Opinioni

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

di Pietro Masci*

Con il voto del 15 marzo in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina e Ohio – dopo che avevano votato Iowa, New Hampshire, South Carolina, Nevada, Alabama, Alaska, Arkansas, Georgia, Massachussets, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine, Hawaii, Idaho, Washington DC, Wyoming – oltre la metà  degli stati ha espresso le sue preferenze.

Nel campo repubblicano, Donald Trump ha finora ottenuto 678 delegati, Ted Cruz 423, Marco Rubio (che ha sospeso al sua campagna presidenziale dopo la sconfitta nel suo stato, la Florida) 164, John Kasich 143.

Nel campo democratico, Hillary Clinton ha finora ottenuto 1614 delegati, Bernie Sanders 856. I voti comprendono 573 c.d. super-delegati (scelti dal partito), 467 dei quali si sono schierati per Clinton e 26 per Sanders.

I delegati necessari per ottenere la nomina del partito repubblicano sono 1237 e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 1134. Pertanto Trump (ottenendo circa il 50% dei delegati ancora disponibili), Cruz (ottenendo circa il 75% dei delegati disponibili) e teoricamente anche Kasich possono raggiungere il numero di delegati necessario per ottenere la nomina del partito repubblicano come candidato alla Presidenza.

Nel caso del partito democratico, i delegati necessari per ottenere la nomina sono 2383, e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 2295. Pertanto la nomina è alla portata di Clinton, ma è piu’ difficile da raggiungere per Sanders.

L’elemento comune ai due partiti è che tutti i candidati attualmente in corsa hanno dichiarato che intendono arrivare ai rispettivi Congressi che si terranno il 18-21 luglio a Cleveland per i repubblicani,e il 25- 28 luglio a Filadelfia per i democratici. Cio’ significa che i candidati non ritengono chiusa la corsa alla nomina –malgrado il chiaro vantaggio rispettivamente di Trump e Clinton. Si apre la possibilità  – maggiormente per i repubblicani, ma anche per i democratici – di arrivare ai Congressi senza che nessun candidato abbia raggiunto un numero di delegati sufficiente ad assicurare la nomina.

Tale situazione è legata all’incertezza che circonda i candidati  principali.

Trump deve fare i conti con l’insofferenza di gran parte dell’apparato del partito repubblicano che osteggia la sua candidatura. Mitt Romney – il candidato republicano che si era presentato nel 2012 contro Obama – ha affermato che Trump è un “truffatore”. Addirittura, Romney ha dichiarato che esiste una competizione tra “Trumpismo” e “Republicanismo” e che il Trumpismo è associato a caratteristiche che non appartengono al Partito Repubblicano (razzismo, misogenia, bigotteria, volgarità e violenza). Altri autorevoli rappresentanti del partito repubblicano si muovono tra due opzioni: fermare Trump prima del Congresso di Cleveland (ed in tale prospettiva Cruz emerge, anche se con una certa riluttanza, come il candidato del partito), o addirittura creare un terzo partito. A tali impostazioni, Trump risponde che se si tenterà di fermare la sua nomina al Congresso, si rischia di scatenare sommosse.

Quanto a Clinton, esistono due circostanze che possono influenzare la sua nomina: la presenza dei c.d. super-delegati designati dal partito che potrebbero determinare la scelta del candidato presidenziale a suo favore, rafforzando l’immagine di un sostegno da parte dell’apparato, ma non dei cittadini. Tuttavia, l’aspetto piu’ significativo è la possibilità che Clinton venga rinviata a giudizio per l’utilizzo – durante il periodo nel quale era Ministro degli Esteri sotto la Presidenza di Obama – di un sistema privato di posta elettronica e pertanto non potrà partecipare come candidato.

Il processo del voto americano per l’elezione del Presidente è molto lungo, pieno di sorprese e stavolta come non mai. Durante il percorso, la maggioranza dei candidati si perde (ad esempio i candidati repubblicani erano inizialmente 17); coloro che rimangono si modificano, si affinano, articolano meglio il loro messaggio. La campagna presidenziale negli Stati Uniti consente di analizzare a fondo le posizioni dei candidati – ed il loro passato – e verificare l’impatto che determinate proposte ha sulle diverse componenti della popolazione (ad esempio l’elettorato femminile, quello etnico, incluso i c.d. latinos) oltre che nei diversi stati.

Però, il rischio rimane che si verifichi – o si accentui – la polarizzazione e che non emerga un candidato in grado di unire il paese. Le divisioni aumentano con la recente nomina da parte del Presidente Obama di Merrick Garland come giudice della Corte Suprema per sostituire il conservatore Antonin Scalia. La maggioranza dei senatori repubblicani, che controllano il Senato che decide sulle nomine, ha già affermato che non prenderà  in considerazione la nomina di Garland.

Gli Americani comunque si rendono conto della grande importanza di queste elezioni e stanno accorrendo numerosi a votare, come mai in passato, ad eccezione del 2008 (elezione del Presidente Obama, ugualmente storica). Tuttavia, rispetto al 2008, la situazione si è ribaltata: sono i repubblicani che accorrono più numerosi alle urne nelle primarie.

In tale contesto, Trump e Sanders – in modi diversi – stanno portando nuovi elettori alla politica. Sanders attrae i giovani – i c.d. Millenials – e una parte di coloro che sono stati penalizzati dalla globalizzazione e dalla crisi economica e finanziaria. Trump richiama gli indipendenti che preferiscono come rappresentanti persone comuni e con esperienza e non i politici; gli attuali c.d. Reagan democrats – i democratici di Reagan (elettorato democratico che negli anni 80’ voto per Reagan) – vale a dire i colletti blu, lavoratori che incontrano varie difficoltà economiche e sociali derivanti dalla globalizzazione e dall’emigrazione. Questo fenomeno è complesso e non è unidirezionale, ma trasversale nel senso che anche Trump attrae i giovani e anche Sanders attrae i democratici di Reagan e gli indipendenti; e indica che Trump e Sanders sono apprezzati da cittadini che non presentano significative differenze e che sono rimasti, in passato, ai margini della politica e probabilmente non hanno votato.

Una parte significativa dell’elettorato percepisce di essere danneggiata dall’emigrazione; dagli accordi commerciali di libero scambio che accellerano la de-localizazzione delle imprese; e dalla crisi economica e finanziaria. Molti americani sono impauriti dal terrorismo e delusi dall’incerta politica estera del governo, sopratutto nel Medio Oriente. Inoltre, mentre circolano numerosi studi economici, e sociali che descrivono la situazione drammatica degli emigranti e dei rifugiati, non si trova un’analoga attenzione sopratutto sotto il profilo economico e politico verso quei segmenti della popolazione che hanno pagato – e pagano – per gli eventi sopra indicati.

