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Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

In origine ci fu un tweet, ovviamente: “#municipalizzate: sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000″. Parola di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, nell’aprile 2014, a poche settimane dall’insediamento. Poi in agosto il “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” di Carlo Cottarelli, allora commissario governativo alla spesa pubblica: sono 7.726 le società che hanno come azionista – maggioritario o meno – le amministrazioni locali, anche se “non si conosce il numero esatto delle partecipate” (sic!), per un totale di 235 mila dipendenti. Poi di nuovo Renzi che annuncia: “Le ridurremo a un ottavo di quante sono oggi”. Quindi, al rientro dalle ferie estive, la rassicurazione del potente sottosegretario Graziano Delrio: “Il governo affronterà la questione in modo organico nella legge di stabilità”. “Una vergogna inaccettabile”, ha ribadito Renzi all’inizio di dicembre alla Camera sulla scorta del tormentone “Mafia Capitale”.

Adesso però il testo definitivo della legge di stabilità c’è, e le municipalizzate sembrano continuare a godere ancora di ottima salute, che si tratti del prosciuttificio o della società del trasporto pubblico locale. A dire il vero di un “processo di razionalizzazione” del capitalismo municipale, in Finanziaria, si parla. In maniera però poco radicale o rottamatrice, a giudicare dai commi 610 e seguenti del maxiemendamento governativo. “Una novità positiva è il riferimento alla soppressione delle partecipate “inutili”, cioè quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali, come agenzie di stampa, assicurazioni e farmacie, nel caso specifico in cui siano ‘composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti’ dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Per il resto il governo si muove, ma come i gamberi, per tornare indietro. infatti la liquidazione delle partecipate inutili doveva avvenire entro il 31 dicembre 2014, cioè entro pochi giorni. Invece, parlando di una nuova scadenza, il 31 dicembre 2015, di fatto si concede un anno in più di tempo agli enti locali. Una proroga che ricorda quella contenuta nel dicembre 2013 nella Finanziaria del governo Letta.

Nel 2012 il decreto Spending review del governo Monti prevedeva lo scioglimento entro il 31 dicembre 2013 delle società “strumentali”, quelle che lavorano quasi totalmente per l’ente pubblico che le controlla; o la loro alienazione dal 2014. In più c’erano le norme ad hoc per le municipalizzate “inutili”, introdotte addirittura nel 2007 e da allora periodicamente rinviate. Fino al rinvio voluto dal governo di grande coalizione di Enrico Letta, appunto; un esecutivo che in alcune fasi sembrò navigare con l’obiettivo di evitare i dossier più spinosi. Ma perché Renzi, sulle municipalizzate, avanza pure lui a suon di annunci e proroghe? La spiegazione ufficiale – che soprattutto i tecnici del ministero dell’Economia (Mef) offrono agli investitori internazionali – è la seguente: “Non si poteva mettere troppa came al fuoco nella legge di stabilità”. Tuttavia negli ultimi mesi c’e stato un altro ostacolo: Palazzo Chigi sembra preferire che sia il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, a tirare le fila dell’iniziativa riformatrice, incentivando così un continuo palleggio tra i due dicasteri (Mef e Pa). Se Delrio annunciava norme chiare già in legge di stabilità, Madia finora sul tema è intervenuta poche volte in pubblico, dando l’idea di un work (molto) in progress: parlò di “riduzione delle municipalizzate” al punto 36 (su 44) della lettera inviata in aprile a tutti i dipendenti della Pa; poi in una recente intervista al Messaggero ha annunciato un “Testo unico” sulle partecipate in arrivo il prossimo anno.

Nella maggioranza dicono che fino a oggi tra i “frenatori” bisogna annoverare proprio l’ipercinetico Renzi, come dimostra la sorte dell’emendamento Lanzillotta-Chiavaroli (di due partiti della maggioranza, Scelta civica e Ncd) che almeno introduceva sanzioni per gli enti locali che non dismettono le partecipate inutili, emendamento cassato a notte fonda dal governo (cioè dal Pd). Il “partito dei sindaci”, con le sue ramificazioni societarie, ha ancora uninfluenza sull’ex primo cittadino di Firenze; visto che Renzi per mesi non ha escluso elezioni nella primavera 2015, finora ha preferito accarezzare quel partito nel verso giusto. D’adesso in poi si cambia?

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Laura Serafini – Il Sole 24 Ore

L’Istat si cimenta in un arduo calcolo che sinora aveva trovato solo risposte vaghe, nonostante esso sia al centro di una della maggiori potenziali operazioni di spending review pubblica. L’Istituto di statistica ha pubblicato ieri un rapporto in cui tenta una quantificazione meticolosa del numero di società a partecipazione pubblica, sia statale che a livello locale. La fotografia, scattata sui dati 2012, inquadra 11.024 società con un totale di addetti che sfiora il milione di persone, per la precisione 977.792.

Il lavoro dell’istituto scaturisce dall’incrocio dei dati di sei fonti: Consob, registro delle imprese delle Camere di Commercio, bilanci civilistici e consolidati delle società di capitali, la banca dati Consoc del dipartimento della Funzione pubblica, le dichiarazioni delle partecipazioni pubbliche al ministero del Tesoro, le dichiarazioni delle partecipazioni detenute dagli enti locali alla Corte dei conti. E per la prima volta fissa un numero laddove prima c’erano piuttosto stime: 7.726 le partecipate degli enti locali che risultano nella banca dati del Tesoro, dato sul quale il commissario Carlo Cottarelli aveva impostato la sua proposta di spending review che avrebbe dovuto portare al taglio di 7mila municipalizzate su 8 mila nell’arco di 4 anni, con un risparmio di 2 miliardi. Anche se Cottarelli riteneva, ora si scopre a ragione, più veritiera la stima della presidenza del Consiglio, che calcolava in 10mila l’universo delle partecipate a matrice pubblica.

