Opinioni

Confimprenditori: venti anni per ritornare ai livelli pre-crisi

Confimprenditori: venti anni per ritornare ai livelli pre-crisi

I dati che emergono dalla ricerca effettuata dal Centro Studi ImpresaLavoro certificano di come sia lenta la ripresa in Italia. Nel nostro paese, dal 2014 al 2015, il numero degli occupati è passato da 22.278.917 a 22.464.753, con una crescita di 185.836 unità in valore assoluto e dello 0,83% in termini percentuali. Questo leggero aumento dell’occupazione, però, non si è distribuito in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale,  tra le 110 province del nostro Paese solo  67 hanno visto salire il numero degli occupati nel 2015, mentre addirittura in 43 hanno conosciuto un arretramento rispetto ai livelli occupazionali del 2014.

Andando avanti così occorrono venti anni per tornare ai livelli pre-crisi  Tra il 2008 e metà 2014, in Italia  infatti sono stati persi 1,2 milioni di posti di lavoro. Solo la Spagna ha fatto peggio, bruciando 3,4 milioni di posti di lavoro. Dopo l’Italia, la Grecia che ha perso un milione di posti di lavoro su una popolazione complessiva, però, molto più piccola. Nello stesso periodo al contrario  in Germania i posti di lavoro sono aumentati di 1,8 milioni e nel Regno Unito di novecentomila.

Confcommercio: la ripresa resta debole

Confcommercio: la ripresa resta debole

Il peggioramento rilevato a febbraio sul versante dell’occupazione (-97mila rispetto a gennaio) e della disoccupazione (+7mila) è l’ennesima conferma della debolezza della ripresa. Il confronto su base annua indica un miglioramento della situazione del mercato del lavoro (+96 mila occupati, -136mila disoccupati), ma i ritmi registrati dall’occupazione a partire dallo scorso mese di settembre non consentono facili ottimismi.Saranno molto lunghi i tempi di recupero degli occupati persi durante la crisi, ad oggi ancora oltre le 700mila unità rispetto al massimo di aprile 2008. Infine, occorre ricordare che i dati mensili sono provvisori e soggetti a forti revisioni che, talvolta, modificano radicalmente verso e intensità della variazione degli occupati osservata in un primo tempo.

Cna: in micro e piccole imprese continua crescita degli occupati

Cna: in micro e piccole imprese continua crescita degli occupati

L’Istat rileva che a febbraio il tasso di disoccupazione è tornato a crescere rispetto al mese precedente. Ma su base annua, quindi in un arco di tempo più ampio e attendibile, gli occupati sono saliti dello 0,4 per cento, mentre sono diminuiti dello 0,7 per cento gli inattivi e del 4,4 per cento i disoccupati. È verosimile che a determinare questa inversione di tendenza rispetto agli anni in cui la crisi ha picchiato più duro siano state le micro e le piccole imprese (Mpi). Lo testimoniano i dati dell’osservatorio mercato del lavoro Cna, che monitora l’occupazione in un campione di 20.500 Mpi con 125mila dipendenti.

Lo scorso febbraio  gli addetti delle Mpi sono aumentati dello 0,4 per cento rispetto a gennaio e del 2,5 per cento su febbraio 2015, l’aumento mensile più elevato degli ultimi quindici mesi. Sono numeri che dimostrano inequivocabilmente, ancora una volta, la centralità e la vivacità delle Mpi nel sistema produttivo italiano e la loro capacità di cogliere al volo anche i più timidi accenni di ripresa.

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

di Giuseppe Pennisi

Il libro “A vent’anni da un’occasione mancata?” di Fabrizio e Stefano Patriarca (rispettivamente un figlio e un padre che coltivano il medesimo interesse per le problematiche del lavoro e del welfare) rivela un enorme incremento delle pensioni di anzianità caratterizzate da età di pensionamento attorno ai 57-58 anni per gli anni 2000-2010 (favorite, peraltro, anche dalla liberalizzazione del cumulo tra pensione e reddito) ossia prima che terminasse il periodo di transizione della riforma del 1995. Ne derivano diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea che di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese.