Alcuni analisti identificano nella rabbia la caratteristica comune di questi elettori. In effetti, una buona parte dei cittadini americani che si dirigono verso Trump e Sanders sono delusi e arrabbiati (la tentazione di utilizzare un altro aggettivo piu’ colorito e’ grande) per i bassi salari, la disoccupazione o l’occupazione parziale, i bassi salari, le disuguaglianze, l’insicurezza,  l’incapacita’ degli Stati Uniti di operare con efficacia sulla scena internazionale; e ritengono i politici e gli apparati burocratici i maggiori responsabili.

Mark Muro and Siddharth Kulkarni del Metropolitan Policy Program della Brookings Institution pongono in relazione la rabbia crescente di una quota importante dell’elettorato Americano con la caduta dell’impiego nell’industria manifatturiera negli ultimi 35 anni. Il grafico che segue visualizza il declino dell’impiego nel manifatturiero negli Stati Uniti determinato principalmente da de-localizzzione, globalizzzione, e automazione.

graficoUSA

Trump e Sanders prestano attenzione a questa parte dell’elettorato e rappresentano le novità nella politica americana. Sanders parla apertamente che il denaro compra le elezioni; propone il finanziamento pubblico dei partiti (un’affermazione che equivale a una bestemmia negli Stati Uniti); non rinnega le parole positive che negli anni 80’ ha avuto nei confronti di Fidel Castro e Ortega (pur riconoscendo che sono due dittature da non imitare).Trump polemizza aspramente e con un linguaggio espressivo con la television, la stampa, e i partiti. Peraltro il comportamento vistoso e le affermazioni e immagini iperboliche di Trump, se da una parte accentuano l’opposizione dell’apparato del Partito Repubblicano, dall’altra gli garantiscono il sostegno dei cittadini che si ribellano all’inazione dei “politici“. La principale ragione del sostegno a Trump è: “non è un politico e ci si puo’ fidare di lui”. Anche se non nella stessa misura, anche Sanders – senatore indipendente, non democratico, del Vermont – è percepito come un outsider.

I principi di questi due candidati sono certamente diversi: Trump s’ispira alla competizione aspra; Sanders alla realizzazione di opportunità per tutti. Tuttavia, le loro posizioni non sono completamente all’opposto, come si potrebbe credere (e per inciso questa è la ragione per la quale l’apparato del Partito Repubblicano ritiene che Trump snaturi il partito). Entrambi si oppongono alle guerre (ma Trump dichiara che aumenterà le spese militari); entrambi sono contrari al ruolo del denaro nella politica e alla decisione della Corte Suprema che consente contributi illimitati e anonimi (anche se Trump è meno specifico di Sanders su questo tema); entrambi si oppongono agli accordi di libero scambio. Trump e Sanders divergono sostanzialmente sulle politiche dell’emigrazione. Trump ripetutamente dichiara che con lui gli Stati Uniti faranno sempre affari vantaggiosi in ogni campo (e sopratutto nel commercio con paesi come Cina, Messico, Corea) e torneranno grandi e vincitori; incessantemente proclama che costruirà un muro al confine tra Stati Uniti e Messico (e il Messico pagherà  il costo della costruzione); deporterà gli immigrati illegali; e apertamente afferma che non consentirà ai mussulmani di entrare, almeno per un certo tempo, negli Stati Uniti. Sanders, invece, intende introdurre una nuova legge sull’immigrazione e permettere agli illegali che sono negli Stati Uniti (oltre 11 milioni) di poter perseguire la cittadinanza americana, naturalmente pagando le imposte.

Se eletto, Trump dichiara che eliminerà le riforme di Obama, inclusa la legge sulla copertura assicurativa per le malattie; e annullerà gli ordini esecutivi dell’attuale Presidente (ad esempio quello con il quale è stato ratificato l’accordo nucleare con l’Iran). D’altra parte, Sanders propone di aggiustare le disparità attraverso la tassazione fortemente progressiva.

Trump e Sanders sono accomunati dal non dipendere dai contributi dei grandi gruppi d’interessi che accentua l’indipendenza dei due candidati: Trump finanzia la campagna presidenziale con i suoi soldi; Sanders con milioni di piccoli contributi.

A proposito della base che appoggia Trump e Sanders, viene in mente Ralph Nader- un ottantenne attivista politico di sinistra e autore concentrato nell’area della protezione del consumatore, dell’ambiente e della democrazia effettiva – che nel 2000 si presento’ alle elezioni presidenziali come terzo candidato. La presenza di un candidato di sinistra come Nader tolse voti al candidato democratico Gore e non gli consenti – più del pasticcio della conta dei voti in Florida – di vincere l’elezione presidenziale contro Bush. Nel 2014, Nader ha scritto un libro – Unstoppable: The Emerging Left-Right Alliance to Dismantle the Corporate State – L’inarrestabile alleanza della destra e della sinistra contro lo stato corporativo al servizio delle grandi imprese. Nel libro, Nader s’incentra sulla reazione del pubblico americano – di destra e sinistra – contro l’apparato di potere. Le aree di comune interesse di destra e sinistra sono principalmente le politiche in tema ambientale, energetico, industrial-farmaceutico e militare, determinate dallo strapotere delle grandi imprese che controllano le scelte dei politici. Nader sostiene che è nell’interesse dei cittadini di diverse etichette politiche ad unirsi nella lotta contro lo stato corporativo che, se lasciato incontrollato, sarebbe portato a ignorare la Costituzione, eliminare i diritti fondamentali e le libertà del popolo Americano.

L’intuizione di Nader di un’alleanza tra destra e sinistra – che può apparire tanto improbabile – si può realizzare in un confronto a novembre tra Trump e Clinton. In effetti, nel caso la competizione presidenziale sia tra Trump e Clinton – che sembra lo scenario più probabile – non è affatto inconcepibile che i sostenitori di Sanders durante le primarie votino per Trump nell’elezione di novembre piuttosto che per Clinton, riversando verso Hillary l’avversione contro l’apparato dei partiti, i politici senza passione e autenticità. Cominciano a circolare interviste e piccole inchieste che sembrano confermare che il passaggio di elettori da Sanders sconfitto nelle primarie al candidato presidenziale Trump rappresenti una possibilità concreta. E la strategia della campagna di Trump – piena di generalità e slogans e con poche specifiche indicazioni delle politiche proposte – sembra perseguire l’obiettivo di attrarre vecchi e nuovi elettori insoddisfatti.

