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La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

La beffa Tasi, più cara dell’Imu. Detrazioni solo in un comune su tre

Mario Sensini – Corriere della Sera

Il termine è scaduto alla mezzanotte di ieri e i Comuni che non hanno deliberato in tempo le aliquote della nuova Tasi dovranno accontentarsi, a dicembre, di un incasso ridotto. Tutti gli altri sindaci possono sorridere, ed i loro cittadini preoccuparsi. Messe tutte le carte sul tavolo – le delibere comunali – l’imposta destinata a superare l’Imu rischia di essere ben più salata della progenitrice nella maggior parte dei Comuni per molte famiglie italiane, in particolare quelle più povere e quelle con i figli. E più leggera per chi sta meglio. L’Associazione dei Comuni dice che nei municipi dove le aliquote sono state già fissate a maggio, sulla prima casa, si è pagato il 30% in meno, ma i Caf e molti centri studi sono convinti che, alla fine, il conto complessivo sarà più salato dell’Imu 2012, che fu di 4,4 miliardi.

Sugli 8.057 Comuni italiani, quelli che hanno fissato le aliquote Tasi entro la scadenza definitiva sono stati 7.405. Nei poco più di 600 municipi che non hanno voluto o non sono stati in grado di decidere, la Tasi sulla prima casa si pagherà il 16 dicembre in una sola rata, con l’aliquota di base dell’1 per mille (applicata allo stesso imponibile della vecchia Imu: rendita catastale rivalutata del 5% e moltiplicata per 160). Negli altri Comuni la tassa sulla casa di abitazione, dovuta in due rate il 16 ottobre e il 16 dicembre, sarà ben più cara.

Secondo i calcoli del Caf si pagherà l’1,95 per mille, ma è una media di tutti i Comuni, piccoli e grandi: nelle città maggiori il conto sarà di sicuro più salato. Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu. Tra i capoluoghi di provincia, vale la pena di sottolineare, la Tasi non si paga solo a Olbia e a Ragusa. È tuttavia e soprattutto il meccanismo caotico delle detrazioni, più delle aliquote, a generare gli effetti meno gradevoli. Con l’Imu c’era una detrazione fissa di 200 euro, più 50 euro per ogni figlio a carico, mentre stavolta i sindaci sono stati lasciati liberi di scegliere, potendo applicare una maggiorazione dello 0,8 per mille proprio per finanziare le detrazioni, e si sono sbizzarriti con la fantasia. A conti fatti, però, le agevolazioni sono state drasticamente tagliate.

Solo il 35,9% dei Comuni ha previsto uno sconto. Il 15% ha optato per una detrazione fissa, il 19% le ha legate alla rendita catastale della casa, e solo il 13,3% del totale (appena 869 Comuni) le ha concesse per i figli a carico, e quasi in tutti i casi solo a partire dal terzo o quarto figlio. Uno sparuto gruppo di 37 Comuni ha tarato le agevolazioni sul reddito del proprietario, altri 173 si sono affidati all’Isee. Ma solo 179 hanno tenuto conto dei figli con handicap, e 146 hanno previsto sconti in base all’età dei proprietari. Premiando i più anziani, over 65 e over 70, quando uno degli effetti dell’Imu era quello di spostare il carico fiscale dalle nuove alle vecchie generazioni.

Quel poco di funzione redistributiva della vecchia Imu, in ogni caso, non c’è più. Un esempio di come sono destinate a cambiare le cose lo fa Paolo Conti, direttore generale del Caf Acli. Con la vecchia Imu del 2012 (nel 2013 è stata sospesa, e solo in alcuni Comuni si è pagato una quota minima) su una prima casa con valore catastale di 60 mila euro, tassata all’aliquota massima del 4 per mille, si pagavano 40 euro: 240 d’imposta meno i 200 della detrazione fissa. Se ci fosse stato anche solo un figlio, addirittura niente. In un Comune dove non sono previste detrazioni, e sono i due terzi del totale, con la Tasi al 2 per mille (il tetto massimo è il 2,5), quest’anno si pagheranno 120 euro. Al contrario, una casa di abitazione più lussuosa, con un valore di 150 mila euro, se pagava 400 euro di Imu (600 di imposta meno 200 di detrazione), domani pagherà 300 euro di Tasi.

Nei Comuni che hanno optato per le detrazioni è molto più difficile capire fin d’ora, basandosi sulle carte, come andrà a finire. Anche perché la maggiorazione poteva essere spalmata anche sulle seconde case, i terreni, gli esercizi commerciali, i capannoni industriali, dove la Tasi si somma all’Imu, e dove i sindaci, ad ogni buon conto, non hanno rinunciato a fare cassa. Là dove l’Imu non era già ai livelli massimi, e dunque si potevano alzare le tasse, in tanti ci hanno infilato anche la Tasi: metà dei Comuni ha «arrotondato» con la Tasi l’Imu sulle seconde e terze case, sugli esercizi commerciali e gli studi professionali, sulle aree edificabili, sugli immobili agricoli, sui capannoni industriali. Pochissimi, appena il 5%, hanno assimilato alla prima casa gli immobili concessi in comodato ai figli. La metà dei Comuni, piuttosto, ha imposto la Tasi anche sulle case affittate, colpendo anche gli inquilini. Pagheranno, in media, poco meno del 20%. Molti, tra l’altro, ne sono ignari. Ed è un’altra complicazione, perché inquilini e proprietari dovranno provvedere ciascuno per proprio conto ai calcoli e al pagamento della Tasi. Se l’inquilino non paga la sua quota, riceverà prima o poi una cartella esattoriale, ma dopo esser stata esclusa, ora è prevista la responsabilità solidale dei proprietari, che alla fine potranno esser chiamati a pagare.