L’indagine Istat racconta che le realtà di maggiore dimensione (con più di 250 addetti) sono società per azioni, occupano circa 780mila addetti e sono realtà presenti soprattutto nel settore trasporto e magazzinaggio (116) e nel settore dell’acqua (quindi in sostanza municipalizzate). Il 68,7% delle 11mila realtà censite da Istat è controllata da un solo socio pubblico; quelle però controllate al 100% sono il 25,6 per cento; quelle controllate con quote entro il 50% rappresentano il 29,1%; quelle in cui la quota pubblica è inferiore al 20% sono il 25,6 percento.

Il dato che colpisce di più è il numero delle partecipate che risultano non considerabili tra le imprese attive. Le realtà attive sono complessivamente 7.685. E le altre 3.339 partecipate cosa sono? L’indagine rivela che 1.454 unità sono imprese non attive (dunque con zero addetti) ma che nel corso del 2012 hanno comunque presentato un bilancio o una dichiarazione dei redditi (e tra queste ce ne potrebbero essere alcune in fase di liquidazione). Altre 994 unità sono unità agricole o no profit, con un totale di 16.579 addetti e per le quali l’Istat ha potuto ottenere informazioni attraverso i censimenti 2011. Le restanti 891 unità, con 9.963 addetti, sono definite dal rapporto «non classificabili, che saranno oggetto di ulteriori analisi».

L’indagine si sofferma inoltre sui settori di attività economica dove è presente il maggior numero di partecipate: è quello delle attività professionali, scientifiche e tecniche, con il 13,4 per cento delle imprese e il 2,8% degli addetti. Segue nella classifica il settore del trattamento dell’acqua (con l’11,9% delle società) e poi le attività amministrative e servizi di supporto (con il 10,9% delle società). Nel 23,8% dei casi la sede delle imprese partecipate è situata nel Centro (53,4% degli addetti), con una dimensione media di 278 addetti per impresa, la gran parte è localizzata nel Lazio. La ripartizione territoriale con il maggior numero di partecipate è il Nord-ovest: 27,7% di imprese partecipate, 21,1% di addetti e una dimensione media di 94 addetti per impresa.

Fisco meno caro ma non per tutti

Fisco meno caro ma non per tutti

Alessandro Barbera – La Stampa

L’anno volge al termine e per l’italiano è giunta l’ora di porsi la ferale domanda: nel 2015 pagherò più tasse? Negli ultimi cinque anni la risposta è stata sempre la stessa. Quest’anno le cose andranno diversamente. Non per tutti però. Partiamo dal dato più importante, la cosiddetta pressione fiscale. Il documento di economia e finanza dice che nel 2015 sarà lievemente più alta: il 43,4, appena un decimale in più di quest’anno. Le apparenze non traggano in inganno: l’aumento è dovuto al fatto che le regole contabili europee non contabilizzano il bonus Irpef da ottanta euro come una riduzione fiscale. Nonostante il tentativo di superarlo, il governo si è trovato costretto a confermare un meccanismo perverso che tramuta quei dieci miliardi di minori tasse in maggiori spese. Nella pressione fiscale sono invece calcolati il taglio dell’Irap alle imprese, la decontribuzione per i nuovi assunti, l’aumento delle tasse sui fondi pensione che va ad aggiungersi a quello già previsto quest’anno per depositi bancari e titoli. Il governo Renzi ha scelto di aumentare le tasse sulle rendite (erano mediamente più basse che nel resto dell’Ue) per abbassare quelle sul lavoro. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2012) dicono che se un dipendente italiano costava mediamente all’imprenditore 41 mila euro, al lavoratore andavano meno di trentamila: peggio di noi in Europa facevano solo Danimarca, Germania e Francia. In ogni caso nel 2015 la somma di dare e avere sarà positiva: nel complesso le tasse scenderanno. Ma «complessivamente» non significa necessariamente per tutti. La manovra di Renzi è «di sinistra» molto più di quanto, a sinistra, non si voglia ammettere.

Casa, niente sorprese
Tasi e Imu non riserveranno sorprese grazie al tetto che bloccherà il tetto massimo per le tasse sulle casa. Con un però: i Comuni potranno aumentare l’aliquota Tasi fino allo 0,8 per cento se suddivisa fra prima casa e altri immobili. Chi ha molti investimenti nel mattone ha buone probabilità di pagare di più. In alcune Regioni le brutte sorprese per i più ricchi arriveranno in ogni caso dalle addizionali Irpef. Attenzione alle cronache locali, non c’è momento migliore del Natale per far passare lievemente le cattive notizie. Il Lazio di Nicola Zingaretti ha già messo a bilancio un aumento dell’addizionale dall’1,73 al 2,33 per cento ai redditi sopra i 28mila euro. Per inciso, l’esenzione dagli aumenti ancora non c’è: la maggioranza ha promesso una legge entro aprile. Per i più ricchi in Piemonte si prepara un salasso: aliquota invariata fino a 28mila euro (oggi è del 2,13 per cento), dello 0,44 per cento fino a 55mila, dell’un per cento al di sopra, al quale va poi aggiunto l’aumento del bollo auto. L’addizionale salirà anche in Liguria, con una fascia di esenzione uguale a quella promessa dal Lazio: 28 mila euro annui. In ossequio al federalismo fiscale che c’è, i toscani non avranno di che lamentarsi: invece di aumentare le aliquote il presidente Rossi ha preferito il taglio delle partecipate.

Chi ottiene di più
A questo punto si può tracciare l’identikit di chi con certezza l’anno prossimo pagherà meno tasse: è un lavoratore dipendente, ha uno stipendio di circa 1400 euro al mese e ha al massimo una casa di proprietà. Sopra quella soglia tutto dipenderà da cosa possiede, quante persone ha a carico e soprattutto da dove vive: se possiede più di una casa, ha risparmi, non ha figli a carico e vive nel Lazio o in Piemonte ha ottime probabilità di pagarne di più. Lo scenario si farebbe ancora più cupo se nel frattempo il governo non riuscisse a tagliare la spesa nei numeri promessi. In quel caso – il primo gennaio 2016 – scatterebbero le clausole di salvaguardia previste dalla legge di Stabilità: l’aliquota media Iva salirebbe dal 10 al 12 per cento, quella più alta dal 22 al 24, più un ritocco sulla benzina. La regola aurea del nuovo fisco nei Paesi occidentali è «dalla persona alla cosa». La speranza è di schivarle entrambe.