Queste considerazioni fanno sorgere una riflessione: può Trump vincere l’elezione presidenziale sostanzialmente con i soli voti dei “bianchi” (religiosi sopratutto evangelisti, conservatori, libertari, indipendenti, e insoddisfatti, vecchi e nuovi)? Le affermazioni di Trump sul muro al confine con il Messico e gli attacchi ai mussulmani – intercalati da rassicurazioni del tipo: “ho tanti amici ispanici e mussulmani” – non sembrano spianare la strada per costruire una larga e diversa coalizione e per evitare una spaccatura nel Paese.

D’altro canto, se la strategia di Trump non funzionasse, e Clinton venisse eletta, sarebbe in grado la prima donna Presidente degli Stati Uniti di superare il significativo clima di sfiducia che comunque l’accompagna?  E creare coesione tra le diverse componenti del Paese?

La domanda di fondo rimane la stessa: sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti in grado di ricompattare il paese? Naturalmente, la risposta a tale interrogativo ha implicazioni non solo per la politica interna, ma anche per la politica estera degli Stati Uniti.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Crisi e salari in Italia

Crisi e salari in Italia

di Giuseppe Pennisi*

Quale è stato l’andamento dei salari in Italia da quando è iniziata la crisi? Gran parte dell’informazione giornalistica è necessariamente di parte in quanto basata su dati parziali in cui spesso il breve periodo viene estrapolato in medio e lungo termine.

Quindi è importante un lavoro della Banca d’Italia on line dalla fine della prima settimana di marzo: l’Occasional Paper No 289 Wages and Prices Setting in Italy During the Crisis: The Firms Prespectives. Ne sono autori Francesco D’Amuro, Silvia Fabiani, Roberto Sabbatini, Raffaella Tartaglia Porcini, Fabrizio Venditti, Elena Viviano e Roberto Zizza – tutti del servizio studi dell’istituto di Via Nazionale. Un lavoro di équipe che si basa su due indagini condotte del network sulle dinamiche dei prezzi e dei salari del Sistema Europeo di Banche Centrali (Sebc) , una “rete”, quindi di economisti dei servizi studi delle Banche centrali nazionali dell’eurozona tutti impegnati in ricerche su temi analoghi, utilizzando metodi uniformi, nonché metodi di rilevazioni e questionari armonizzati per analizzare le più importanti trasformazioni nei mercati del lavoro nazionali. La “rete” ha condotto due indagini empiriche (Stato per Stato) nel 2007 e nel 2009 ed una terza nel 2013, i cui risultati sono disponibili da pochi mesi. Il lavoro pubblicato on line riguarda solamente l’Italia. È auspicabile che vengano diffusi anche gli altri studi Paese.

Il lavoro prende l’avvio da una considerazione specifica all’Italia: il debito sovrano ha colpito severamente l’economia italiana, causando un collasso della domanda interna, un aumento dell’incertezza e difficoltà di accesso alla finanza internazionale. Le imprese hanno risposto riducendo l’input di lavoro (aggiustandone i margini sia di intensità – orari di lavoro – sia di livello di occupazione) piuttosto che riducendo i salari nominali o reali. Tuttavia, le trattative e la prassi di determinazione delle retribuzioni sono state influenzate dal quadro economico generale: la proporzione di lavoratori in imprese che sono ricorse a blocchi dei salari, ed anche a riduzioni, è gradualmente aumentata dal 2010 sino a riguardare il 17% dei lavoratori dipendenti nei settori presi in esame dall’inchiesta. Inoltre, numerose imprese hanno adattato le loro strategie di prezzi aggiustandoli più frequentemente che nel passato (spesso abbassandoli a ragione di una maggiore concorrenza).

Le nuove tecnologie  inducono a prospettare un aumento della produttività del lavoro e, quindi, dei salari reali? Non sembra suggerirlo l’esperienza americana, quale analizzata da Chad Syverson delle Booth School of Business della Università di Chicago nello studio Challenges to Mismeasurament: Explanation for the US Productivity Slowdown.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Sacconi: “Ora interventi strutturali su regole e oneri indiretti”

Sacconi: “Ora interventi strutturali su regole e oneri indiretti”

di Maurizio Sacconi*

Il centro studi ImpresaLavoro ha prodotto questa interessante elaborazione sui nessi tra l’azzeramento dei contributi previdenziali e i rapporti di lavoro a tempo indeterminato che si sono generati nel 2015. Come è noto questo incentivo è stato ridotto nell’anno in corso fino a dissolversi nel prossimo. Mentre è aperta la riflessione sul grado di efficacia di così tanta convenienza a convertire i rapporti di lavoro a termine o ad accendere nuovi lavori permanenti, ritorna il ricordo di una espressione ricorrente di Marco Biagi: “Non esistono incentivi finanziari sufficienti a compensare i disincentivi regolatori”.

È ben vero che il jobs act ha coniugato con l’azzeramento dei contributi una disciplina più flessibile dei licenziamenti ed una rigida separazione tra autonomia e subordinazione nei rapporti di lavoro disincentivando in particolare il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative e quasi cancellando, con poche eccezioni, quelle a progetto. Ma la riforma non è stata completa perché ha mantenuto in vita, seppure per fattispecie più circoscritte, la sanzione della reintegrazione con la conseguente incertezza sugli esiti del contenzioso che si produce nel caso di licenziamento ove ne venga contestata la illegittimità.

Solo una clausola di opting out in favore della soluzione risarcitoria avrebbe offerto al datore di lavoro la certezza di poter risolvere il rapporto di lavoro nel caso di rottura del fondamentale nesso fiduciariario che lo sostiene. Permane quindi una unicità tutta e solo italiana in Europa a questo proposito con la conseguenza che non si è fino in fondo prodotto quell’essenziale incentivo regolatorio che avrebbe potuto incoraggiare la propensione ad assumere con contratti permanenti. È quindi legittimo supporre che il vantaggio relativo agli oneri previdenziali abbia utilmente ridotto i costi per le imprese che occupano – anche se con una significativa spesa pubblica di parte corrente – ma non abbia determinato, se non in misura contenuta, la scelta del contratto permanente, cui il datore di lavoro avrebbe comunque fatto ricorso perché coerente con le esigenze dell’impresa.

Dobbiamo quindi ora riprendere un percorso di interventi strutturali sia dal lato delle regole che da quello degli oneri indiretti sul lavoro se vogliamo sostenere una crescita con occupazione. Le buone politiche del lavoro non sono infatti solo distributive ma esse stesse concorrono a generare sviluppo perché incoraggiano gli investimenti e la produttività. Non si tratta di riaprire il cantiere delle riforme già troppo a lungo sovrappostesi con incertezze per gli operatori, ma di dotare le parti collettive e individuali degli accordi di lavoro della capacità di adattare le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, tanto dipendenti quanto indipendenti, agli straordinari cambiamenti che in ciascuna impresa, asimmetricamente, sta producendo la quarta rivoluzione industriale.