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

La “pulizia” nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio

Mario Sensini – Corriere della Sera

In vista della prossima legge di Stabilità «il governo sta valutando, oltre alla revisione delle detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali, anche la struttura delle aliquote agevolate dell’Iva» del 4 e del 10%. La possibilità di un nuovo intervento sulla tassa di consumo è stata avanzata ieri in Parlamento dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, quando solo due giorni fa il ministro Pier Carlo Padoan, in televisione a Porta a Porta, rispondendo ad una precisa domanda sull’Iva di Bruno Vespa, aveva detto che il governo «non ha intenzione di aumentare le tasse». Nella maggioranza il Nuovo Centrodestra, e Forza Italia, all’opposizione, sono subito scattate all’offensiva, come le associazioni dei consumatori.

Da quanto pare di capire, tuttavia, il governo non starebbe ipotizzando il semplice aumento delle aliquote Iva agevolate, ma la possibilità di una loro revisione e semplificazione, garantendo una sostanziale parità di gettito rispetto ad oggi. Il governo, piuttosto, sembra propenso a intervenire per sfoltire e, in questo caso, tagliare, la sterminata messe di regimi agevolati concessi a varie categorie di imprese per il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto che per inciso denota un indice di evasione molto elevato, sicuramente tra i più alti d’Europa, e che secondo alcune stime raggiungerebbe addirittura il 25%.

La “pulizia” nel territorio dell’Iva dovrebbe essere uno dei capitoli fondamentali della revisione di tutte le cosiddette “tax expenditures”, e cioè l’interminabile elenco di detrazioni, deduzioni, sconti e benefici fiscali esistenti nell’ordinamento, che sono più di 700 e costano circa 250 miliardi l’anno. Zanetti ha confermato che l’operazione, di cui si parla dal 2011, quando l’allora ministro Giulio Tremonti ne avviò la ricognizione, è allo studio. «Non ci sono ancora posizioni definite, ma si sta valutando. La questione fondamentale – ha detto Zanetti – è che le detrazioni che possono dare il maggior apporto sono anche quelle più sensibili». Ovvero, quelle politicamente più costose.

Gran parte delle detrazioni Irpef riguarda infatti il lavoro, le pensioni, i familiari a carico, la casa, le spese per la salute. Tutti ambiti molto difficili da aggredire, il che limita notevolmente la portata dell’operazione. Nel frattempo, da quando si è cominciato a parlare della loro razionalizzazione, gli “sconti” fiscali hanno continuato ad affastellarsi. Dal luglio del 2011 al giugno del 2014, ne sono stati varati altri 72, di vario genere, con una spesa di 16 miliardi di euro.

Fmi: l’Europa è destinata ad una stagnazione secolare

Fmi: l’Europa è destinata ad una stagnazione secolare

Massimo Tosti – Italia Oggi

Matteo Renzi, che vede corvi dappertutto, adesso ne ha trovato uno (autorevolissimo) che in qualche modo lo assolve, condannando però l’intero continente. E questo non ci consola affatto. Il Fondo Monetario Internazionale ha celebrato i funerali dell’Ue: «L’Europa», ha sentenziato, «rischia una stagnazione secolare». Se vogliamo confidare nel futuro, facciamo le valigie e trasferiamoci in Cina, o in India. L’Europa affonda, e tornerà in superficie nel 2200 e rotti.

Chi conosce la storia non si stupisce. In principio fu la Cina; poi toccò alla Mesopotamia (Sumeri, Babilonesi); quindi fu l’epoca degli egiziani, poi dei greci e dei romani. Nell’anno Mille gli arabi conquistarono parte dell’Europa. Dal Rinascimento ad oggi è stato il Vecchio continente a guidare le danze. I cicli storici si susseguono uno all’altro, e ogni volta c’è una fetta del mondo che prende il sopravvento sulle altre. La globalizzazione ha favorito lo sviluppo di quello che fino a qualche decennio fa definivamo (con un pizzico di disprezzo politicamente scorretto) il Terzo Mondo. E di qui al prossimo secolo sarà proprio il Terzo Mondo (ex paesi in via di sviluppo) a dettare le regole economiche e sociali del pianeta. Dobbiamo farcene una ragione, e correre (per quanto possibile, individualmente: tutti insieme non c’è spazio) ai ripari. Fra pochi anni (meno di dieci) la Cina diventerà la principale potenza economica del mondo, seguita dall’India. Noi europei scaleremo al terzo posto, dietro gli Stati Uniti (boccheggianti). Saranno gli altri a dettare a noi le regole, e non viceversa, come è accaduto di recente.

Siamo un continente malato di vecchiaia, che non ce la fa a reggere le sfide dei Paesi arrembanti, che dimostrano energia e capacità di innovazione di gran lunga superiori alle nostre. Il mondo 2.0 sarà dominato da loro. Ci colonizzeranno, lasciandoci le briciole del progresso in arrivo. Auguriamoci che siano più generosi con noi di quanto noi lo siamo stati in passato con loro. Ma la partita è persa, come afferma il Fondo Monetario Internazionale: noi diventiamo i paria del mondo, e l’euro è destinato al ruolo di una moneta marginale rispetto allo yuan e alle rupie. E Angela Merkel sarà costretta a spogliarsi dei tailleur del potere.