Queste conseguenze non fanno certamente bene alla finanza pubblica. Fanno bene alla salute di chi va in pensione relativamente giovane? Gabriem Heller Sahalgren della London School of Economics ha appena posto on line un paper (Retirement Blues) in cui vengono analizzati gli effetti sulla salute (in particolare quella mentale) in dieci Paesi europei. Lo studio utilizza sia le “età ufficiali” del pensionamento sia il comportamento degli individui rispetto alla possibilità di anticipare l’andare in quiescenza. I risultati mostrano che nel breve termini gli esiti non sono significativi. Nel lungo termine, però, la decisione di lasciare l’occupazione presto sono negativi. Sotto il profilo statistico, il risultato è “robusto” e riguarda sia le donne sia gli uomini quale che sia il loro livello d’istruzione. A conclusioni analoghe sono giunti studi americani, giapponesi e coreani. In sintesi, ritardare l’età della pensione non fà bene solo alle casse degli enti ma anche alla sanità di mente ed alla produttività.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

di Marco Marin*

L’Inps ha evidenziato le condizioni drammatiche in cui vivono i pensionati italiani: 11,5 milioni di loro percepiscono infatti pensioni inferiori a 750 euro al mese. Una cifra, questa, ben al di sotto del livello minimo di sopravvivenza che un Paese civile dovrebbe garantire a chi ha lavorato una vita. Proprio per questo ho provveduto a depositare una mozione al Senato, a mia prima firma, insieme ai senatori del gruppo di Forza Italia, per tutelare i pensionati. Ricordando bene come il governo Renzi non lo abbia invece fatto quando si è trattato di dare la giusta rivalutazione alle loro pensioni. Lo dichiara il senatore di Forza Italia Marco Marin. La nostra mozione vuole impegnare infatti il Governo a dare piena attuazione alla sentenza 70/2015 della Corte Costituzionale, prevedendo il rimborso completo di tutti i pensionati. Chiediamo inoltre che le modifiche annunciate per favorire la flessibilità in uscita avvengano senza penalizzare i lavoratori con riduzioni del trattamento pensionistico e l’aumento delle pensioni per i soggetti disagiati. Infine, riteniamo doveroso ridurre il livello di tassazione sulle pensioni, che è tra le più alte d’Europa. A differenza del premier abusivo, noi pensiamo alle cose concrete nell’interesse degli Italiani.

*Senatore di Forza Italia, vicepresidente della Commissione Istruzione pubblica e Beni culturali

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

di Cesare Damiano*

Il nostro obiettivo è cambiare la riforma Fornero. E il tema essenziale è quello della flessibilità in uscita: la nostra parola d’ordine è “agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”. Il sistema previdenziale ha bisogno di molte correzioni, in parte dovute a veri e propri errori, come nel caso delle ricongiunzioni, causato da una scelta sbagliata del Governo Berlusconi. Modifiche vanno anche apportate per quanto riguarda i lavori usuranti e i lavoratori precoci, riconoscendo che le attività manuali e più faticose hanno bisogno di un riconoscimento particolare perché la loro aspettativa di vita è mediamente più breve.

Nel prossimo Documento di Economia e Finanza che verrà presentato dal Governo ad aprile, dovrà esserci traccia del tema della previdenza: in caso contrario sarebbe disatteso l’impegno del premier Renzi di fare del 2016 l’anno della flessibilità.

*Presidente della Commissione Lavoro della Camera

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

di Annamaria Furlan*

Cambiare la legge Fornero sulle pensioni è oggi una priorità se vogliamo davvero dare lavoro ai giovani ed aprire una prospettiva nuova nel paese. Per questo occorre uscire da un dibattito astratto, fatto di annunci e promesse di intervento, aprendo un tavolo serio di confronto tra il Governo e le parti sociali, poprio per evitare  che questo tema così delicato diventi terreno di populismi e strumentalizzazioni politiche. È indispensabile ripristinare una flessibilità nell’accesso alla pensione, a partire dall’età minima di 62 anni, oppure attraverso la possibilità di combinare età e contributi. Si tratta di una esigenza urgente che riguarda migliaia di persone, soprattutto chi fa un lavoro usurante e faticoso, con una aspettativa di vita purtroppo differente rispetto ad altre professioni. Se pensiamo poi alle donne, sono state profondamente penalizzate dalla riforma, sia nel settore pubblico che in quello privato, visto che non si è tenuto in minimo conto il lavoro di cura e di assistenza anche ai familiari disabili che tante donne nel nostro paese svolgono nell’arco della loro vita.