Le nuove tecnologie digitali modificano ogni giorno l’organizzazione della produzione e del lavoro con velocità e imprevedibilità che non hanno precedenti. In particolare, si avvera la profezia di Biagi che proponeva uno Statuto dei Lavori, di tutti i lavori, perché individuava una crescente confusione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (altro che rigido formalismo giuridico!) derivante dalla smaterializzazione della postazione fissa, dal superamento dell’orario rigido, dalla fine della totale predeterminazione del salario.

Ogni tentativo di fissare il cambiamento deducendone nuove regole rigide sarebbe immediatamente superato dalla realtà. Non più riforme delle tipologie contrattuali quindi ma una evoluzione dell’art.8 del DL 138/11 in modo da consentire ai contratti collettivi aziendali o territoriali e ai contratti individuali certificati di regolare in modo originale, al di la’ di ciò che dispongono leggi e contratti nazionali, gli inquadramenti e le mansioni, i modi di apprendimento permanente con relativa certificazione periodica delle abilità, l’orario e i luoghi di lavoro, le conseguenti modalità specifiche di tutela sostanziale della sicurezza, la definizione a risultato della retribuzione strutturalmente detassata.

In questo modo le parti possono dare pieno valore alle nuove tecnologie e ai vantaggi che inducono tanto sull’impresa quanto sui lavoratori. Altrimenti si generano solo gli effetti negativi della sostituzione dei lavori routinari che nel caso italiano, caratterizzato da una grande dimensione di produzioni manifatturiere seriali, possono essere rilevanti. E a questo riguardo appare necessario anche un Piano nazionale di alfabetizzazione digitale in modo da garantire a tutti i lavoratori il diritto di accedere a fondamentali conoscenze e competenze.

Contemporaneamente, sarà necessario ridurre il costo indiretto del lavoro in modo non più congiunturale ma certo e irreversibile, agendo su quelle contribuzioni che sono sovradimensionate rispetto alle prestazioni come quelle relative agli infortuni, alla malattia, agli ammortizzatori sociali. Si potrebbe perfino ipotizzare una riduzione dei contributi previdenziali obbligatori per cui si incrementerebbe la busta paga del lavoratore, che avrebbe la possibilità di destinare la maggiore entrata alla pensione complementare e di negoziare versamenti aggiuntivi da parte del datore di lavoro.

In questo modo, definito uno zoccolo obbligatorio per tutti i lavoratori, da un lato si determinerebbe un incentivo ad assumere senza oneri per lo Stato e, dall’altro, sarebbero le buone condizioni d’impresa a consentire un accantonamento previdenziale anche più elevato rispetto al regime vigente. Nel caso dei professionisti non ordinistici che effettuano versamenti alla cosiddetta gestione speciale dell’Inps, si tratta di consentire loro la costituzione di una Cassa previdenziale autonoma alimentata dalla stessa contribuzione obbligatoria ma ragionevolmente in grado di offrire prestazioni pensionistiche ben più consistenti e forme di welfare integrativo.

Sono questi i contenuti dei due disegni di legge all’esame del Senato e dei quali sono relatore. Auguriamoci che anche i grandi attori della rappresentanza di interessi, così immobili nel presente e nel recente passato, avvertano il dovere di concorrere a governare questo tornante della storia abbandonando opportunismi, pigrizie, ideologie datate. E, soprattutto, auguriamoci che nelle aziende e nei territori, là ove lavoratori e imprenditori si guardano negli occhi e gli echi romani sono lontani, si esprima la voglia di costruire pragmaticamente il futuro. Alle istituzioni il compito fondamentale di garantire loro un contesto favorevole.

*Presidente Commissione Lavoro del Senato

Diseguaglianza economica: un’apologia

Diseguaglianza economica: un’apologia

di Andrea Mancia e Simone Bressan

Qualcuno lo chiama il “Re filosofo della Silicon Valley”. Per qualcun altro è semplicemente l’ennesimo capitalista diventato ricco alle spalle dei meno fortunati. Comunque la si pensi, però, è davvero difficile restare indifferenti nei confronti di Paul Graham, della sua storia e delle sue idee. Lui – nella biografia del proprio sito personale (un classico esempio di Internet 1.0: molta sostanza e grafica iper-vintage) – si definisce programmatore, scrittore e investitore. E in effetti la cronologia della sua vita professionale si sviluppa proprio in quest’ordine. Graham nasce come “coder” esperto in Common Lisp: una derivazione moderna del linguaggio di programmazione inventato alla fine degli Anni Cinquanta da John McCarthy (uno dei padri dell’Intelligenza Artificiale) al Massachusetts Institute of Technology (MIT). E proprio alle tecniche di programmazione sono dedicati i suoi primi libri, scritti nei primi Anni Novanta.

Laureato in “computer science” ad Harvard (prima di studiare pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze), Graham affianca quasi subito, alla passione per i linguaggi di programmazione, l’arte e la scrittura, anche uno spiccato senso imprenditoriale. Nel 1995, insieme a Robert Morris, fonda Viaweb, una delle prime compagnie che prova ad immaginare il software come un servizio, piuttosto che un prodotto da vendere sugli scaffali di un negozio specializzato. Con Viaweb, qualsiasi utente – anche con scarse conoscenze informatiche – può creare e gestire, direttamente sul web, un proprio sito di e-commerce. Nel 1998 Viaweb viene acquistata da Yahoo (dove diventerà Yahoo Store) per la cifra di 50 milioni di dollari. E Graham decide di investire la propria neonata fortuna investendo nelle start-up più promettenti della Silicon Valley. La cosa funziona: nel 2005, insieme a Robert Morris, Jessica Livingston e Trevor Blackwell, fonda “Y Combinator”, un incubatore di start-up che in dieci anni ha già finanziato più di 800 aziende nate da zero, tra cui Dropbox, Airbnb, Stripe e Reddit.

La figura di Graham, finora conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori della Silicon Valley, è improvvisamente diventata di dominio pubblico all’inizio di quest’anno. Tutta “colpa” di un lungo saggio pubblicato su www.paulgraham.com, dal titolo apparentemente innocuo (“Economic Inequality”: diseguaglianza economica), che ha scatenato una vera e propria bufera digitale negli Stati Uniti, con migliaia di tweet e interventi sui social media che si sono rincorsi per giorni. La tesi del fondatore di “Y Combinator”, nonostante la reazione indignata dei social justice warriors di professione, è piuttosto semplice (tanto che, per evitare ulteriori fraintendimenti, Graham ne ha pubblicato anche una versione ridotta all’osso).

La diseguaglianza economica – sostiene Graham – non è un male in sé, perché le sue radici sono multiple: alcune buone e alcune cattive. Può essere causata dall’evasione fiscale o dal razzismo. E questo è male. Ma può anche essere causata dalla moltiplicazione delle start-up di successo. E questo è bene.