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Ugo Bertone – Libero

«Una batosta per Draghi». Non ha usato mezzi termini il sito del Financial Times per giudicare a caldo l’esito della prima asta Tltro, cioè i prestiti della Bce alle banche perché finanzino l’economia reale dell’Eurozona a secco di capitali. I numeri sono impietosi: a fronte di una previsione di 133 miliardi, ne sono stati richiesti 82,6. Su 382 istituti europei che avevano diritto a partecipare alla distribuzione dei fondi, ben 127 sono rimasti alla finestra. Le banche italiane, per la verità, sono state le più attive, avanzando richieste per 23 miliardi. In particolare Unicredit ha avanzato richieste per 7,7 miliardi, seguita da Intesa (4 miliardi), Mps (3 miliardi) e da Iccrea (2,24 miliardi per conto di 190 banche cooperative). Si sono fatti avanti anche Bper (2 miliardi), Banco Popolare e Credito Valtellinese (1 miliardo a testa), Credem e Carige (attorno a 750 milioni), più Mediobanca (570 milioni). Un elenco che potrebbe salire e non di poco con la prossima offerta di dicembre. Ma anche così il risultato è inferiore alle attese. Alla vigilia il ministro Pier Carlo Padoan aveva, infatti, definito credibile una richiesta di 37 miliardi.

Di questo passo, se il flop si ripeterà a dicembre e nelle successive sei operazioni previste da Francoforte, andranno deluse le speranze del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che da questi prestiti si aspetta, di qui al 2016, 200 miliardi da mettere a disposizione delle imprese con un contributo al Pil di almeno un punto percentuale, ovvero una preziosa boccata d’ossigeno anti-recessione. Ancora una volta, come capita ormai troppo spesso, le previsioni e le speranze dei tecnici si sono rivelate troppo ottimistiche. Senza dimenticare poi che una fetta molto consistente dei nuovi prestiti servirà a ripagare nel prossimo febbraio i debiti con Francoforte legati al primo Ltro.

Ma perché? Per quale motivo le banche sono così restie ad attingere a prestiti allo 0,05% per la durata di quattro anni? La risposta più convincente arriva da Paolo Guida, vicepresidente dell’Aiaf, l’associazione degli analisti finanziari: «Il problema – dice – sta, soprattutto in Italia, più nella domanda che nell’offerta di credito. Le condizioni dell’economia, infatti, non giustificano investimenti da parte delle imprese o l’ulteriore indebitamento delle famiglie». Insomma, il sistema sembra ormai precipitato nella trappola della liquidità descritta da Keynes: non si prendono a prestito quattrini oggi perché, di fronte al crollo dei prezzi, le cose costeranno di meno domani. Ovvero, come recita il proverbio, si può portare il cavallo in riva al fiume ma non lo può costringere a bere. E i cavalli, ovvero le aziende tricolori, sono davvero stremati. Inoltre, a frenare il credito non è tanto la mancanza di liquidità bensì la combinazione tra i vincoli patrimoniali imposti dall’Aqr e il rischio legato agli impieghi.

In questa situazione la Bce paga il prezzo per essersi mossa con eccessivo ritardo. I prestiti Tltro avrebbero avuto ben altro effetto se messi in pratica prima che la situazione si deteriorasse in maniera così tragica. Ma Draghi ha dovuto (e deve) affrontare l’opposizione irriducibile dei falchi tedeschi che si ostinano ad invocare nuova austerità, con il pretesto che ogni allentamento della stretta sia usato come pretesto per non fare le riforme. In questa cornice, però, la relativa sconfitta subìta ieri dalla strategia di Draghi può tradursi in un’occasione di riscossa. Il flop dimostra soprattutto che i mali dell’Europa sono così gravi che non si possono curare con l’aspirina dei Tltro. Ci vuole una terapia più forte: senz’altro è necessario che la Bce possa procedere presto all’acquisto degli Abs (Asset backed securities), ovvero prodotti in cui le banche potranno impacchettare prestiti poco redditizi o comunque “scomodi” come ha potuto fare la Federal Reserve, rivitalizzando il mercato del credito per l’acquisto dell’auto. Ma, soprattutto, super Mario dovrà lanciare il “quantitative easing” europeo, ovvero l’acquisto di titoli di Stato ed azioni in quantità sufficiente per smuovere l’economia. Quanto ci vorrà? Forse non saranno sufficienti nemmeno i mille miliardi di cui ha già parlato Draghi. Ma non è il caso di esitare. Come ha detto lo stesso banchiere romano, di questi tempi «il rischio di non fare è molto più alto di quello di fare».

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Reintegra o risarcimento? L’Italia prova a superare la tutela reale dell’art. 18 nei contratti a tempo indeterminato per i nuovi assunti. In Europa cosa succede? Che l’obbligo del reintegro, come si evince dalla schede qui sotto, è già un’opzione marginale: in pratica per tutti i licenziamenti senza giusta causa (anche economici) le tutele sono essenzialmente monetarie. «La reintegra è facoltativa in Spagna, dopo la riforma Rajoy – ha spiegato il giuslavorista Massimo Lupi dello studio «Lupi&Associati» di Milano – e anche in Germania la tutela reale non è automatica per tutti i casi di licenziamento». Qui, in particolare, c’è un giudizio soggettivo dei giudici. Ma la scelta della tutela reale non è affatto a maglie larghe: «È legata alla possibilità di un ritorno in azienda del lavoratore», ha spiegato il professore di diritto del lavoro a Modena e Reggio Emilia, Michele Tiraboschi. Del resto «in tutti i paesi europei dove è lasciata al giudice la possibilità di prevedere la reintegra – ha aggiunto il professore di diritto del lavoro alla Luiss, Roberto Pessi – l’ipotesi è circoscritta ai casi di nullità dell’atto risolutivo secondo le regole del diritto comune dei contratti».