I lavori non sono tutti uguali. Questo è stato l’errore grave della riforma Monti-Fornero che con un colpo di accetta ha azzerato il futuro di tanti lavoratori e pensionati. Noi conosciamo la situazione difficile dei conti pubblici. Tuttavia non è vero che non ci sono le risorse per ristabilire i criteri di equità, solidarietà e flessibilità. Nel periodo che va dal 2013 al 2020 circa 80 miliardi di euro entreranno nelle casse dello Stato. Una cifra enorme che è stata, di fatto, prelevata dalle tasche dei contribuenti senza alcuna giustificazione visto che il sistema previdenziale italiano era stato giudicato sostenibile da tutte le istituzioni nazionali ed internazionali. Perché allora mantenere tutta questa rigidità? Perché questo accanimento contro i lavoratori? Si potrebbe utilizzare una parte di queste risorse per consentire il pensionamento anticipato a chi ha tanti contributi, senza penalizzazioni o collegamenti con l’attesa di vita. Ma dobbiamo anche chiudere le salvaguardie per i lavoratori “esodati” con una soluzione strutturale che garantisca a quei lavoratori il diritto pensione. Così come bisogna assicurare un trattamento pensionistico adeguato e dignitoso ai giovani, a chi svolge lavori saltuari, precari o discontinui, con retribuzioni, tra l’altro, basse.

Anche la gestione separata Inps va ripensata perché accorda tutele diverse e minori agli iscritti, rispetto alla generalità dei lavoratori. L’Italia è il paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile ed al contempo quello con il sistema pensionistico più rigido. È un cane che si morde la coda. Per questo noi proponiamo che sia incentivato anche il part-time fra i lavoratori anziani negli ultimi anni della carriera lavorativa, collegandolo all’assunzione dei giovani preparati all’uso delle nuove tecnologie, per un necessario turn-over nelle aziende e nella Pubblica Amministrazione. È inaccettabile anche la penalizzazione che si è fatta della previdenza integrativa e dei fondi pensione che invece andrebbero sostenuti ed estesi anche nel settore pubblico. Per questo bisognerebbe riportare ‪all’11‬ per cento l’imposta sostitutiva che oggi è al 20 per cento per una malintesa idea di equiparazione con le rendite finanziarie.

Il nostro paese è di fronte ad un bivio: come difendere il potere d’acquisto delle pensioni visto che su esse grava una tassazione doppia rispetto alla media europea. Come si può salvaguardare il valore degli assegni pensionistici, senza una rivalutazione annuale? Questi sono i nodi da affrontare, trovando le soluzioni giuste, perchè è in gioco il destino di tante famiglie italiane. Bisogna pensare ad una diversa politica fiscale che sostenga i redditi dei pensionati, realizzando la completa equiparazione della no-tax area con i lavoratori dipendenti. Ecco le ragioni della nostra mobilitazione sindacale di sabato : vogliamo cambiare radicalmente il sistema previdenziale nel segno della equità, della sostenibilità finanziaria e della giustizia sociale. Far sentire la voce di tanti lavoratori, pensionati, donne e giovani che chiedono maggiore rispetto ed un futuro più dignitoso.

*Segretaria Generale Cisl

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

di Giuseppe Pennisi

L’Inps dovrebbe inoltre fare chiarezza su due questioni sulle quali il suo sito non fornisce alcun dato preciso. La prima è quella sul flusso annuale delle ‘pensioni lunghe’ godute da una vastissima platea di uomini e donne che, in virtù di norme speciali, hanno iniziato a riscuotere assegni di anzianità quando non erano nemmeno quarantenni. Quante sono? Si vocifera di più di 80mila casi e quel che è certo è che non si tratta di pensioni correlate ai contributi versati. L’altra questione su cui vige una “congiura del silenzio” è quella – si permetta il gioco di parole – dei ‘silenti’: quanti sono e quanto è il ‘montante’ dei contributi di coloro che hanno effettuato versamenti senza poterne fruire perché non hanno raggiunto il minimo di anni contributivi o perché deceduti o perché emigrati? È in queste voci che si devono cercare risorse, non in quelle su pensioni di reversibilità a vedove ed orfani.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

L’impresa in politica per contrastare la mediocrazia

L’impresa in politica per contrastare la mediocrazia

di Giuseppe Pennisi

Da circa un decennio due studiosi italiani trapiantati negli Stati Uniti, Andrea Mattozzi (del California Institute of Technology) e Antonio Merlo (della University of Pennsylvania), studiano la Mediocracy (“Mediocrazia- ossia il potere dei mediocri”) . Fondamentale il loro saggio uscito come  NBER Working Paper No. W12920. È un’analisi teorica , ma Mattozzi e Merlo non nascondono di averla basata sul “caso Italia”. La ricerca studia i metodi reclutamento iniziale nei partiti e costruisce un modello di reclutamento politico in cui i partiti sono in concorrenza con le imprese e le lobby dell’industria, della finanza, del commercio e via discorrendo. Anche ove i partiti potessero avere la prima di scelta (le imprese e le lobby pagano di più ed offrono carriere più stabili), decidono di reclutare i mediocri al fine di evitare che i loro leader siano minacciati, o meglio insidiati, dall’interno.