La diseguaglianza economica, insomma, non è affatto un sinonimo di problemi reali come la povertà o l’assenza di mobilità sociale, ma casomai una delle conseguenze di questi problemi. Ma se è la diseguaglianza in sé a diventare il nemico da abbattere, nessuno ci assicura che grazie alla sua scomparsa riusciremo a risolvere i problemi reali che ci stanno a cuore. «Proviamo a combattere la povertà – scrive Graham – e se necessario non esitiamo a danneggiare la ricchezza. È molto meno sensato, invece, combattere la ricchezza sperando in qualche modo di risolvere il problema della povertà».

L’errore logico centrale dei fautori della “giustizia sociale ad ogni costo” è rappresentato, secondo Graham, da quella che lui definisce “pie fallacy” (si potrebbe tradurre in qualcosa di simile a “l’errata credenza della torta”). Si tratta della convinzione che l’unico modo per arricchirsi sia quello di sottrarre risorse a chi ne ha di meno, che l’unico modo per mangiare più fette di torta sia quello di sottrarre fette di torta a qualcun altro.

«Il problema – scrive Graham – è che siamo cresciuti in un mondo in cui la pie fallacy è effettivamente reale. In famiglia, da bambini, la ricchezza è davvero una torta dalle dimensioni fisse: quando qualcuno ottiene qualcosa in più è sempre a spese di qualcun altro. Serve uno sforzo mentale non indifferente per ricordare a se stessi che il mondo reale non funziona in queso modo. Nel mondo reale si può creare ricchezza in molti modi, non solo togliendola ad altri. Un falegname crea ricchezza: ci costruisce una sedia e noi gli diamo volontariamente soldi in cambio della sua creazione. Al contrario, un high-frequency trader non crea ricchezza, visto che guadagna un dollaro solo quando qualcuno, dall’altra parte dello scambio, perde un dollaro. Se le persone, in una società, diventano ricche togliendo solo denaro ai poveri, allora abbiamo un caso di diseguaglianza economica degenerata, in cui le cause della povertà sono le stesse cause della ricchezza. Ma se un falegname costruisce cinque sedie e un altro falegname ne costruisce una sola, il secondo sarà meno ricco del primo, ma non certo perché il primo gli abbia sottratto alcunché».

La ricchezza di una società, insomma, non è un gioco a somma zero. E in un mercato libero, molti diventano ricchi senza togliere niente a nessun altro. Anzi, diventano ricchi creando ricchezza. E il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha moltiplicato e accelerato questa dinamica.

«Negli anni Sessanta, quando la diseguaglianza economica era più bassa – spiega Graham – quello che oggi sarebbe un potenziale creatore di una start-up aveva solo due strade davanti a sé: farsi assumere da una grande azienda o insegnare in un’università. Prima di lanciare Facebook, Mark Zuckerberg era convinto che sarebbe finito a lavorare per Microsoft. La vera ragione per cui lui, insieme ad altri fondatori di start-up, è finito per diventare molto più ricco di quanto non sarebbe potuto esserlo verso la metà dello scorso secolo, non è per qualche oscura macchinazione organizzata durante l’Amministrazione Reagan, ma perché il progresso della tecnologia ha reso molto più semplice creare nuove aziende in grado di crescere rapidamente».

O si vieta del tutto la possibilità alle persone di inseguire il sogno della ricchezza, insomma, oppure bisogna rassegnarsi a fare i conti con una diseguaglianza economica crescente,

«Io credo – conclude Graham – che la crescente diseguaglianza economica sia il destino inevitabile di nazioni che hanno scelto di non diventare qualcosa di nettamente peggiore. E quanto ascolto le persone parlare di quanto la disuguaglianza economica sia un fatto negativo e di come si dovrebbe cercare di ridurla, mi sento come un animale selvatico che sta origliando una conversazione tra cacciatori. (…) Ma su questo punto bisogna essere perfettamente chiari. Eliminare le grandi variazioni di ricchezza significa eliminare del tutto la possibilità che nascano nuove start-up. Siete sicuri, cacciatori, di voler davvero sparare a questo strano animale? Tra l’altro, potreste soltanto limitarvi ad eliminare le start-up nel vostro paese. Le persone sono già abituate a spostarsi in giro per il mondo allo scopo di migliorare la propria vita professionale. E qualsiasi start-up può ormai operare in qualsiasi parte del pianeta. Così, anche se riusciste a rendere impossibile la creazione di ricchezza nel vostro paese, l’unico risultato sarebbe quello di costringere le persone ambiziose ad andarsene per inseguire i propri sogni altrove. Il che vi garantirebbe senz’altro un Coefficiente di Gini più basso, ma anche una lezione sulla necessità di essere estremamente cauti quando si desidera qualcosa».

Diseguaglianza economica: una critica

Diseguaglianza economica: una critica

di Paolo Ermano

Di getto, appena letto l’articolo di Bressan e Mancia, mi sono chiesto come mai un soggetto descritto come il “Re filosofo della Silicon Valley” parlasse di diseguaglianza in un modo così naïf. Maliziosamente ho pensato che per uno come Graham sostenere che la diseguaglianza è un bene equivale a rigettare ogni progetto di politiche di redistribuzione, una presa di posizione contro ogni disegno di aumento delle tasse per chi, come lui, non può certo definirsi povero. Peraltro l’appellativo di “Re” non fa ben sperare sulle sue buone intenzioni iniziali rispetto al tema.

Tuttavia, volendo dar credito alla visione di Graham, e leggendo per intero il contributo presente sul suo sito, si scopre come questo guru, dietro il discorso sulla diseguaglianza, cela una visione semplificata delle relazioni economiche: chi ha meritato di guadagnare soldi perché ha prodotto, inventato, creato beni o servizi di successo è giusto che sia più ricco di chi non ha realizzato nulla.

Questa tesi però non dice nulla sulla diseguaglianza: non ne indaga le ragioni intrinseche; non indaga i motivi per cui possa essere accettabile un certo livello di diseguaglianza; non discute o problematizza gli effetti della diseguaglianza sulla società; infine lascia poco margine nel comprendere le cause del successo di una persona, quanto dipendano dal merito e quanto dalle circostanze.

Per quanto riguarda le ragioni intrinseche, è il caso di ricordare che la diseguaglianza economica (una delle diverse forme di diseguaglianza presenti nelle nostre società) è un concetto che tocca sia la dimensione quantitativa che la dimensione temporale: Graham discute della prima dimensione, confondendo peraltro le dinamiche macro e microeconomiche, dimenticando la dimensione temporale. Infatti, nel parlare della diseguaglianza confonde la dimensione macro con la dimensione micro. Alla prima che permette di comprendere e discutere come alcuni accumulino risorse a scapito di altri grazie, ad esempio, alla presenza di rendite di monopolio, elusione fiscale, o pressioni corporative, Graham vi contrappone la visione microeconomica che si limita a dire che chi produce di più di altri diventa più ricco. Ma se è vero che secondo una visione microeconomico si può giungere a quella che Graham chiama pie fallacy, cioé il fatto che la torta da spartire cresce con la crescita economica, quindi il mio consumo può essere indipendente dal tuo, è da un punto di vista macroeconomica la tesi di Graham non porta in alcun modo a comprendere l’altra faccia del problema: il meccanismo di trickle down ovvero le modalità attraverso cui l’aumento della dimensione della torta porta un beneficio all’intera comunità. Perché se la torta aumenta ma è sempre uno e uno solo a prendersi la parte in più, siamo punto e a capo.

E per comprendere come dalla visione micro si passi alla visione macro serve il tempo, ovvero la dinamica. Un bravo artigiano ha successo, guadagna molto e quindi assume uno o più disoccupati, riducendo così attraverso meccanismi di mercato la diseguaglianza, e partecipa a programmi più o meno sofisticati di redistribuzione delle risorse attraverso gli obblighi fiscali. Dimenticare questa dinamica, fatta di Stato e mercato, non permette a Graham di sostenere adeguatamente la pie fallacy.

Poi c’è la questione di quanta diseguaglianza sia accettabile. Al di là dei problemi filosofici brillantemente discussi nel secolo scorso da J. Rawls prima e da A. Sen poi, oramai la letteratura scientifica sui problemi conseguenti ad un eccesso di diseguaglianza è ampia e consolidata: dai problemi di rigidità sociale, alle patologie sociali e sanitarie, al basso tasso di crescita economica, sono molti gli effetti e i meccanismi attraverso cui la diseguaglianza impatta negativamente su una comunità. Semplificando, possiamo dire che un livello basso di diseguaglianza offre gli stimoli per eccellere; un livello eccessivo di diseguaglianza, invece, può sigillare la società perché chi è ricco non vorrà creare le condizioni per mettere in discussione la sua ricchezza, il suo status. E nell’America che si appresta al voto, i probabili candidati saranno un miliardario figlio di un miliardario e la moglie dell’ex-presidente degli USA: non proprio un’immagine di mobilità sociale dopo quella strepitosa icona che è Obama.

Ho già accennato, senza approfondirli, all’esistenza di diversi motivi per cui un’eccessiva diseguaglianza è dannosa. Ripeto, la letteratura è già ricca: la si può prendere sul serio o ignorarla come fa Graham. Ma sulla falsariga delle argomentazioni di Graham c’è un altro molto più sottile che già Stuart Mill metteva in luce: un eccesso di diseguaglianza limita la libertà delle persone poiché non permette a chi vuole investire il proprio tempo e il proprio talento in attività poco remunerate di dedicarvisi. Partiamo dall’esempio offerto da Graham quando parla di Zuckerberg: ricorda il “Re filosofo della Silicon Valley” che il fondatore di Facebook pensava sarebbe finito a lavorare presso la Microsoft. Zuckerberg, figlio di un dentista e di una psichiatra, iscritto a Harvard, se fosse finito a lavorare alla Microsoft, stipendio medio a Seattle $110.000, forse non sarebbe stato così famoso, ma certamente non avrebbe patito la fame: seguiva un percorso di programmatore informatico negli anni 2000, competenze che da almeno un paio di decadi erano al centro del mercato del lavoro. La scelta di formarsi e specializzarsi in un settore in ascesa ha dato a Zuckerberg più opportunità di avere successo. Se si fosse innamorato di archeologia maliana o di fauna marina del Mediterraneo, per esempio, forse avrebbe avuto le sue difficoltà a trovare lavoro. Stuart Mill, allo stesso modo, rivendicava l’importanza di avere una società che nel difendere la libertà dell’individuo ne difendesse anche le sue inclinazioni, qualunque esse fossero nel rispetto degli altri. La concentrazione della ricchezza in poche soggetti operanti in specifici settori limita l’apertura verso un insieme più ampio di possibilità che potrebbero rivelarsi altrettanto importanti rispetto all’invenzione di un social-network. Infatti, se è necessario competere continuamente per il successo economico, è molto più utile concentrarsi nei settori più remunerativi, quelli che da anni forniscono la lista dei più ricchi: fra tutti, finanza e informatica. Ma siamo sicuri che questo sia il modo migliore per far crescere una società ricca e libera?

Infine c’è un altro punto da discutere: restando all’esempio di Graham, il benessere di Zuckerberg era già scritto nella sua origine, nella scuola che frequentava. Il successo, forse, è stato casuale. Certamente il giovane informatico aveva le competenze per creare Facebook, ma sarebbe bastato poco per non trovarsi nel posto giusto al momento giusto: ora staremo a parlare di un’altra persona, non di Zuckerberg. Ma certamente, e questo è un punto essenziale, Zuckerberg non sarebbe finito povero.

Si stima che il luogo di nascita spieghi il 60% della variabilità dei redditi a livello globale. Se al luogo di nascita inseriamo una variabile che definisca lo status dei genitori, quella percentuale sale all’80%. Dov’è il merito, nel restante 20%? Neanche lì, per certi versi: infatti, se nell’analisi dei redditi inseriamo genere, età e colore della pelle, infatti, riduciamo ancora l’incidenza del merito. Parafrasando un famoso proverbio: chi ben nasce è ben oltre la metà dell’opera. Ad esempio, nell’America della retorica del self-made-man se sei bianco, maschio e figlio di benestanti è più facile impegnarsi e ottenere risultati rispetto ad una femmina, nera e vieni dai sobborghi di una metropoli. Facciamoci caso: la maggior parte delle storie di successo delle Silicon Valley è fatta di bianchi, maschi, provenienti da famiglie benestanti. È questa la diseguaglianza motore del mondo che celebra il bianco, maschio e benestante Graham?

Quanto sono vulnerabili le imprese italiane?

Quanto sono vulnerabili le imprese italiane?

di Giuseppe Pennisi*

Un lavoro (appena messo on line)  dell’ufficio studi della Banca d’Italia modellizza le fragilità delle imprese italiane. Ne sono autori Antonio De Socio e Valentina Michelangeli, ambedue del servizio studi di Via Nazionale (Modelling Italian Firms – Financial Vulnerability. Bank of Italy Occasional Paper No. 293).

Nel lavoro viene elaborato un modello per valutare l’evoluzione della vulnerabilià finanziaria delle imprese utilizzando dati micro-economici (e micro-finanziari) al fine di tenere conto della differenza dei settori e dei comparti, nonché di quella che può essere chiamata la loro “demografia” (da quanto tempo sono sul mercato). La analisi micro – è questo uno degli aspetti significativi del lavoro – viene integrata con considerazioni e stime macro economiche al fine di stimare l’andamento dell’EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization, acronimo  inglese che in italiano viene comunemente tradotto Margine Operativo Lordo, o MOL) le spese per interessi, ed il debito finanziario per ciascuna impresa individuale in un orizzonte di due anni.

In questo modo, si ottiene una previsione delle percentuale della aziende italiane che possono essere considerate “vulnerabili” dal punto di vista finanziario; ad esempio quelle il cui EBITDA, o MOL, è negativo o quelle le cui spese per interessi sono pari al 50% dell’ EBITDA, o MOL od ancore quelle il cui indebitamento tende ad aumentare.

Applicando il modello ai dati del 2013 per 660.000 imprese (dati disponibili nel 2015), lo studio stima un aumento delle imprese “vulnerabili” nel 2014 ma una loro contrazione nel 2015 (quando si sono avvertiti i flebili segnali di una ripresa dell’economia reale e c’è stata una riduzione significativa dei tassi d’interesse). Il modello viene anche impiegato per tratteggiare scenari di stress finanziario (sulle imprese del campione).

Lo strumento è senza dubbio di grande utilità. Tuttavia, una pubblicazione più tempestiva delle previsioni (sempre che i dati siano disponibili) potrebbe essere più significativa, specialmente in una fase (come l’attuale) in cui i segnali di ripresa si stanno affievolendo e ci sono avvisaglie di una deflazione. Potrebbe essere utile non solo ai fini delle decisioni della Banca centrale europea (quali quelle che il Consiglio dell’Istituto con sede a Francoforte dovrà prendere il 10  marzo) ma anche e soprattutto come input nelle politica tributarie nazionali. Imprese vulnerabili  vogliono dire Italia vulnerabile.

* Presidente del board scientifico del Centro Studi “ImpresaLavoro”

Il lessico delle tasse

Il lessico delle tasse

di Giuseppe Pennisi*

Le tasse e le imposte hanno un proprio lessico, anzi una propria lingua, non necessariamente per ragioni tecnico-giuridiche, ma allo scopo di “mascherare l’ideologia e farla apparire scienza”. Lo documenta Richard E. Wagner della George Mason University, fortilizio liberista non troppo distante da Washington. Il paper diffuso on line a fine febbraio si intitola “The Language of Taxes: Ideology Masquerading as Science” ed è il George Mason University Paper Np 16-1.

Il lavoro parte dalla premessa che la scienza delle finanze ed, in particolare, la teoria della tassazione marcia su due differenti binari. Uno cerca di dare una spiegazione scientifica a perché esistono tasse ed imposte e a spiegare la tipologia di tributi che questo o quel Governo di questo o quel Paese crea; su questo binario, di politica economica “positiva” perché studia la realtà effettuale delle cose, viaggiano le analisi delle differenti strutture tributarie. L’altro binario è “normativo” o “esortativo”: il suo obiettivo è quello di istruire Governi su come “estrarre tasse dalla popolazione”. “Non c’è nessuna buona ragione – scrive Richard E. Wagner – perché un economista interessato alla teoria non possa contribuire ai due filoni”. Non può farlo allo stesso tempo, perché “la posizione del «partigiano politico» è profondamente differente da quella dell’«analista economico» ed anche da quella dell’«analista politico». Le due tipologie impiegano linguaggi spesso differenti. Tuttavia, in certi casi, “due distinti ruoli e le loro formulazioni si confondono perché in certi aspetti il lessico tributario può provocare intrecci tra punti di vista ideologici ed analisi scientifiche”. Dopo avere definito queste due visioni della teoria della tassazione, il resto del saggio esamina differenze e possibili commistioni nei linguaggi delle due scuole di scienza delle finanze, ovviamente in anglo-americano, con l’obiettivo di una distinzione netta tra una visione e l’altra, soffermandosi soprattutto sull’imposta personale dei redditi e sull’imposizione sulle transazione.

C’è un problema simile anche da noi? Certamente sì. Lo documenta un paper di Barbara Annichiarico e Claudio Cesaroni, ambedue dell’Università di Roma Tor Vergata: Tax Reform and the Underground Economy- A Simulation- Based Analysis, CEIS Working Paper N0 366. Il lavoro studia varie “riforme tributarie” italiane che non hanno raggiunto i loro obiettivi perché non hanno tenuto conto dell’economia sommersa – trascurata dai tributaristi “normativi” od “esortativi” ma al centro delle riflessioni di quelli “positivi”.

* Presidente del board scientifico del Centro Studi “ImpresaLavoro”

Cattaneo (Forza Italia): “Il troppo ottimismo offusca le previsioni”

Cattaneo (Forza Italia): “Il troppo ottimismo offusca le previsioni”

di Alessandro Cattaneo*

Cattaneo1È davvero interessante e preoccupante vedere la grande differenza che c’è fra le previsioni di crescita del Pil fatte ogni anno dai vari governi italiani che si sono succeduti ed i reali risultati veramente raggiunti. I dati dello studio di ImpresaLavoro fanno riflettere sul come troppo spesso nel nostro Paese si proceda con il fare annunci troppo ottimistici che non consentono di disporre di previsioni macroeconomiche serie e utili.

*Ufficio Presidenza e Responsabile nazionale Formazione Forza Italia. Già sindaco di Pavia.

Quando i bilanci sono destinati a diventare grigi

Quando i bilanci sono destinati a diventare grigi

Con questa nota, il Presidente del Board Scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro, Giuseppe Pennisi, inaugura una rubrica settimanale nella quale selezionerà alcuni dei principali contributi della letteratura economica internazionale.

di Giuseppe Pennisi

Da anni, gli economisti si interessanno a quella che può essere  chiamata la “greying economy” (l’economia che, a causa dell’invecchiamento, si “ingrigisce”, ossia diventa canuta) e delle implicazioni principalmente in termini di mercato del lavoro, sanità e previdenza. Esce, in questi giorni, uno studio che per la prima volta analizza le implicazioni della greying economy sui bilanci pubblici. Lo studio, organizzato dalla Banca mondiale, può essere scaricato gratuitamente da questo link:

“Greying the Budget: Ageing and Preferences Over Public Policies”
World Bank Policy Research Working Paper No. 7555

Ne sono autori Luiiz R. De Mello dell’Ocse, Simone Raphaela Schotte della Banca mondiale, Erwin Tiongson della Georgetwon University, e Herman Jorge Winkler della Banca mondiale.

Il lavoro ha un approccio differente rispetto a studi che hanno affrontato il problema negli ultimi anni e che hanno visto nella greying economy una spinta all’aumento della spesa pubblica a fini previdenziali, sanitari ed assistenziali. Esamina, invece, come le preferenze individuali cambiano durante il ciclo vitale.

Utilizzando la Life in Transition Survey II, un’indagine statistica molto dettagliata condotto dalla Banca mondiale e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo nel 2010 (con questionari ed interviste dirette a 40.000 famiglie in 34 Paesi dell’Europa e dell’Asia centrale). E conclude che gli individui anziani tendono a non supportare un aumento della spesa pubblica in istruzione ma, ovviamente, favoriscono un incremento di quella in pensioni.

Questi risultati sono abbastanza simili quale che sia il Paese (l’indagine riguarda sia economia di mercato avanzate sia economie ancora in via di sviluppo) e non varia utilizzando specificazioni alternative del modello statistico di elaborazione dei dati oppure anche le fonti dei dati (nei Paesi in cui sono state utilizzate più fonti). Non solo: utilizzando incroci ripetuti dei dati, la analisi confermanp i risultati principali.

Il lavoro conclude che questi esiti combaciano con un vasto corpo di letteratura secondo il quale, nelle economie in corso di invecchiamento, il conflitto intergenerazionale sull’allocazione della spesa pubblica probabilmente diventerà più intenso.

In Paesi emergenti, dove la tassazione raramente supera un terzo del Pil, ciò implica anche la ricerca di un maggior gettito fiscale. Nelle economie avanzate, dove la pressione e l’oppressione fiscale hanno raggiunto livelli insopportabili, si dovrà fare ricorso a risparmi privati.

 

I neomarxisti del welfare e del parassitismo

I neomarxisti del welfare e del parassitismo

di Carlo Lottieri

Ammettiamolo: c’è uno spettro che si aggira di nuovo per l’Occidente e questo spettro – di nuovo – è il marxismo. Se in America pare abbia qualche chance di successo uno come Bernie Sanders e i laburisti inglese hanno scelto quale presidente Jeremy Corbin, questo vuol dire che il successo editoriale di un Picketty o l’avanzata elettorale del nuovo socialismo nel Sud Europa  (dalla Grecia alla Spagna, alla stessa Italia dei teorici dei “beni comuni”) non sono fatti di poco conto. Il clima politico e culturale è sempre più favorevole alle tesi di Karl Marx.

E al tempo stesso colpisce dover constatare come questa riverniciatura del Capitale prescinda da un tema che era centrale in quel complesso lavoro, e cioè il tema della produzione.

Nel suo sforzo di leggere il procedere della storia, la filosofia marxiana si basava su un progetto preciso: si trattava di “superare” il capitalismo, a cui era comunque riconosciuto il merito di avere espresso una capacità di trasformazione del mondo mai vista in precedenza. D’altra parte Marx visse a lungo a Londra, che era il cuore dell’economia liberale, ed era persuaso che la rivoluzione proletaria si sarebbe affermata nel mondo di lingua inglese, avanguardia del capitalismo più dinamico. Rileggendo la storia in termini economici, egli intendeva enfatizzare il dato cruciale della produzione come motore primo del cambiamento sociale.

Se la modernità aveva esaltato la creatività economica, al socialismo spettava il compito di andare oltre, eliminando l’iniquità della sottrazione del plus-valore.

Sotto vari punti di vista, il nuovo socialismo che pretende di richiamarsi al filosofo di Treviri si regge allora su due elementi che erano assenti in Marx: la redistribuzione operata dal welfare State e l’ecologismo. In questo senso, i vari Tsipras utilizzano i richiami al materialismo dialettico solo per evocare slogan avversi al capitalismo, incuranti di questioni che erano invece cruciali nella riflessione di Marx. In effetti una teoria che ignori i temi della produzione non può dirsi marxista ed è chiaro che la nuova sinistra che si colloca tra Syriza e Podemos, e che trova perfino più di un’eco nei Paesi anglosassoni, non è primariamente interessata a come produrre, ma solo ai processi allocativi. La ricchezza non esce dall’impresa e non emerge dagli scambi: semmai essa è uno stock, che oggi è iniquamente distribuito. La rivoluzione non è allora invocata per cambiare i sistemi di produzione, ma per togliere a qualcuno e dare a qualcun altro.

E così si può prendere ai tedeschi per dare ai greci, ma anche alla finanza per dare ai lavoratori, all’1% per dare al 99%. Se il marxismo era comunque una filosofia della produzione, questa sua rivisitazione mediterranea si focalizza sulla redistribuzione e sull’idea che tutti gli uomini hanno diritto alla soddisfazione dei loro desideri. Non a caso, oggi cresce il numero di quanti sono favorevoli a quell’espansione monetaria che è in grado di fare avere banconote (seppure inflazionate) a tutti.

Le premesse teoriche di tale rilettura distorta del marxismo, che ne muta profondamente vari presupposti, erano già per certi aspetti riconoscibili in un movimento intellettuale che coinvolse soprattutto economisti e filosofi come Philippe van Parijs, Jon Elster, G.A. Cohen e altri, riuniti in quello che si autodefinì come September Group. Per vari anni a partire dal 1979 questi studiosi si incontrarono a Londra e altrove con l’obiettivo di rielaborare il marxismo alla luce della filosofia analitica, ma quella che ne derivò fu soprattutto una visione che impose nel dibattito pubblico il “basic income” (reddito di base) e, più in generale, una teoria della redistribuzione che criticava “da sinistra” le tesi di John Rawls.

La celebrazione dello Stato quale dispensatore di benefici – in un articolo Van Parjis difese pure il diritto dei surfisti di disporre di un reddito di cittadinanza che permettesse loro di divertirsi tutto il giorno – discende da un vero disinteresse per l’economia quale attività produttrice. E qui entra il campo la riformulazione della sinistra operata dall’ambientalismo.

Mentre il marxismo riconduceva la prosperità al lavoro umano, per gli ecologisti la vera ricchezza è nella natura. La ricchezza sono le risorse. Ma se le cose stanno così, si capisce come l’attenzione si sposti dall’esigenza di produrre a quella di distribuire. Per taluni di questi neo-marxisti ogni proprietà stessa è viziata dal peccato originale di un’occupazione originaria che ha sottratto terra, acqua o altro dalla comune disponibilità di tutti.

In Marx non c’è nulla che ne possa fare un ecologista e un fautore di politiche che collettivizzano i profitti per costruire rendite parassitarie. Ma nell’Europa meridionale innamorata dei “diritti sociali” ci si presenta come marxisti al solo scopo di salvare prebende. Questo gioco però non può durare in eterno, dato che – come disse Margaret Thatcher – il dramma del socialismo è che i soldi degli altri prima o poi finiscono. E insomma il tema della produzione non può essere del tutto eluso e per sempre.