Partecipate, i bilanci oscure di quante vivono nell’ombra

Partecipate, i bilanci oscure di quante vivono nell’ombra

Pietro De Leo – Il Tempo

Quello delle società partecipate è un allegro paradosso italiano. Se ne conosce l’enormità, la politica si affretta a condannarle in un formale afflato etico ma quando arriva il momento clou non se ne fa nulla. La stessa legge di stabilità, nel testo approvato al Senato, impone agli enti che vantano partecipazioni non virtuose una razionalizzazione, ma non risultano sanzioni. Insomma un «tenetemi che lo picchio» come per i finti bulli, autentici fifoni, dei tempi che furono. Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la riduzione della spesa, nel suo articolato «piano di razionalizzazione delle partecipate locali», era stato chiaro: evitare che le partecipate sconfinassero dai propri compiti istituzionali, magari entrando in concorrenza di mercato con le società private; promuovere l’efficienza attraverso l’applicazione dei costi standard; mettere mano alle forbici per quelle società non operative o non virtuose. Contestualmente al programma fu diffuso l’elenco della galassia di società a partecipazione pubblica.

Così si scopre che la «maglia nera» nelle società con patrimonio netto superiore al milione di euro spetta alla Gestione Agroalimentare Molisana. Un patrimonio netto di 2.109.642 e una perdita che sfiora i 15 milioni di euro. Il Roe è del 691,92% in negativo. Dal suo sito istituzionale, la Regione Molise ci fa sapere che partecipa alla società con una quota del 100%. L’organo amministrativo è composto da un Amministratore Unico che percepisce 50 mila euro annui. Al secondo posto troviamo la «Società per la trasformazione del territorio Holding s.p.a», partecipata al 100% dal Comune di Parma. Nell’oggetto sociale si legge che è un «progetto a realizzazione di interventi complessi per la trasformazione, riqualificazione e valorizzazione del territorio». Tuttavia, l’implacabile tabella di Cottarelli ne segnala una perdita di 27.910.998, con un Roe del 488,29% negativo. Male anche l’aeroporto Gabriele D’Annunzio (che vanta una partecipazione plurima da parte degli enti locali) di Montichiari in provincia di Brescia. Di eroico ha solo il nome. Quanto a performance, il Roe è un disonorevole -217, 65% che segnala una perdita sul 2012 di quasi quattro milioni di euro.

Esistono poi le società partecipate con patrimonio negativo. Al primo posto, con -20.316.751 vi è la società Cmv, 100% partecipata dal Comune di Venezia e che controlla il celebre Casinò. Scorrendo più giù la classifica, troviamo l’Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente, a totale capitale pubblico, con azionista di maggioranza la Regione Piemonte ma con partecipazione anche della Regione Autonoma Valle d’Aosta e il Comune di Torino. Dal sito si legge che «ricopre il ruolo di struttura tecnica di riferimento per lo sviluppo di azioni innovative e per il supporto alle politiche nel campo forestale, ambientale e in quello delle risorse energetiche». Patrimonio netto -196.873. E poi ci sono le società di cui non sono disponibili i bilanci: fra queste la società «Borghi marinari» della Sicilia, il lombardo «Caseificio sociale Valsabbino», la piemontese «Banca del Vino» e la pugliese «Comunità delle Università del Mediterraneo». Oltre che una «Azienda Agricola Dimostrativa» di cui non è possibile risalire né al luogo né agli enti partecipanti. Insomma tra formaggi, vini e fantasmi, c’è veramente di tutto.

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

«Questo Paese svolta in maniera definitiva dal punto di vista della pressione fiscale». Lo ha detto ieri il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, probabilmente nel tentativo di rassicurare contribuenti sempre più dubbiosi. Lo ha ribadito in serata dagli studi di “Che tempo che fa” il premier Renzi, rincarando la dose: «Con la legge di stabilità la pressione fiscale non è invariata, è diminuita», ha detto. Ma lo scetticismo sulla legge di Stabilità è del tutto fondato. Alimentato, più che da retroscena di gufi militanti, dai documenti ufficiali di governo e Parlamento. Il prospetto di copertura della prima «finanziaria» del governo Renzi, ad esempio, ci dice che nel 2016 e nel 2017, metteremo a posto i conti e non faremo più deficit, ma a un costo molto alto. Nel 2016 ci sono 31,7 miliardi di «nuove o maggiori entrate», che diventano 39,1 nel 2017. Sono in parte compensate, è vero, da «minori entrate», quindi da tagli di tasse, imposte e contributi rispettivamente per 9,4 e 9 miliardi. Ma il saldo resta da brividi: più di 20 miliardi nel 2016 e 30 nel 2017.

Nel conto della stangata fiscale futura ci sono soprattutto le clausole di salvaguardia. In altre parole, Bruxelles non vuole incertezze sui conti. Quindi, se una misura deve generare gettito o risparmi e ha effetti dubbi, a garanzia della cifra ci si mette un aumento di tasse certe. È il caso, famoso, delle accise sui carburanti, che potrebbero aumentare per coprire una entrata traballante da 1,7 miliardi, quella sul nuovo meccanismo di conteggio dell’Iva, messo in discussione dall’Ue. Poi ci sono le clausole che il governo Renzi ha ereditato dai precedenti esecutivi, che colpiscono l’Iva. Disinnescato l’aumento nel 2015, ritornano in grande stile dal 2016, quando è previsto un aumento dell’aliquota ordinaria dal 22 al 24% e di quella agevolata dal 10 al 12%. Nel 2018 l’imposta su beni e consumi, a legislazione vigente, dovrebbe arrivare rispettivamente a 25,5% e 13%. Solo le clausole, ha calcolato ieri Il Sole24Ore , a regime, cioè nel 2017, valgono otto miliardi di euro.