Secondo Francisco J. Gomes (London Business School), Laurence Klotikoff (Boston University) e Luis M. Viceira (Harvard Business School) ciò è all’origine del fenomeno che denominano “The Excess Burden of Government Indecision” (“Il peso eccessivo dell’indecisione dei Governi”) pubblicato come NBER Working Paper No. W12859. La mediocrità ha come conseguenza la tendenza a procrastinare quando si devono dare soluzioni a problemi di politica pubblica. Ciò genera un onere molto forte sulla collettività.

Un nuovo studio quantitativo abbraccia i Paesi OCSE. Ne sono autori Bernd Hayo e Florian Neumeier ambedue della Università di Marburg in Germania. È uscito nell’ultimo numero di “Economics and Politics” (Vol, 28, No. 1 2016, pp,55-78) con il titolo Political Leaders “Socioeconomic Background and Public Budget Deficits; Evidence from OECD Countries”. L’analisi si basa su dati di 21 Paesi OCSE nel periodo 1980-2008. In breve, lo status socio-economico dei decisori politici ad alto livello (Presidenti, Primi Ministri) ha un impatto sulle decisioni di bilancio. In sintesi, nei Paesi in cui i governi sono guidati da politici provenienti da “fasce basse” di reddito ed istruzione il rapporto deficit-Pil supera di 1,6 punti percentuali quello che prevale in Paesi guidati da imprenditori ad alto reddito dedicatisi alla  politica.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Varrebbe la pena andare controvento?

Varrebbe la pena andare controvento?

di Giuseppe Pennisi*

Nelle due ultime settimane, la banche centrali dell’eurozona, degli Stati Uniti e del Giappone hanno continuato a seguire la stessa strategia di tassi d’interesse bassi od addirittura negativi. Lars O. Svensson dell’Università di Stoccolma esamina il costo di “andare contro il vento” (Leaning Against the WIND- LAW è l’acronimo inglese) nel paper “An Analysis of  Leaning Against the Wind: Are Cost Larger Also with Less Effective Macro-Prudential Policy?” – Un’analisi dell’andare contro il vento: i costi sono maggiori con una politica macroprudenziale meno efficace?) messo on line tempestivamente come NBER Working Paper No. w21902.

Andare contro vento o LAW vuole dire una politica monetaria caratterizzata da tassi d’interesse più alti degli attuali. I suoi benefici principali sarebbero una minore crescita del debito pubblico reale ed una minore probabilità di una nuova crisi finanziaria ma avrebbe costi in termini di un più elevato tasso di disoccupazione ed una maggiore inflazione: Come è noto , tra gli obiettivi principali dell’eurozona ci sono un abbassamento della disoccupazione ed un aumento, invece, di un’inflazione rasoterra. I costi, secondo Svensson sarebbero ancora maggiori in caso di crisi. Tali costi addizionali di “andare controvento/LAW” sono stati in gran misura ignorati dalla letteratura. Il paper include stime empiriche: esse suggeriscono che in caso di crisi, i costi sarebbero nettamente superiori ai benefici anche in caso di una politica monetaria non neutrale e tale da incidere sul debito reale in via permanente. Inoltre, una politica macro-prudenziale meno efficace ed un boom del credito risulterebbero in un costo ancora maggiore.

Quindi, andare controvento/LAW non sarebbe la ricetta appropriata, anche in termini di riduzione del debito.

Un’indicazione alternativa viene proposta da Antonio Afonso e Marcello Geada Alcantara dell’Università di Lisbona nel lavoro Foreign Debt Crisis and Debt Mutualizsation (ISEG Economics Department Working Paper No. WPxx/2016/DE/UECE). Altro paper divulgato in questi giorni. A loro avviso la strada maestra per uscire dalla trappola del debito pubblico consiste nella emissione di titoli di differente classe o colore: quelli blu coprirebbero il debito sino al 60% del Pil, quelli gialli debito tra il 60% ed il 90% del Pil e quelli rossi debito superiore al 9% del Pil. Anche ove non ci fosse una formale “mutualizzazione” del debito dell’eurozona, pochissime banche centrali nazionali potrebbero emettere titoli blu, ma gli Stati dell’area dell’euro avrebbero un forte incentivo a poter emettere titoli gialli con gli altri Statu dell’eurozona, specialmente se per essere collocati i “loro” titoli nazionali richiedono alti rendimenti.

Tuttavia, non bastano le misure monetarie. Occorre privatizzare e liberalizzare.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro