Questo stando alle medie, ma la tassa varierà parecchio in base al principio «più inquini e più paghi», che in molte delibere comunali si traduce in prelievo maggiore per chi ha attività che producono molti rifiuti, tipo ristoranti e pizzerie, mentre in alcune città, come Torino, si è scelto di fare un po’ di sconto a chi fa la differenziata.

Quasi ovunque per la Tari si è versato un acconto tra giugno e luglio, che spesso non conteneva gli aumenti deliberati in queste settimane e che renderanno quindi più salato il saldo, da versare tra ottobre e dicembre a seconda del Comune. Se confrontato con il versamento dello scorso anno quello della Tari 2014 sembrerà tuttavia meno salato ai più. Non fatevi ingannare, è solo un’illusione. Lo scorso anno infatti la tassa sui rifiuti, allora battezzata Tares, comprendeva anche un sovrapprezzo di 30 centesimi a metro quadro, che non andava a finanziare lo smaltimento dei rifiuti ma quei servizi indivisibili per i quali ora paghiamo la Tasi. In pratica quei trenta centesimi li stiamo pagando da un’altra parte.

Per capire quanto i Comuni stiano aumentando il prelievo, per un servizio di smaltimento dei rifiuti che in tante città lascia a desiderare, il confronto più corretto andrebbe fatto con il 2012, quando lo scioglilingua fiscale aveva deciso di battezzare in due modi diversi (Tarsu o Tia la tassa sull’immondizia), ma senza comprendere nel pacchetto di quella imposta una quota per pagare gli altri servizi resi dai Comuni ai loro cittadini e, soprattutto, senza il vincolo, introdotto dalla legge soltanto in seguito, di coprire per intero il costo dello smaltimento rifiuti: il dettaglio che più di ogni altro rende salato l’appuntamento con la Tasi. Ecco allora la tassa lievitare in soli due anni del 98% a Cagliari (si paga insomma quasi il doppio), del 50% a Genova, del 27,2 a Milano e del 13,9 a Torino. A Roma l’aumento è stato contenuto al 3,8%. Ma quella della Capitale è tutta un’altra storia, visto che l’Ama, l’azienda partecipata che dovrebbe tenere pulita la città, fattura servizi per un valore complessivo di 752 milioni ma poi incassa più di un miliardo, per coprire i costi di un carrozzone che fino ad oggi ha prodotto più dirigenti ben pagati che pulizia nelle strade.

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

«Attenzione, l’articolo 18 riguarda 9 milioni di rapporti di lavoro dipendente su 18 milioni, quindi è una protezione che riguarda meno della metà dei dipendenti italiani» ha affermato ieri mattina ai microfoni di Radio24 il giuslavorista e senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino. Un dato incontrovertibile. Ma che fotografa un “mondo immobile”, per usare un’espressione cara a Robert Lucas, teorico assertore della capacità della politica economica di mutare quadri apparentemente immutabili.

Se dai dati di stock volgiamo lo sguardo ai flussi, quelli che fotografano mese dopo mese con quali contratti si entra nel mercato del lavoro, scopriamo che i rapporti sono molto diversi. E che anche se le cose non cambiassero a lungo andare quei 9 milioni sono destinati a ridursi molto velocemente. Vediamo i dati relativi alle comunicazioni obbligatorie del secondo trimestre dell’anno. Dati buoni nonostante la crisi perché, come ha segnalato l’Isfol a fine agosto, segnalano un aumento delle assunzioni (+3,1% su base annua con circa 2.651.000 avviamenti), centrando il il miglior dato dal secondo trimestre del 2012. Ebbene quelle nuove assunzioni sono avvenute per oltre l’80% con contratti flessibili, per i quali non si applica l’articolo 18. Le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sfiorano appena il 15%, gli apprendistati il 3,1%, tutto il resto è flessibile. Per capire il decrescente peso relativo dell’articolo 18 bisogna poi considerare che solo una parte di quel 15% di assunzioni standard è avvenuta in un’azienda con più di 15 dipendenti, unico ambito in cui oggi vale la tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa. Insomma se oggi l’articolo 18 vale per meno la metà dei dipendenti la sua prospettiva sembra ancor peggiore, a dimostrazione di come il dibattito politico nazionale sia sempre inversamente proporzionale agli effetti pratici che una norma ha sulla vita delle persone.

Detto che il superamento dell’articolo 18 riguarda dunque una minoranza di lavoratori c’è ora da chiedersi se servirà a migliorare la qualità del lavoro, ovvero se il Governo vincerà la scommessa che si è dato con la “strategia Poletti”. Come hanno ben riassunto in un loro scritto su lavoce.info gli analisti Isfol Emiliano Mandrone, Manuel Marocco e Debora Radicchia, la strategia prevede «una prima liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine (più quantità) e poi una complessiva semplificazione, con l’introduzione del contratto unico a tutele progressive (più qualità), sperando che la prima tamponi l’emergenza e la seconda sia sostenuta dalla ripresa economica». Prima è arrivato il decreto che ha cancellato le causali e ora dobbiamo aspettare il decreto legislativo che attuerà l’articolo 4 del Jobs Act.

Per sapere se funzionerà bisognerà aspettare e leggere i futuri andamenti del mercato del lavoro, le comunicazioni obbligatorie e, soprattutto, la lettura longitudinale del panel Isfol-Plus che seguirà. I tecnici dicono che già nel primo trimestre di applicazione delle nuove norme si potranno intravvedere segnali concreti, anche se non ancora molto significativi. Dopo 12 mesi si capirà invece meglio se la strategia ha funzionato. In questo caso non vedremo solo più assunzioni con contratto a tempo indeterminato, incoraggiate dal superamento dell’articolo 18. Vedremo anche un rafforzamento del “ruolo di ponte” svolto dai contratti non standard, quando essi assicurano poi una trasformazione a contratti standard. Quel “ponte”, come dimostrano gli analisti Isfol, è stato colpito dalla crisi: se tra il 2005 e il 2006 il 37,5% dei contratti flessibili si trasformava in contratti a tempo indeterminato, tra il 2010 e il 2011 quella percentuale è scesa di 5 punti, al 32,8%.

Il contesto sarà più difficile, perché il mercato del lavoro è diventato in generale più freddo sulle nuove assunzioni, avendo cumulato un calo degli occupati del 4,2% tra il 2008 e il 2013, l’equivalente di un milione di posti in meno. Ma se la “strategia Poletti” riuscirà a centrare l’obiettivo con la «certezza delle non reintegra in caso di licenziamento illegittimo», allora più contratti flessibili potranno essere trasformati in standard e il “ponte” tra quantità e qualità verrà ricostruito.

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Debiti PA, mancano all’appello oltre 20 miliardi

Il Sole 24 Ore

Dal salotto di Porta a porta lo scorso marzo il premier Matteo Renzi aveva scommesso con il conduttore: «Il 21 settembre a San Matteo, ultimo giorno d’estate, se abbiamo sbloccato tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Quel giorno è arrivato: Bruno Vespa può tirare un sospiro di sollievo, gli imprenditori italiani no. «La tappa del 21 settembre ci vede ancora distanti dal traguardo», nota il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti: all’appello mancano 21,4 miliardi di euro perché al 21 luglio sono stati pagati alle aziende 26,1 miliardi, pari al 55% dei 47,5 miliardi stanziati con il Dl Sblocca-Italia e con la legge di stabilità 2014. «La promessa non è stata mantenuta», gli fa eco Giuseppe Bertolussi, presidente della Cgia di Mestre: «Lo Stato italiano rimane il peggior pagatore d’Europa». Per la Cgia, in tutto, i fondi resi disponibili nel biennio 2013-2014 ammontano a 56,8 miliardi, ma alle aziende sono stati pagati soltanto 26,1 miliardi, più gli altri 5-6 miliardi che secondo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sarebbero stati versati dopo il 21 luglio. Insomma: restano da saldare altri 24-25 miliardi.

Debiti commerciali della Pa al 3,3% del Pil
Merletti riconosce gli sforzi compiuti negli ultimi due anni, «che hanno portato a un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato». Ma ricorda che «l’Italia rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti commerciali della Pa, pari al 3,3% del Pil.

La piattaforma per certificare i crediti sconosciuta ai più
Secondo un sondaggio Ispo-Confartigianato condotto su un campione di Pmi, il 61% non sa dell’esistenza della piattaforma governativa web che consente di certificare i crediti commerciali vantati nei confronti della Pa e farsi scontare le fatture in banca (è in virtù di questo sistema che Renzi e Padoan considerano mantenuta la promessa). Del 39% che la conosce, l’ha utilizzata il 9%, che la promuove con un voto più che sufficiente. Gli altri sono scettici sulla sua efficacia e temono che la certificazione allunghi ancora i tempi di riscossione. In cifre, le registrazioni alla piattaforma all’8 settembre risultano 15.613, aumentate al ritmo di 49 imprese al giorno dal 24 agosto. Le istanze di certificazione sono 56.189, per un importo complessivo di 6 miliardi e un importo medio di 107.762 euro.