FRANCIA
Tetto delle sei mensilità
In Francia, per un licenziamento «sans cause réelle et sêerieuse» (cioè, senza una causa reale e seria), il datore di lavoro può opporsi alla reintegra e quindi il giudice può disporre a favore del lavoratore solo un indennizzo non inferiore alle 6 mensilità. La sanzione della reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato non è quindi obbligatoria ed è prevista solo per il licenziamento discriminatorio. Vale a dire quando il licenziamento è nullo per motivazioni attinenti alla sfera privata del lavoratore o intimato a seguito di molestie. In questi casi la reintegra è di diritto per i dipendenti. In tutti gli altri casi scatta invece un risarcimento monetario, un indennizzo, cioè, che aumenta a seconda dall’anzianità di servizio del lavoratore.

GERMANIA
Reintegro non obbligatorio
Qui le tutele si applicano nelle aziende con più di 10 dipendenti, e per i licenziamenti è necessaria una consultazione con il comitato di impresa che, se lo ritiene illegittimo, ricorre al giudice. Che può scegliere tra reintegro e risarcimento. Quindi il reintegro è possibile (ma non obbligatorio) ma è applicato in pochi casi. Questo perché la giurisprudenza tedesca opta per la tutela piena e reale solo se c’è una proficua ripresa della collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore. Quando cioè è possibile un effettivo ritorno in azienda. Un licenziamento è considerato illegittimo quando è basato su fattori inerenti la capacità o le qualità o la condotta del lavoratore. Inoltre per i licenziamenti non economici non è prevista una indennità di licenziamento salvo diversa previsione dei contratti collettivi.

REGNO UNITO
Discrezionalità del giudice
Nel Regno Unito la reintegra del dipendente (in un medesimo posto, «reinstatement», o in un posto diverso e comparabile a parità di retribuzione, «reengagement») è prevista dalla legge ma applicata molto raramente. C’è una forte discrezionalità del giudice (nell’ordine di reintegra). Ma se il giudice ritiene non praticabile il reintegro opterà per una sanzione economica di tipo risarcitoria. La prassi evidenzia come molto spesso i giudici preferiscano condannare al pagamento di una somma di denaro piuttosto alta e che viene ulteriormente incrementata qualora il datore non abbia rispettato la procedura prescritta per il recesso. Il riconoscimento economico (per i licenziamenti ingiustificati) ha dei limiti e comunque varia a seconda dell’anzianità di servizio.

SPAGNA
Dopo la riforma Rajoy
La reintegra è divenuta facoltativa in quanto l’imprenditore può optare per il solo risarcimento del danno in favore del lavoratore corrispondendo una somma che al massimo non può superare i 33 giorni per anno di lavoro invece dei 45 precedenti. La riforma Rajoy in Spagna è intervenuta cercando di rendere meno rigido il mercato del lavoro, in primis innalzando da 6 mesi a un anno il periodo massimo di prova durante il quale è consentito alle parti il libero recesso. Il dipendente a tempo pieno, poi, può essere licenziato anche senza giusta causa. L’azienda è tenuta solo a versargli un risarcimento. Il giudice può emettere sentenza di reintegra in caso di licenziamento illegittimo ma l’impresa può non reintegrare il dipendente pagando un indennizzo

ITALIA
Con la legge Fornero
Nel 2012 è stato modificato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo era quello di marginalizzare la reintegra. Ma l’intervento è stato troppo complesso, e soprattutto troppo interpretabile da parte dei giudici. La norma oggi prevede tante conseguenze diverse a seconda del licenziamento. Per i discriminatori c’è la reintegra più un risarcimento; per i disciplinari, di base, solo indennità tra 12 e i 24 mesi, ma se il disciplinare è fondato su fatti falsi scatta la reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se il licenziamento è fondato su motivi fisici: reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se economico: solo indennità (ma se manifestamente insussistente, reintegra più indennità). Per i collettivi: reintegra se si violano i criteri di scelta; per gli altri casi, indennità.

Stangata sulla tassa di successione

Stangata sulla tassa di successione

Filippo Caleri – Il Tempo

Era il 2001 e l’Italia apprendeva dalle parole dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che una delle tasse più odiate dagli italiani, quella sulla trasmissione dei beni di famiglia per morte o volontà dei proprietari, scompariva dal codice tributario. «Sono state approvate le norme per l’abolizione dell’imposta di successione e donazione» disse allora il Cavaliere aggiungendo anche una frase che forse Renzi dovrebbe ripassare: «Pensiamo che con questo provvedimento si possa contare sul ritorno in Italia di investimenti ingenti».