Ieri il testo della Stabilità è stato approvato senza modifiche dalla Commissione bilancio della Camera, nonostante i numerosi dubbi. «Abbiamo fatto un po’ di casini», ha ammesso lo stesso Renzi. Esulta il ministro Padoan che ringrazia «i senatori e lo staff del Governo, della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia», ma i dubbi sul testo di legge rimangono. Ad esempio, sul credito di imposta del 10% sull’Irap a favore dei lavoratori senza dipendenti. Una modifica introdotta dal Senato per compensare un effetto indesiderato del taglio dell’imposta per le aziende. L’invito dei tecnici di Montecitorio di verificare la compatibilità con la norma europea ed «evitare eventuali procedure di infrazione», visto che «il beneficio è limitato a specifiche categorie di contribuenti». Problemi anche per lo stanziamento da cui si dovrebbero attingere parte dei 535 milioni di euro da dare alle Poste, per dare attuazione alla sentenza dell’Ue. Il fondo è quasi vuoto. Dubbi anche sul nuovo modo di pagare l’Iva (il cosiddetto reverse charge) che, come detto, è anche incerto per quanto riguarda gli effetti finanziari. Sotto la lente dei tecnici anche la platea dei beneficiari del credito di imposta, che potrebbe essere non aggiornata.

Nonostante il testo licenziato dal Senato sabato notte sia blindato, in Commissione Bilancio della Camera sono stati presentati circa 130 emendamenti. Dopo un primo esame ne sono restati solo 80. Il presidente Francesco Boccia ha dichiarato infatti inammissibili 50 proposte arrivate al testo da M5S, Forza Italia e Sel. Il Movimento 5 stelle ha trasmesso via Youtube la seduta domenicale della commissione Bilancio, con una diretta «clandestina». L’intenzione del governo è e arrivare all’approvazione definitiva della legge di Stabilità in Aula entro martedì, comunque «prima di Natale», perché bisogna «dare segnali di stabilità», ha spiegato il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta.

I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

Giuseppe Bottero e Marco Sodano – La Stampa

Studiate: conquisterete una posizione, la solidità economica. Potrete entrare nel mondo dei professionisti tra notai, architetti, avvocati, ingegneri. Poi la crisi che ha cambiato il mondo ha cambiato anche questo mondo e nel 2015 il reddito medio dei professionisti italiani si fermerà sotto i 30 mila euro, dopo essere già sceso, negli ultimi sette anni, del 15% con punte che arrivano al 24. Significa aver visto sfumare un quarto dei propri guadagni.

È il dramma parallelo a quello della disoccupazione: quello dei poveri che lavorano, le persone che guadagnano meno di 6,9 euro l’ora. E tra questi i professionisti giovani, che continuano a crescere – nel corso del 2013 gli iscritti agli ordini in Italia sono aumentati del 15,7% – ma guadagnano sempre di meno, sfiorano il limite della sussistenza. Per Andrea Camporese, segretario dell’Adepp «il sistema sta costruendo una grande platea di poveri, pensionati che non riusciranno a vivere. Non porsi questo tema oggi è molto grave». E in questo panorama preoccupa soprattutto l’ultima leva: gli incassi chi ha meno di quarant’anni sono inferiori del 48,4% rispetto a quelli dei colleghi over 40. Se i più anziani ed esperti già patiscono la crisi, chiaro che per i nuovi arrivati è il disastro. Giusto che la retribuzione premi l’esperienza, ma quando la distanza arriva ad allargarsi tanto è evidente che il sistema s’è incagliato. Ci sono senz’altro molti ex precari, nella nuova leva dei professionisti: sono stati i pilastri instabili della «generazione mille euro» poi sono messi in proprio, nella maggior parte dei casi più per necessità che per scelta.

I poveri che lavorano sono tanti e soprattutto sono in crescita: rappresentano l’11,7% del totale degli occupati. E la percentuale sale al 15,9% se si allarga l’insieme a quello che contiene le partite Iva. Si arriva alla cifra di 756 mila persone che, semplicemente, non ce la fanno. «A differenza del passato il fenomeno riguarda anche autonomi con dipendenti e i lavoratori più istruiti» racconta Silvia Spattini del centro studi Adapt. Intanto è facile prevedere che la battaglia per la sopravvivenza si farà ancora più dura perché nell’arena stanno entrando anche i cinquantenni usciti dal lavoro e pronti a mettersi in proprio, con un tesoretto in tasca e la possibilità di giocare sui prezzi, abbattendoli.

Ultima doccia gelata, il mancato stop all’aumento dei contributi Inps per gli iscritti alla gestione separata. Dal primo gennaio, infatti, supererà il 30 per cento e poi, gradualmente, raggiungerà il 33%. «I freelance sono l’unica categoria penalizzata, alla faccia del governo sensibile ai giovani e al lavoro del futuro», dice Anna Soru, presidente di Acta, sorta di sindacato di quella che il New York Times, ha ribattezzato “creative class”. Sono soddisfazioni.

Ai giovani si dà poca garanzia

Ai giovani si dà poca garanzia

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Il ministro Giuliano Poletti ha dichiarato di voler apportare correttivi a Garanzia giovani per aiutare di più l’occupazione. «Bene le aperture del Governo. Non è un mistero, infatti, che il primo bilancio del programma Ue, finanziato fino al 2015 con 1,5 miliardi di euro, sia stato finora piuttosto modesto. E soprattutto poco attrattivo per le imprese». Il problema, spiega al Sole 24 Ore il direttore generale di Assolombarda, Michele Angelo Verna, è che Youth Guarantee è stata lanciata con una parola chiave: «occupabilità», come espressamente indicato nelle raccomandazioni europee, con l’obiettivo cioè di «offrire una risposta ai ragazzi al di sotto dei 25 anni, che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro dopo la conclusione degli studi, rafforzandone le competenze a vantaggio delle opportunità di un impiego». E invece cosa è successo? Che il programma è stato esteso anche agli under 29 «Neet», snaturandone così l’obiettivo iniziale e, nei fatti, rivolgendo Garanzia giovani esclusivamente ai ragazzi con maggiori difficoltà a entrare a contatto con le aziende», spiega Verna.

E i numeri, purtroppo, stanno parlando chiaro: finora da maggio 2014, quando è partito il piano Ue anti-disoccupazione, le opportunità di lavoro rese disponibili sono state 27.094, pari ad appena 38.528 posti, sufficienti a coprire solo l’11% degli iscritti complessivi (poco più di 355mila under 29) e l’1,6% dei «Neet» stimati dall’Istat (oltre 2,4 milioni). È chiaro che c’è stato anche un problema di «execution», ancor più grave considerato che qui siamo in presenza di un piano europeo largamente finanziato (degli 1,5 miliardi a disposizione infatti, oltre 1,1 miliardi arrivano direttamente da Bruxelles, poi c’è il co-finanziamento nazionale). Ci sono troppi meccanismi “tecnico-burocratici”. Qualche esempio? «È molto difficile accedere ai bonus occupazionali per la presenza di filtri che impediscono di destinare a tutti i giovani questa misura – osserva Verna -. Inoltre, il sito internet ministeriale è poco funzionale e l’attività di informazione è affidata essenzialmente agli youth corner che di solito sono situati nei centri per l’impiego, non certo luoghi frequentati da ragazzi».

Quanto disposto sul bonus occupazionale è, a dir poco, paradossale: «Le regole ministeriali hanno imposto una serie di limitazioni all’incentivo – dice il dg di Assolombarda -. Esso è riconosciuto esclusivamente per i contratti a tempo indeterminato e per quelli a tempo determinato e di somministrazione. Per questi ultimi con due ulteriori vincoli: che abbiano una durata già inizialmente prevista pari o superiore a 180 giorni; che i giovani siano profilati in fascia di aiuto “alta”o “molto alta”». L’aspetto peggiore è che non è previsto alcun bonus per le assunzioni in apprendistato professionalizzante, che è tipicamente un contratto di formazione sul lavoro e che doveva essere lo strumento principale di Garanzia giovani.

L’impatto di questi lacci e lacciuoli è evidente: in Lombardia su oltre 3mila giovani assunti, solo 270 hanno diritto al bonus occupazionale. Questo perché, principalmente, il profiling del ministero del Lavoro colloca il 95% dei giovani in fascia di aiuto “bassa” o “media” e quindi non titolari di bonus per le assunzioni a tempo determinato. Il rischio, molto concreto, è che, se le norme non dovessero cambiare, il bonus occupazionale di Youth Guarantee potrebbe rimanere inutilizzato, anche a fronte del nuovo sgravio contributivo triennale previsto dal Job Act per le assunzioni a tempo indeterminato a tutele crescenti. Un peccato, specie in regioni come la Lombardia, che premia e incentiva direttamente le imprese (e non finanzia la formazione fine a stessa). La vera scommessa deve essere la formazione finalizzata al lavoro, che di fatto è la formazione on the job. Per questo «c’è bisogno di modificare le regole. Il bonus occupazionale dovrà essere assegnato per i contratti a tempo determinato di 180 giorni, considerando anche le proroghe. Inoltre, va riconosciuto alle imprese che assumono giovani (a prescindere da filtri e discriminazioni) e deve essere utilizzato pure per i contratti di apprendistato professionalizzante».

Anche il sito ministeriale è da rivedere. Dovrebbe essere una “vetrina”. Invece basta aprirlo per capirne l’inefficacia, come sottolinea Verna: «I giovani dovrebbero trovarci offerte di lavoro, ma gli annunci non sono filtrabili né per tipologia di contratto né per titolo di studio,che è l’unica cosa che i ragazzi conoscono con certezza. Mancano sezioni specifiche per chi ha maturato esperienze lavorative. Manca, inoltre, una sezione per individuare l’offerta formativa nei territori: il primo vero canale di “ritorno in attività” dei giovani soprattutto se la formazione è di tipo professionalizzante e maggiormente orientata al lavoro». Senza considerare, poi, che le aggregazioni giovanili non profit sono state totalmente escluse da Garanzia giovani. Come, pure, è mancata la valorizzazione del ruolo delle scuole e delle università.

«Occorre correggere il tiro – aggiunge Verna – e prevedere l’istituzione obbligatoria di servizi di placement all’interno delle scuole sul modello di quanto finora ha attivato la sola Regione Lombardia. C’è anche una scarsa attenzione alla collaborazione pubblico-privato, che in molti territori non valorizza le Agenzie per il lavoro che sono essenziali per garantire la riuscita di Youth Guarantee. Vanno liberalizzati i servizi per l’impiego in un’ottica premiale: chi più aiuta i giovani a inserirsi in azienda, più deve essere finanziato. In nove regioni l’accreditamento delle agenzie per il lavoro non è stato ancora avviato». Insomma, il ministro Poletti, che finora ha mostrato grande capacità di ascolto, «deve dare forti segnali di discontinuità conclude Verna. «È vero, i giovani registrati al programma Ue sono pochi. Nei prossimi mesi cresceranno. Per loro Garanzia giovani rappresenta un’occasione per l’ingresso nel mercato del lavoro. Il Paese non può permettersi di deluderli».

Immobili, 12 decreti in ritardo

Immobili, 12 decreti in ritardo

Raffaele Lungarella – Il Sole 24 Ore

Per la semplificazione e l’accelerazione delle pratiche edilizie all’appello mancano ancora diversi decreti e regolamenti attuativi delle norme di legge che negli ultimi due anni hanno puntato a rendere più fluidi i meccanismi per i lavori e a rilanciare il mercato della casa. Anche in questo campo, l’urgenza che i governi chiamano in causa per giustificare l’emanazione di decreti legge spesso svanisce quando arriva il momento di emanare direttive e decreti ministeriali per dettagliare le misure da adottare, individuare i beneficiari di eventuali agevolazioni, stabilire criteri e modalità operative. Il record nel ritardo di attuazione, in questo campo, spetta alla semplificazione per i piccoli interventi su beni vincolati.

Autorizzazione paesaggistica
Entro il 10 febbraio del 2013 il ministero per i Beni culturali avrebbe dovuto emanare un regolamento per semplificare ulteriormente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità. A maggio di quest’anno, il termine è stato spostato allo scorso 30 novembre, cioè a 32 mesi dall’entrata in vigore del decreto legge 5/2012, che per primo prevedeva il nuovo intervento. Se tutto procederà come previsto, il contatore dei mesi di ritardo dovrebbe fermarsi sul numero 37: il calendario dell’agenda per la semplificazione 2015-2017 del ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia annuncia che il regolamento sarà predisposto entro marzo 2015 . Il testo dovrà disciplinare anche gli interventi minimi per i quali l’autorizzazione paesaggistica non sarà più necessaria. Nel frattempo, il procedimento semplificato esistente oggi continuerà ad essere applicato agli interventi di lieve entità elencati nell’Allegato al Dpr 139/2010.

Ambiente
Continuano a essere applicati i criteri e le regole vigenti anche per la mancata emanazione di decreti e regolamenti in materia energetica e ambientale. La legge di stabilità per il 2014 (legge 147/2013) fissò alla fine dello scorso giugno il tempo a disposizione del ministero dell’Ambiente per dire ai Comuni come calcolare le tariffe per la copertura totale dei costi del servizio relativo ai rifiuti urbani. Ma i criteri non sono ancora stati decisi. Non è, invece, prevista scadenza per il decreto interministeriale con cui rivisitare le metodologie di calcolo per le prestazioni energetiche degli edifici e per l’installazione di fonti energetiche alternative, ma il decreto legge che ne prevede l’adozione (Dl 63/2013) è di giugno 2013.

Alberghi e condo-hotel
La mancata emanazione degli atti amministrativi può anche bloccare sul nascere la realizzazioni di alcuni programmi. È il caso di alcuni interventi da realizzare nel campo della ricettività alberghiera. Entro lo scorso 31 ottobre era atteso un decreto interministeriale con le indicazioni di beneficiari, tipi di opere ammissibili per riqualificare gli alberghi riconoscendo un credito d’imposta sulle spese sostenute per realizzare gli interventi. Inoltre, finché non arriverà il Dpcm (per la cui emanazione non c’è scadenza) di dettaglio delle iniziative, resta bloccata anche la norma, introdotta dal decreto legge Sblocca Italia, che favorisce gli investimenti per la trasformazione in hotel fino al 40% della superficie di un condominio (i cosiddetti condo-hotel).

Aiuti per la casa
Ferme per ora anche le iniziative nel settore della casa previste dal piano casa Renzi e dal recente Sblocca Italia. I ministri delle Infrastrutture e dell’Economia, con loro decreti, devono definire le caratteristiche dei contratti sottoscritti da proprietari e inquilini che vogliono beneficiare delle agevolazioni fiscali, previste dal Dl 47/2014, per favorire l’acquisto di una casa dopo almeno sette anni di affitto. L’assenza di un decreto ministeriale congela anche gli investimenti dei privati intenzionati ad acquistare, avvalendosi di una deduzione dal reddito del 20% su un prezzo fino a 300 mila euro, un’abitazione da affittare per otto anni a canone concordato o comunque più basso di quello di mercato. In entrambi questi casi non è prevista scadenza per gli atti di attuazione.

Imu e cedolare secca
Anche il Cipe è in ritardo. Entro lo scorso 27 giugno avrebbe dovuto aggiornare la lista dei Comuni ad alta tensione abitativa dove applicare la cedolare secca con aliquota al 10% alle case affittate a canone concordato, come prevede il Dl 47/2014. Intanto, resta valido l’elenco del 2004. Devono ancora attendere, infine, i contribuenti che hanno versato erroneamente la quota statale dell’Imu: i Comuni non possono rimborsarla perché, a un anno dall’approvazione della norma che lo prevede, mancano le indicazioni ministeriali.

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Altro che posto fisso, si lavora solo a ore

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Archiviata la prospettiva di un posto fisso, per molti l’unica alternativa alla disoccupazione è saltare da un impiego precario all’altro anche nella formula dei cosiddetti mini-jobs. Si tratta del gradino più basso del precariato, sottopagato e ad elevata incertezza. A guidare l’exploit i settori del commercio, della ristorazione, del turismo e dei servizi. A tirare un bilancio è uno studio della Cgia di Mestre. Casalinghe, pensionati, badanti, studenti, disoccupati e «dopolavorisiti» sono le categorie che usufruiscono più di tali voucher, ovvero della possibilità di essere «assunti» per qualche ora da un committente venendo retribuiti attraverso l’utilizzo di un «buono- lavoro» di 10 euro lordi all’ora (pari a 7,5 euro netti).

I mini-jobs proliferano soprattutto nel Nordest: l’anno scorso sono stati venduti oltre il 40% del totale nazionale dei «buoni»: il 28,5% nel Nordovest, il 16,6% nel Centro e il 14,8% nel Sud e nelle Isole. Dal 2012, dice ancora la Cgia, anno in cui questo strumento è stato esteso a tutti i settori economici, il ricorso è più che triplicato: da poco più di 23.800.000 ore utilizzate due anni fa si è passati a 71.600.000 ore previste per l’anno in corso. Numeri triplicati anche se si analizza il trend dei lavoratori interessati: nel 2012 sono state coinvolte poco più di 366.000 persone, quest’anno, invece, ne sono previste più di un milione.