Scendono i tempi medi di pagamento
Se sul fronte dei debiti arretrati prevale l’incertezza, va molto meglio la situazione dei tempi di pagamento della Pa. L’indagine Ispo-Confartigianato mette in luce come in media tra gennaio e settembre 2014 gli enti pubblici siano passati da 104 a 88 giorni. A sorpresa, gli enti più “virtuosi” sono le Asl che riescono a saldare le fatture in 75 giorni, rispetto ai 106 rilevati a gennaio. Più lenti i Comuni (89 giorni, contro i 104 di inizio anno). Resta peggiore in generale l’attesa al Sud, dove la pubblica amministrazione impiega 108 giorni per saldare le fatture alle imprese (erano 122 a gennaio).

Ma i 30 giorni restano una chimera
Nonostante l’accelerazione, Confartigianato rileva come la meta dei 30 giorni imposti dalla legge in vigore dal 1° gennaio 2013 resti molto lontana. Appena il 15% degli imprenditori interpellati dichiara di essere stato pagato entro un mese, mentre soltanto l’8% delle imprese sostiene di non aver ancora riscosso il credito. Sale peraltro dal 12 al 19% la quota di imprese che segnala comportamenti anomali da parte della Pa, come la richiesta di ritardare l’emissione delle fatture, la pretesa di remissione, la contestazione pretestuosa dei beni e servizi forniti.

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Sotto tiro anche gli altri fabbricati

Il Sole 24 Ore

Non solo prima casa. In una città su due, la Tasi colpisce anche gli immobili diversi dall’abitazione principale. Come dimostrano le elaborazioni del Caf Acli sulle delibere ufficiali, in più di 3.800 Comuni su 7.405 la nuova imposta sui servizi indivisibili comunali si aggiunge all’Imu sugli immobili locati, i fabbricati produttivi, le aree edificabili, gli edifici rurali strumentali. Le regole locali variano secondo molte sfumature, ma la sostanza è che la Tasi – oltre a essere l’erede dell’Imu sulla prima casa – costituisce spesso una sorta di addizionale impropria dell’Imu: stessa base imponibile, identico limite di prelievo dato dalla somma delle due aliquote e scadenze di versamento parzialmente allineate (acconto Tasi al 16 ottobre per i Comuni che non avevano deliberato a maggio, saldo Tasi e Imu al 16 dicembre per tutti i contribuenti).

L’aliquota media della Tasi sugli “altri immobili” è pari all’1,31 per mille. Lontana dall’1,95 per mille della Tasi sull’abitazione principale, ma pur sempre al di sopra del livello base dell’1 per mille. Oltretutto, in questo caso bisogna considerare che c’è anche un limite generale fissato dalla legge, per cui la somma di Tasi e Imu può superare il 10,6 per mille solo se il Comune sfrutta il margine di aumento straordinario dello 0,8 per mille, con un tetto massimo dell’11,4 per mille. È probabile, quindi, che molti dei Comuni che non hanno istituito la Tasi sugli immobili diversi dalla prima casa avessero già l’Imu al massimo e non abbiano voluto fare una sorta di “scambio” tra i due tributi.

A complicare il quadro c’è il fatto che molti Comuni hanno previsto aliquote differenziate tra le diverse tipologie di “altri immobili”, modulando il prelievo in modo diverso – ad esempio – tra abitazioni locate, case sfitte, negozi, capannoni e così via. Sugli immobili affittati, ad esempio, l’aliquota media è pari all’1,33 per mille, mentre la quota a carico dell’inquilino ammonta al 18,4% e si piazza a metà della forchetta dal 10 e il 30% prevista dalla legge. A quanto pare, molti amministratori locali si sono discostati dalla quota minima – che secondo le previsioni della vigilia avrebbe dovuto essere la più usata – per evitare che l’imposta dovuta si riducesse a pochi spiccioli, finendo così sotto la soglia minima di versamento e diventando quasi impossibile da riscuotere in caso di mancato pagamento. È tutto da dimostrare, però, che l’aumento della quota a carico dell’inquilino sia sufficiente a superare questo difetto di costruzione del tributo: oltretutto, a dover pagare non solo gli inquilini, ma gli occupanti in generale, e quindi anche i comodatari, che detengono un immobili in prestito dai parenti, i titolari di contratti di leasing, le badanti e i conviventi non sposati con il proprietario.