Sono passati quasi 13 anni da quel momento e dopo un parziale dietrofront sul balzello con l’arrivo al governo del vorace ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, si sta per tornare alla situazione di partenza. Non c’è scampo. La ricerca spasmodica di nuove fonti di finanziamento per il bilancio pubblico spingono i tecnici a raschiare il barile e a verificare tutte le possibili opzioni per reperire soldi. Così, visto che i capitoli di entrata sono però sempre gli stessi, era inevitabile che si andasse a toccare l’imposta sulle successioni. Anche in questo caso la motivazione del rialzo è sempre la stessa: la possibilità di aumentarla è legata al fatto che nel resto d’Europa l’aliquota applicata ai passaggi ereditari è molto più alta che in Italia. Senza tenere conto però che molti capitali italiani sono già andati all’estero a causa del dumping fiscale, ovvero di condizioni favorevoli di trattamento dei redditi, praticati oltreconfine. E che ogni aumento di tasse scoraggia non solo quelli che vogliono investire da fuori ma anche quelli che i soldi li vorrebbero tenere nel Paese.

Eppure quando si tratta di far cassa le motivazioni macroeconomiche passano in secondo piano, salvo poi scoprire tra qualche anno che le misure restrittive hanno provocato più danni del beneficio. Comunque secondo quanto ha riportato il Sole 24 Ore ieri lo scopo che si prefigge il governo è di recuperare almeno un miliardo di euro alzando le aliquote applicate al valore dei beni e abbassando la soglia della franchigia ovvero il tetto esente da contributo allo Stato. La decisione potrebbe essere presentata con la legge di stabilità entro il 15 ottobre.

Una norma che modificherà il quadro esistente che prevede oggi, nel caso di trasferimenti di beni avvenuti dopo la morte del proprietario o ad una sua donazione spontanea, una franchigia di un milione di euro, al di sotto della quale non viene effettuato alcun prelievo. Sopra questa soglia bisogna distinguere diverse aliquote a seconda del grado di parentela: 4%, per i beni devoluti a favore del coniuge e dei parenti in linea diretta, (sopra 1 milione di euro); il 6%, per i beni devoluti a favore di fratelli e sorelle, degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea diretta, (sopra i 100mila euro); 8%, per i beni devoluti a favore di altri soggetti.

Secondo le indiscrezioni del quotidiano economico l’ipotesi a cui il governo lavora è quella dell’aumento delle aliquote e l’abbassamento della franchigia sopra a cui scattano i prelievi. La soglia di 1 milione di euro per gli eredi in linea retta potrebbe essere ridotta tra 200 e 300mila euro. E contestualmente, innalzate le aliquote dal 4 al 5% per gli eredi in linea retta, dal 6 all’8% per gli altri parenti e dall’8 al 10% per gli estranei.

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Comparso quasi per caso 45 anni fa, l’articolo 18 ha resistito a tutti gli attacchi, compresi due tentativi di referendum: nel 2000, promosso dai Radicali per abrogarlo, e nel 2003 da Rifondazione comunista per estenderlo alle piccole imprese (entrambi falliti per mancato quorum dei votanti). Solo nel 2012, con l’Italia sull’orlo del commissariamento, la riforma Fornero ne ha attenuato il grado di protezione. Un tira e molla ultradecennale. Tra destra e sinistra, imprese e sindacati. E pensare che nel testo originale dello Statuto dei lavoratori l’articolo 18 neppure c’era.

La norma che vieta i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, non faceva parte del disegno di legge presentato il 24 giugno 1969 dall’allora ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista, già vicesegretario della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Il provvedimento sulle «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell?attività sindacale nei luoghi di lavoro» fu messo a punto dal giovane e brillante capo dell’ufficio legislativo di Brodolini, il giuslavorista Gino Giugni, di provata fede socialista anche lui. Il governo era guidato dal democristiano Mariano Rumor. In materia di reintegro nel posto di lavoro lo Statuto prevedeva solo l’articolo 10 che, richiamando l’articolo 4 della legge 604 del 1966 che stabiliva la nullità dei licenziamenti discriminatori (per ragioni di credo politico o fede religiosa, o per l’appartenenza al sindacato), aggiungeva «l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».

L’estensione del diritto al reintegro ai casi di licenziamento senza giusta causa e giustificato motivo fu invece il frutto dei lavori in Senato e della pressione degli avvenimenti sociali, con l’escalation degli scioperi, spesso spontanei, cioè non controllati dalle centrali sindacali. Tanto che nella seduta di giovedì 11 dicembre 1969, nell’Aula di Palazzo Madama, il sottosegretario al Lavoro, Leandro Rampa, democristiano, dichiarava: «Il governo ha ritenuto di dovere presentare un emendamento sostitutivo dell’importante articolo 10, dopo aver riconsiderato, sulla scorta anche di indicazioni già emerse in commissione, alcune esigenze che ci sembravano essenziali allo scopo di garantire ulteriormente i diritti dei lavoratori nell’eventualità del licenziamento». In realtà il grosso del lavoro era stato fatto nella commissione presieduta da un altro socialista, Gaetano Mancini. Il diritto al reintegro (significa che il licenziamento è nullo dall’inizio) prendeva il posto della precedente disciplina (legge 604) che dava facoltà al datore di lavoro di riassumere il lavoratore (non gli paga però il dovuto per il periodo in cui è stato senza lavoro) o di versargli un’indennità.