Ma questa forma di precariato ha comunque un risvolto positivo. Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, spiega che «proprio in virtù di questo strumento è stato possibile far emergere una quota di sommerso che altrimenti sarebbe stata difficile da contrastare. Ora, anche i lavoretti saltuari sono tutelati. In più, chi viene assunto per poche ore con questi buoni può menzionare nel suo curriculum questa esperienza. Inoltre, per limitare l’utilizzo improprio di questi buoni, il legislatore ha stabilito che ognuno di questi deve essere orario, datato e numerato progressivamente». Tuttavia, la possibilità di aggirare la norma non manca: purtroppo, questa possibilità è presente in qualsiasi caso, figuriamoci quando si tratta di un accordo che, come in questi casi, è di natura verbale.

I voucher rappresentano un sistema di pagamento che i datori di lavoro possono utilizzare per remunerare quelle prestazioni svolte al di fuori di un normale contratto di lavoro, garantendo al prestatore d’opera la copertura previdenziale presso l’Inps e quella assicurativa presso l’Inail. Sia per l’imprenditore sia per il lavoratore la legge stabilisce degli importi annui limite oltre ai quali l’utilizzo dei voucher non è più consentito. Lo scarto tra il numero dei voucher utilizzati e quelli venduti si sta assottigliando sempre di più: se nel 2013 l’incidenza dei primi sui secondi era dell’88,5, per l’anno in corso ale al 93,8%. Nel 2013, ultimo anno in cui sono disponibili i dati ufficiali, i settori maggiormente interessati dall’utilizzo di questi «buoni-lavoro» sono stati il commercio (25,2% del totale dei lavoratori coinvolti), il turismo-ristorazione (17,6%), e i servizi (13,6). Resta comunque molto elevato l’uso dei voucher anche nel settore manifatturiero (19,5%).

Nella giungla dei sussidi

Nella giungla dei sussidi

Maurizio Maggi e Gloria Riva – L’Espresso

Così fan tutti. Niente di illegale, per carità. Tutto in punta di norma, come nella storia di Gennaro, assunto con la qualifica di operaio nel 1989 in uno stabilimento di Airola, Benevento, che era della Pirelli e ora è della Tta Adler, dove si fanno componenti in fibra di carbonio per l’auto. Una fabbrica passata attraverso mille traversie. «Tra una cassa integrazione e un sussidio, dal 1992 a oggi ho lavorato 7-8 anni», racconta a “l’Espresso” l’operaio campano, che per riservatezza preferisce non divulgare il suo cognome. Adesso prende circa mille euro al mese di mobilità (anche grazie agli assegni familiari, avendo due figli). Quando la crisi morde – e quella di oggi ha i denti di un insaziabile coccodrillo – la dipendenza dagli ammortizzatori sociali, spesso usati in modo distorto, si rivela sempre più naturale. Diventando giorno dopo giorno un peso insopportabile per le casse dello Stato.

La loro riforma è uno degli snodi vitali del Jobs Act voluto dal premier Matteo Renzi e, in parte, sarà oggetto di uno dei decreti in agenda per il Consiglio dei ministri di martedì 22 dicembre. «La precedenza sarà data al contratto a tutele crescenti e all’estensione ai collaboratori dell’indennità di disoccupazione. Mentre delle modifiche alla cassa integrazione straordinaria se ne parlerà a gennaio», spiega Stefano Sacchi, il professore della Statale di Milano che, per conto del ministero del Lavoro, sta elaborando le riforme degli ammortizzatori sociali. La cassa integrazione ordinaria, che interviene nei momenti di difficoltà temporanea delle aziende e che più o meno ha funzionato, non si tocca. Il resto, dalla cassa integrazione straordinaria alla mobilità, alla fine dell’intervento governativo dovrebbe uscirne stravolto. E dovrebbe sparire la cassa in deroga, che in tanti considerano un mostro.

Tra il 2009 e il 2013, secondo la Cgia di Mestre, per gli ammortizzatori sociali si sono spesi quasi 59 miliardi. ll 72 per cento provenienti dai contributi versati da lavoratori e imprese, il resto dallo Stato attraverso la fiscalità. All’accelerata dei costi ha contribuito la cassa in deroga (che costa 1,5 miliardi l’anno), introdotta sei anni fa dal governo Berlusconi per aiutare i dipendenti delle piccole imprese escluse dai benefici della cassa “normale” e che, del resto, non pagano i contributi a carico delle grandi manifatture. «L’uso della cassa integrazione come anticamera della pensione è divenuto palese due anni fa, ai tempi della riforma Fornero: ci siamo resi conto dell’esercito di persone che, facendo due conti, attraverso cassa ordinaria, straordinaria e mobilità, si avvicina alla pensione senza lavorare, o facendolo per pochi giorni al mese, per periodi che vanno dai tre agli undici anni, nei casi più gravi», racconta Antonietta Mundo, capo del servizio statistico dell’Inps fino a un anno fa.

All’Inps, sull’argomento, le bocche di solito sono cucite. Ma Antonietta Mundo, oggi in pensione, può parlare senza peli sulla lingua. Ne ha viste passare tante, troppe, di pratiche “eccezionali” di tutela. Come quella dei quasi 20 mila “prosecutori volontari”, per lo più donne, usciti dal mondo del lavoro nel passato dopo appena 15 anni d’impiego, che versando altri cinque anni di contributi si sono ritrovati giovanissimi a incassare la pensione. Nel mirino dell’ex dirigente Inps c’è pure la “mobilità lunga”, quella che supera il massimo fissato dalle norme in 36 mesi, e che invece «può durare fino a 7 anni per le aziende delle zone depresse. Gli ultimi a beneficiarne andranno in pensione nel 2018, e tra di loro ci sono parecchi dipendenti della vecchia Alitalia». Che di fatto ha chiuso i battenti nel 2008 e che proprio in una zona depressa non è. Però ha goduto di particolare riguardi, diventando un simbolo dell’italianissima stortura. Per non dover fissare misure ad hoc per gli addetti dell’ex compagnia di bandiera, venne varato un fondo speciale. Con il risultato di rendere praticabile per 13mila lavoratori del settore (compresi quelli di Air France, British Airways, Aeroflot e tante altre) un’integrazione per 7 anni, pari all’80 per cento della paga ricevuta nell’ultimo anno. E senza il tetto stabilito dalla legge in circa 1.100 euro. Se, poniamo, l’ultimo stipendio di un dipendente di una compagnia aerea è stato di 5mila euro, nei 7 anni di mobilità lunga può arrivare a 4mila euro al mese. L’esperta statistica dell’Inps sottolinea un altro aspetto patologico nell’approccio alla cassa integrazione straordinaria, quella che dovrebbe scendere in campo quando i problemi sono strutturali: «Si va diffondendo il “metodo Fiat”. Intanto, la si richiede. Poi, se del caso, la si usa spesso proprio come tappa d’avvicinamento alla pensione». Il ricorso alla cassa, alla Fiat, è stato abbondante. Anche in casi in cui l’ipotesi di una reale ripartenza produttiva era una chimera. Come a Termini Imerese, dove l’ultima vettura è uscita dalla linea di montaggio nel 2011. I dipendenti sono in cassa integrazione sino a fine anno, in attesa di un salvatore che (forse) darà loro un lavoro o un’altra razione di cassa. Se il salvatore evapora – è successo anche con l’italo-brasiliana Gri-fa, mentre ora il governo tratta con la torinese Metec – si passerà alla mobilità.

In Italia ci sono quasi 4 milioni e meno di disoccupati e lavoratori beneficiari di un sostegno al reddito, suddivisibili in tre macrocategorie. Nella prima ci sono quelli che l’impiego l’hanno perso e ricevono sussidi ma non sono più legati alI`azienda in cui prestavano la propria opera: erano 351 mila nel 2008, a fine 2103 la crisi economica li ha quasi triplicati (923 mila). La seconda categoria è quella degli “ammortizzati”, coloro che mantengono un rapporto diretto con l’impresa e godono della cassa integrazione: nel 2008 erano 85 mila, ora viaggiano intorno a quota 300 mila. Infine, c’è la famiglia numericamente più grossa – 3,4 milioni, secondo l’ultimo rapporto Istat – che è anche quella che alza meno la voce, perché è meno rappresentata e soprattutto meno garantita, composta da chi ha esaurito tutte le munizioni dopo essere passato da cassa ordinaria, straordinaria e mobilità, e pure dai lavoratori autonomi e parasubordinati a spasso.

«L’Italia ha il record di durata dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali ma intanto ha tagliato del 30 per cento la spesa per le politiche di attivazione al lavoro, mentre altri, tipo Francia o Germania, nello stesso periodo li hanno aumentati sensibilmente», sostiene Romano Benini, consulente del ministero del Lavoro e docente di politiche dell’occupazione. «In tutta Europa, il primo destinatario di politiche attive al lavoro è il disoccupato. Invece noi abbiamo sempre avuto scarsa considerazione per i servizi per l’impiego. Nel 2012 – ultimi dati disponibili – abbiamo speso circa 24 miliardi per tutti i tipi di sussidi (casse integrazioni, indennità di mobilità e disoccupazione, prepensionamenti), contro gli 11,3 miliardi del 2008. Per aiutare disoccupati e inoccupati a formarsi e ricollocarsi abbiamo invece investito 5,6 miliardi, meno dei 6,1 miliardi del 2008». La recessione non aiuta le politiche attive, però meglio si può fare. Benini cita l’esempio di W2W, un programma coordinato Stato-Regioni, gestito dall’agenzia governativa Italia Lavoro. Nel 2010 aveva “preso in carico” 78 mila disoccupati: due anni dopo, il 54 per cento risultava effettivamente impiegato. Numerini, che tuttavia fanno capire l’utilità di un’Agenzia nazionale del lavoro (un obiettivo del Jobs Act) perché se le Regioni seguitano ad andare ciascuna per conto proprio, nessuna politica attiva può funzionare.

I Centri pubblici per l’impiego sono spesso inefficienti. D’altronde, ogni addetto dovrebbe “curare” in media 116 disoccupati (ma 211 in Veneto e 220 in Lombardia), mentre in Inghilterra il rapporto è a 30. Un sistema che, sostengono le agenzie private di collocamento, non può funzionare, anche a causa dell’atteggiamento dei disoccupati stessi. «Da Venezia a Torino abbiamo contattato decine di operai in cassa integrazione e alle dipendenze di aziende prossime alla chiusura. Uno su tre ha scelto di non accettare l’offerta di lavoro, ritenendo più sicuro e confortevole stare in cassa anziché rimettersi all’opera. Ci dicono: “Mi richiami fra qualche mese”, spiega Giorgio Veronelli, direttore della Gch Consulting. Pure il colosso Adecco fatica assai a convincere i cassintegrati a lavorare: «Capita tutti i giorni. Cerchiamo di spiegare a chi non ha un impiego che restare a casa in cassa per anni è un boomerang, più passa il tempo e meno sono appetibili», dice il numero uno italiano Federico Vione, che propone un sistema simile a quello svizzero, dove il sostegno al reddito viene tolto a chi rifiuta più di due proposte di lavoro. Effettivamente, una soluzione del genere dovrebbe far parte del jobs Act anche se certezze non ce ne sono.

La cassa integrazione, insomma, è un insostituibile aiuto, specie in fasi drammatiche come quelle attuali, ma rischia di trasformarsi in una prigione. Ed è anche una sorta di droga – dice un dirigente di Confindustria che vuol restare anonimo – sia per l’azienda che per il lavoratore: «Forse è davvero arrivato il momento di essere coerenti. In tante assemblee delle associazioni imprenditoriali, per esempio, ho sentito tuonare contro la cassa in deroga. Cancelliamola, dicono gli imprenditori. Poi però, quando si conclude la trafila di cassa e mobilità, di fronte all’alternativa se licenziare i dipendenti o farvi ricorso, la cassa in deroga finiscono per chiederla».