La conquista era solo una delle tante e non apparve neppure tra le più importanti ai sindacati e ai lavoratori, che con lo Statuto ottenevano «l’effettivo ingresso nelle fabbriche dei diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione» (rappresentanze sindacali, diritto di opinione, di assemblea, permessi). Definizione questa che – molti si stupiranno – è di Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro del Pdl quando presentò il progetto di legge di «Statuto dei lavori», il progetto di riforma che si rifaceva ai documenti del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse nel 2002. Altri due socialisti di formazione, Sacconi e Biagi, convinti però che lo Statuto, e in particolare l’articolo 18, non fosse più utile né alle imprese né ai lavoratori di un’Italia che non era più quella delle grandi fabbriche del Nord, ma un’economia postindustriale e globalizzata.

Lo Statuto dei lavoratori giungeva al termine dell’autunno caldo del 1969, stagione di lotte sindacali, ma fuori dai cancelli delle fabbriche perché fino ad allora ai sindacati era impedito di entrarvi. Il conflitto imperversava. Quello sociale era sano, segno di crescita. Purtroppo era anche il tempo delle trame oscure: il 12 dicembre, il giorno dopo il via libera del Senato allo Statuto, l’Italia viveva una delle pagine più buie con la strage di piazza Fontana. Nei mesi successivi, alla Camera, l’articolo 18 non fu messo in discussione e lo Statuto, la legge 300 del 1970 passò il 14 maggio con 217 voti favorevoli (Dc, Psu, Pri, Pli), 10 contrari e 125 astensioni: Msi, ma anche il Pci e il Psiup. I comunisti ritenevano il testo squilibrato a favore delle imprese. La legge entrò in vigore il 20 maggio. A condurla in porto era stato un nuovo ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, democristiano della sinistra sociale. Brodolini, già gravemente malato quando presentò il disegno di legge, morì poco dopo. Negli ultimi giorni, preoccupato per la piega che stava prendendo il dibattito, affidò a Giugni questo messaggio: «Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi».

Tutti i lavori che hanno un futuro (e quelli che svaniranno)

Tutti i lavori che hanno un futuro (e quelli che svaniranno)

Guido Fontanelli – Panorama

Consulenti fiscali, agenti trasporto merci, tecnici in scienze agrarie. Ma anche croupier, riparatori di biciclette, archivisti. Se appartenete a una di queste categorie, attenti: nei prossimi dieci anni è probabile che il vostro posto di lavoro svanirà. O, se andrà bene, non vedrete aumenti di stipendio decenti. Se invece siete direttore delle risorse umane, dentista, ingegnere meccanico o psicoterapeuta, la vostra poltrona è al sicuro. E se vostro figlio vi dirà che vuole diventare coreografo, prima di mettervi le mani nei capelli sappiate che potrebbe essere una professione sicura e di successo.

Come facciamo a saperlo? Grazie a un viaggio nel futuro del mondo del lavoro che ha intrapreso la società di consulenza tedesca Roland Berger, una delle più importanti al mondo. Il think tank interno alla società, il Roland Berger Institute, ha condotto un’indagine in Francia e una in Italia (in esclusiva per Panorama) con l’obiettivo di scoprire quali professioni rischiano di essere travolte dalle nuove tecnologie e quali invece sono più al sicuro. Innovazioni come il web, l’intelligenza artificiale, la disponibilità a poco prezzo di un’immensa mole di dati permettono infatti a poche persone di svolgere più compiti e rendono obsolete funzioni di routine. Così tanti lavori sono destinati a scomparire mentre altri resteranno necessari.

I ricercatori della Roland Berger hanno individuato oltre 600 professioni diverse diffuse in Europa (che non coincidono con le categorie contrattuali italiane) e a ognuna è stata assegnata una percentuale: più alto è questo numero, maggiore è l’impatto negativo che la tecnologia avrà su quel particolare mestiere. «Naturalmente l’impatto dipende dalla velocità con cui ciascun paese adotterà le nuove tecnologie» mette le matti avanti Roberto Crapelli, amministratore delegato della Roland Berger Italia e da oltre 30 anni attivo nella consulenza internazionale. «Le faccio un esempio concreto: già oggi alcune attività che svolge un infermiere in ospedale possono essere affidate a un robot. Ma se il sistema sociale si rifiuta di adottare questa tecnologia. il cambiamento si sposta più avanti nel tempo». Che cosa emerge dall’indagine? «A grandi linee, avranno un futuro i mestieri legati al tempo libero e alla cura delle persone, e le attività impiegatizie superiori dove si decide e si gestisce» dice Crapelli. «Mentre sono più in pericolo i lavori impie- gatizi intermedi, i contabili, i mestieri legati ai trasporti, alla meccanica, al mondo delle costruzioni, grazie al crescente uso di strutture modulari e standardizzate».

Per i servizi sociali, per le professioni sanitarie superiori, per l’istruzione, per i programmatori il cambiamento sarà meno brusco; mentre chi svolge funzioni amministrative e contabili e chi lavora nei settori della trasformazione alimentare o nell’agricoltura, soffrirà di più per l’avvento delle nuove tecnologie. Tra le sorprese, la probabile scomparsa della manicure, sostituita da una macchina, e la tenuta invece dei mestieri legati allo spettacolo.

Resta però un grande dubbio: internet e la digitalizzazione dell’economia distruggono più posti di lavoro di quanti ne creano di nuovi? Erik Brynjolisson e Andrew McAfee della Sloan school of management del Mit di Boston sostengono che è così: i due ricercatori hanno scoperto che fino al 2000 nell’economia veniva rispettata la classica regola secondo cui l’aumento di produttività provocato dalle nuove tecnologie produce nuova ricchezza che alimenta a sua volta nuova attività economica e quindi crea occupazione. Ma dal 2000 il meccanismo si è inceppato, almeno negli Stati Uniti: la curva della produttività cresce a ritmi impetuosi, mentre quella dell’occupazione si affloscia e le due linee divergono in modo preoccupante. Secondo un’analisi di Andrew Cates, economista dell’Ubs, la crescente dematerializzazione dei beni sta riducendo la produzione di oggetti di consumo: «Analizzando i dati sull’economia americana, risulta evidente che, dalla comparsa di internet nella metà degli Anni 90, i volumi di spesa hanno inciso sempre meno sulla produttività. La produzione industriale, del resto, ha subìto una contrazione significativa anche nel Regno Unito, sia in termini assoluti che di creazione di beni capitali. La diffusione di device elettronici e tecnologie di consumo ha acuito questo trend». Crapelli non è così pessimista: «Nella mia esperienza tutte le rivoluzioni tecnologiche hanno aumentato i posti di lavoro. La robotica ha reso inutili gli operai che saldavano i pezzi di un’auto, ma ha fatto aumentare la produzione di veicoli e ha fatto nascere le fabbriche che costruiscono i robot. E se la parte più noiosa di quello che fa un contabile non sarà più necessaria, lui potrà diventare un consulente che ottimizza le spese aziendali. E poi va tenuto conto che in futuro saranno importanti i mestieri ad alto contenuto artigianale: l’Italia qui ha ancora molto da dire».

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione. Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa. L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori.

E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo. In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre 1’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus. Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.

Vent’anni di occasioni perse dall’Italia

Vent’anni di occasioni perse dall’Italia

Claudio Gatti – Il Sole 24 Ore

Di gufi e disfattisti ce ne sono sicuramente. Ma non è certamente per colpa loro che l’Italia sta in fondo alle classifiche che contano per il benessere e soprattutto il futuro di un Paese. Ne basta una per tutte: negli ultimi venti anni, un periodo in cui l’economia mondiale è stata caratterizzata da una crescita senza precedenti dei cosiddetti Investimenti diretti esteri, l’Italia è stata solo sfiorata da un fenomeno che secondo gli esperti fa da cartina di tornasole dello stato di salute di un Paese.

I numeri sono a prova di gufi e disfattisti: tra il 1994 e il 2013, l’Italia ha attratto Investimenti diretti esteri, o Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari. Nello stesso ventennio, la Spagna ne ha assorbiti 567, la Germania 799, la Francia 823 e la Gran Bretagna addirittura 1.418 – quasi cinque volte più di noi. E a meno che non si raggiunga la piena consapevolezza di quanto profondo è il deficit di “attrattività” dell’Italia nel mondo, di quali sono le sue cause e dell’urgenza a porvi rimedio, l’economia italiana è destinata a rimanere esclusa da qualsiasi ripresa. Questo hanno dichiarato all’unisono economisti, consulenti e investitori stranieri consultati da Il Sole 24 Ore per quest’inchiesta. Anche perché gli Ide rappresentano un essenziale veicolo di crescita e trasmissione di sviluppo economico.

Ma cominciamo da un’analisi delle cause. «Le ragioni del peggior andamento dei flussi di investimento estero in Italia sono sia strutturali sia congiunturali», spiega al Sole 24 Ore Riccardo Cristadoro, economista della Banca d’Italia. «Tre i motivi principali: il quadro macroeconomico peggiore, il quadro istituzionale e regolamentare meno favorevole e le ridotte dimensioni d’impresa». I più recenti attestati di disistima straniera sono venuti da due aziende americane, una piccola e una gigantesca. Pochi giorni fa la Alps South, società di dispositivi medici di base a St Petersburg, in Florida, ha annunciato di aver rinunciato ad aprire una filiale in Italia. Quasi simultaneamente Alcoa, terzo produttore mondiale di alluminio con impianti in 44 Paesi, ha deciso la chiusura definitiva del suo stabilimento a Portovesme, in Sardegna. «La fonderia di Portovesme era una delle più costose della rete Alcoa e non c’era possibilità di renderla competitiva», ha spiegato Bob Wilt, presidente di Alcoa Global Primary Products. Adesso ad Alcoa in Italia è rimasto un singolo stabilimento, il laminatoio di Fusina, di fronte alla laguna di Venezia. Contro i 12 stabilimenti in Francia, i 9 in Spagna e i 7 sia in Germania che in Gran Bretagna.

Anche chi investe in Italia lo fa con grandissima cautela e in modo molto opportunistico, insomma a caccia di saldi. Come hanno fatto i grandi fondi americani Blackstone e BlackRock. Quest’ultimo controlla l’1,5% del totale della capitale delle società quotate italiane ed è quindi il primo investitore di Piazza Affari, ma da noi ha investito molto meno che altrove in Europa. Il motivo è chiaramente espresso dal Sovereign Risk Index, l’indice del rischio-Paese che Blackrock ha pubblicato a luglio: su un totale di 50 nazioni prese in considerazione, l’Italia è al 44esimo posto. Davanti solo ad Argentina, Portogallo, Ucraina, Egitto, Venezuela e Grecia.

Illuminante anche l’esperienza di Tandean Rustandy, amministratore delegato di Arwana Citramulia, ditta indonesiana con un fatturato annuale di quasi 100 milioni di euro. «Da quando ho fondato la mia ditta di piastrelle, 21 anni fa, mi sono sempre servito di macchine utensili italiane. Ma in questi due decenni, mentre la mia azienda è cresciuta, uno dopo l’altro i miei fornitori italiani o si sono ridimensionati o sono andati in bancarotta. Uno dei problemi dell’Italia è questo: troppe aziende sono one-man show, con una singola persona che le fonda, le gestisce e prende tutte le decisioni. Non c’è sistema, né senso di appartenenza all’azienda”, dice al Sole 24 Ore Rustandy. Che continua: «Più in generale, dall’estero si ha l’impressione che in Italia oggi ci siano tecnologia, capacità e know-how ma manchino una buona governance e consapevolezza della gravità della crisi. E come può crescere e migliorare un Paese senza governance e spirito competitivo?».

Altra testimonianza diretta viene da Wolfango Piccoli, direttore di Teneo Intelligence, parte della holding di consulenza fondata dal braccio destro di Bill Clinton, Doug Band: «Un nostro cliente, una multinazionale nordamericana, doveva decidere se investire quasi mezzo miliardo di dollari per acquisire una cartiera. Pensava all’Italia e alla Spagna. E alla fine ha optato per la Spagna. Per i soliti motivi: il carico burocratico, i tempi e le incertezze della giustizia civile, la facilità di accesso al credito, la pressione fiscale, l’opacità del sistema normativo italiano e l’impossibilità di fare proiezioni di lungo periodo per via della mutevolezza delle politiche legate alle esigenze di bilancio».

Che negli ultimi vent’anni l’Italia abbia mostrato una minore capacità di attrazione di capitale dall’estero, nonostante la dimensione del mercato e la competitività del suo sistema d’imprese lo vedono anche in Banca d’Italia. «Una determinante che ci penalizza nel confronto internazionale è data dalla qualità delle istituzioni e delle regole di mercato», conferma Cristadoro. Che aggiunge: «Secondo una nostra recente analisi, sembrerebbe che i tempi e la complessità delle procedure burocratiche, più che i loro costi, persino sulle scelte di localizzazione degli investimenti».

Gli stessi handicap che scoraggiano gli stranieri ostacolano ovviamente anche le imprese italiane. «La multinazionale si localizza dove è più conveniente. Se le caratteristiche locali non la favoriscono, non viene. Ma le sue esigenze sono le stesse delle imprese locali. Quindi o si creano condizioni per lo sviluppo – per l’una o per l’altra – oppure ci si rinuncia. Sia per l’una che per l’altra . Non c’è via di mezzo. E negli ultimi due decenni le condizioni l’Italia non le ha sapute creare», spiega Roberto Basile, professore di Economia alla Seconda Università di Napoli che da dieci anni analizza i flussi di Investimenti diretti esteri.

Il suo primo studio, pubblicato nel 2005 assieme ai colleghi Luigi Benfratello e Davide Castellani, ha appurato che «le regioni italiane soffrono di un duplice svantaggio: hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti per gli investitori stranieri e attraggono meno Ide rispetto ad altre regioni europee con caratteristiche simili. Tale gap, quantificato nel 40% in meno, è stato ricondotto ad alcune caratteristiche nazionali». Tra i fattori che alimentano questo gap lo studio segnala l’inefficienza dell’apparato burocratico e del sistema di protezione dei diritti di proprietà, l’elevata rigidità del mercato del lavoro, un farraginoso sistema della giustizia civile e della protezione dei diritti sanciti dai contratti, l’adozione di meccanismi informali di decisione e la scarsa qualità dell’educazione terziaria. Conclusione: «Il sistema-Paese deprime ulteriormente l’attrattività potenziale delle regioni italiane… A parità di caratteristiche osservabili, le regioni italiane sono insomma meno attraenti di regioni con caratteristiche simili collocate in contesti istituzionali diversi… Il che conferma che il basso livello di Ide in Italia sia da attribuire per lo più a fattori istituzionali nazionali».

In un secondo studio di quattro anni dopo, gli stessi autori hanno appurato che il gap è addirittura peggiorato, arrivando a una punta del 75% nel caso degli investimenti in attività manifatturiere. Da allora, dice sconsolato il professor Basile al Sole 24 Ore, «le cose possono essere solo peggiorate, perché non si è fatto nulla per cambiare e migliorare la posizione competitiva dell’Italia». Secondo Basile la situazione non è ancora irrimediabile. E le riforme programmate dal governo Renzi vanno nella direzione giusta. Se realizzate potrebbero dunque favorire un significativo recupero: «Soltanto portando il numero di procedure necessarie a tutelare i diritti contrattuali al valore medio europeo, per esempio, l’Italia registrerebbe un aumento del tasso di attrattività pari a circa il 60%», dice il professore. L’economista di Banca d’Italia Stefano Federico concorda: «L’effetto di una migliore qualità istituzionale non sarebbe trascurabile. E se l’Italia si allineasse alle migliori pratiche dell’Eurozona, i flussi di Investimento esteri diretti ne guadagnerebbero in misura significativa».

Ma il tempo stringe. «Il mondo del business internazionale ha apprezzato l’avvento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, vedendolo come una svolta non solo generazionale», ci dice Piccoli. «Ma non bisogna illudersi che gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di investitori internazionali indichino una maggiore propensione a puntare sul nostro Paese. Perché gli investimenti finanziari oggi entrano e domani escono. Quello che invece serve è l’investitore che ha fiducia nel Paese e vi mette radici creando posti di lavoro. Questo continua a mancare. E la finestra di opportunità, come si dice in inglese, non rimarrà aperta a lungo».